Sunday 9 September 2012

Morire e Vivere

Morire e Vivere 
di Geshe Gedun Tharchin 
2003


Per il buddismo è molto importante avere una motivazione corretta per intraprendere qualsiasi attività, perché attraverso il modo in cui si matura l’intenzione e la motivazione si può cambiare e modificare il risultato e la visione della realtà.

Tutte le tradizioni religiose usano la preghiera come mezzo per sviluppare la corretta motivazione e in particolare nel buddhismo la preghiera è intesa come un processo di "familiarizzazione" con la corretta motivazione. La preghiera non deve necessariamente essere qualcosa da recitare verbalmente, ma piuttosto è espressione profonda dell’intenzione del cuore ed è proprio ciò che la rende vitale, importante ed efficace.

Secondo la visione buddhista la mente è la chiave essenziale per trasformare tutto gli elementi che ci costituiscono e che sono principalmente il corpo e la coscienza.

Come praticanti di Dharma è molto importante, soprattutto all'inizio, porre l'accento sulla nostra attività mentale. Tutti i canti, i rituali e le cerimonie che possiamo fare sono solo strumenti utili, ma secondari per lo sviluppo e la trasformazione della mente. La mente è intesa come l'elemento che, se trasformato, ci permette di cambiare la nostra intenzione verso qualsiasi attività vogliamo intraprendere nella nostra vita quotidiana.

Tramite il cambiamento delle proprie intenzioni e motivazioni una persona può trasformare il corso della propria vita e il corso di tutte le vite che seguiranno.

Oggi parleremo del morire e del vivere secondo la tradizione Vajrayana. Il concetto di morire e vivere o vivere e morire è molto importante e dovrebbe essere costantemente presente nella nostra pratica poiché la nostra vita può essere vista come il risultato di molte piccole morti quotidiane.

Sono un credente ma sono consapevole di non poter avere certezze indiscusse e quando vado a dormire la sera non sono sicuro se mi sveglierò la mattina dopo. Il processo con cui arriviamo alla fase di sonno profondo è per molti aspetti simile a quello che attraversiamo nel processo del morire. La realtà della morte è molto interessante ed è anche estremamente semplice, più di quanto si possa pensare; non dobbiamo vedere la morte come qualcosa di spaventoso e difficile da affrontare, è parte della vita.

Essere vivi ci porta gioia proprio in virtù delle nostre particolari capacità, come la consapevolezza e la capacità di agire, ma, di fatto, l'essere vivi in sé non sarebbe possibile se non come risultato della fase della morte di cui abbiamo parlato prima. Per esempio, possiamo dire che una buona giornata è il risultato di una buona notte di riposo. Infatti, quando ci addormentiamo perdiamo il contatto con la realtà concreta e rimaniamo in uno stato di semicoscienza, ma questo stato è necessario per recuperare energia ed essere più attivi durante il giorno. Quindi un buon sonno è necessario per avere una giornata positiva e attiva. Ed è vero anche il contrario, cioè che se abbiamo una giornata piacevole, piena di soddisfazione e di attività di successo sarà facile lasciarsi andare ad un buon sonno. Così vediamo una certa interdipendenza tra un buon sonno e una giornata attiva e positiva, e tra una giornata noiosa e una cattiva qualità del sonno. È molto difficile parlare di tecniche e metodi per sviluppare un buon sonno, ma nella tradizione buddhista si crede che ci siano dei 'modi' per influenzare il tipo di sonno o forse decidere a che ora ci si vuole svegliare la mattina dopo. Quindi una persona può familiarizzare con queste questioni attraverso l'attività mentale.

Quello che sto cercando di spiegare è la relazione tra il ciclo notturno, durante il quale dormiamo e il ciclo attivo della nostra giornata, entrambi si influenzano reciprocamente. Quando dormiamo generalmente raggiungiamo una fase di rilassamento durante la quale non possiamo fare alcuna attività particolare.

Nella tradizione Vajrayana, si crede che ci siano alcuni praticanti che sono in grado di praticare con più efficacia il Dharma durante il sonno che durante la veglia. Questo significa che una persona può usare anche il sonno come strumento per la pratica del Dharma. Quindi un praticante di alto livello può usare tutte le ventiquattro ore per praticare il Dharma. Per pratica del Dharma intendiamo il corretto sviluppo delle intenzioni, la corretta consapevolezza e il corretto sviluppo di tutte le nostre qualità.

Una persona che si avvicina alla vita come strumento per la pratica del Dharma vede inevitabilmente la morte come un momento da utilizzare per la pratica del Dharma. Dal punto di vista del praticante Vajrayana, la morte è un evento che capita una volta nella vita ed è un’occasione importantissima e unica per poter potenziare e far crescere la propria realizzazione.

Quindi per un grande praticante la morte rappresenta un tesoro, una preziosa opportunità per sviluppare grandi qualità. Nel corso di questa esperienza c'è la possibilità di espandere e aumentare la propria realizzazione. Secondo la tradizione Vajrayana, il momento della morte per gli esseri ordinari, come noi, è l'unico momento in cui appare la cosiddetta "mente innata". Quando questa mente innata si manifesta al momento della morte, siamo in grado di mantenere uno stato di consapevolezza e di riconoscere questa apparizione e allora possiamo utilizzare tutta la nostra esperienza così da aumentare le nostre realizzazioni. Al momento della morte entriamo in contatto con la natura innata della mente e abbiamo l'opportunità di esplorare le verità espresse nel Dharma. Se invece non riusciamo a sviluppare questa consapevolezza e ci limitiamo a una conoscenza convenzionale e superficiale della verità che abbiamo maturato nel corso della vita, la nostra percezione di tutte le cose che affrontiamo sarà quella di esseri ordinari con un livello mentale poco raffinato.

Per poter riconoscere la manifestazione di questa mente innata è necessario prima cercare di familiarizzare con il processo di disintegrazione dei cinque aggregati che avverrà al momento della morte. Il Sé è composto dai cinque aggregati e durante il processo della morte questi cinque aggregati si dissolvono secondo un graduale sviluppo in diverse fasi, che è stato studiato, ed è più o meno lo stesso per tutti.

La disintegrazione dei cinque aggregati è legata ai quattro elementi che li costituiscono e quindi la disintegrazione di uno produce la dissoluzione degli altri. I quattro elementi sono terra, acqua, fuoco e aria (vento). L'ordine in cui questi quattro elementi sono indicati è lo stesso dell'ordine in cui si dissolvono, quindi il primo è la terra, il secondo è l'acqua, il terzo è il fuoco e l'ultimo è l'aria (vento) che si dissolve nell'ultimo stadio di coscienza.

Nella fase di dissoluzione dell'elemento terra ci sono esperienze particolari che accadono dentro di noi. Allo stesso modo, quando si dissolve l'elemento acqua, ci saranno esperienze particolari specifiche di questo stadio. Lo stesso accade quando si dissolve l'elemento fuoco e quando si dissolve l'elemento aria. Quest'ultimo elemento produce segnali specifici nella coscienza. Questo processo di disintegrazione è correlato con i nostri cinque sensi, così quando la disintegrazione dei quattro elementi progredisce avviene la disintegrazione e la dissoluzione dei nostri cinque sensi.

Allo stesso modo nel sonno alcuni di questi elementi si dissolvono, ecco perché i cinque sensi non sono più attivi. I praticanti dunque cercano di seguire il processo con cui moriamo nel momento di passaggio dalla veglia al sonno. Per un grande praticante andare a dormire è un'ottima occasione per cercare di riconoscere questi segnali. Quindi se andiamo a letto troppo tardi e siamo sfiniti dalla fatica quotidiana non possiamo fare questo tipo di pratica. Sarebbe bene andare a dormire con qualche riserva di energia, sia fisica che mentale, per poter affrontare questa pratica.

Nella morte dopo la dissoluzione dei quattro elementi i nostri sensi esterni sono completamente spenti e a quel punto siamo definiti clinicamente morti. Tuttavia, nella tradizione Vajrayana questo stadio non può essere ancora stabilito come completamento della morte in quanto si ritiene che ci siano altri quattro stadi da attraversare per raggiungere la dissoluzione della coscienza.

La nostra coscienza può essere osservata in due livelli principali. Il primo livello, grossolano e superficiale, consiste in emozioni disturbanti, mentre il secondo è un livello più sottile. Per quanto riguarda lo stato grossolano della coscienza ci riferiamo a tre emozioni: attaccamento, odio e ignoranza. Queste tre emozioni disturbanti si dissolvono nell'ordine in cui le abbiamo enunciate e una volta che tutte e tre sono state dissolte appare quella che viene chiamata, con un termine molto bello, la 'luce chiara' che potrebbe essere anche definita come natura innata della mente.

Per spiegare il concetto di 'luce chiara' in un linguaggio comprensibile a tutti possiamo dire che è l'essenza del nucleo stesso della nostra mente. Quando ci riferiamo all'attaccamento, all'odio e all'ignoranza, in questa fase non ci riferiamo alla loro espressione pratica, ma ai segni che queste tre emozioni disturbanti possono generare e solo dopo la loro dissoluzione compaiono in noi quattro segni della natura innata della mente, l'essenza della nostra mente ed è il momento in cui possiamo implementare in essa tutta una serie di conoscenze che abbiamo accumulato nel corso della nostra esistenza e poi metterle in pratica. Questa è una fase molto importante perché è quella in cui diamo importanza al nostro flusso di coscienza.

I grandi praticanti (yogi) sono capaci di approfittare di questa mente innata, di usarla per meditare, per praticare e per mettere in pratica tutte quelle realizzazioni che hanno raggiunto nel corso della loro esistenza. Ci sono alcuni grandi Lama, e io ne sono stato testimone, che in realtà muoiono clinicamente e mantengono la posizione di meditazione e in apparenza, a livello fisico, non sembrano essere morti, eppure quando finiscono la loro meditazione il corpo crolla e cade. In questo caso per grandi Lama non intendo persone a cui sono state affidate prestigiose cariche e onorificenze, ma persone molto semplici che hanno praticato il Dharma per molto tempo. Alla fine di questa meditazione, usando la mente innata, separano la mente dal corpo e allo stesso tempo passano nello stadio intermedio della vita chiamato "Bardo".

Tutte queste parole per definire la vita, la morte e le varie fasi intermedie sono importanti, ma non quanto la nostra volontà di sperimentare questi eventi attraverso la pratica quotidiana e familiarizzare con essa. Quindi, in sintesi, si tratta di avere una costante consapevolezza di tutte le esperienze che viviamo momento per momento nella quotidianità della nostra esistenza.

Secondo quanto enunciato dal Buddha storico nei Sutra, un buon praticante è in grado di essere consapevole in tutte le fasi della sua vita: quando è in piedi, quando mangia, quando dorme... ed è in grado di ricordare intuitivamente qualsiasi momento della sua vita perché cerca di mantenersi costantemente in uno stato di buona e corretta consapevolezza. Di conseguenza se non manteniamo questa consapevolezza quotidianamente nello sviluppo di tutte le nostre attività sarà impossibile quando andremo a dormire o quando moriremo, riuscire a ricordare le nostre esperienze come qualcosa di vivo da utilizzare. Il Buddha stesso ha detto che per poter mantenere un buon livello di consapevolezza quotidiana sono necessarie molta introspezione e attenzione. Questa consapevolezza matura nella capacità di fermarsi almeno un momento e riflettere prima di compiere qualsiasi azione e ci permette di valutare se quell'azione sia più o meno corretta. Questa capacità di prendersi un po' di tempo prima di intraprendere o meno un'attività è la pratica della consapevolezza ed è l'unica che ci permette di condurre una vita virtuosa.

Nella tradizione Vajrayana la pratica della consapevolezza è in qualche modo trascurata perché si dà per scontato che faccia ovviamente parte delle pratiche generali e che quindi non necessita di essere studiata separatamente. Nella tradizione Theravada la parola mindfulness ricorre più frequentemente. Quando si chiede a un maestro Theravada che tipo di pratica dovremmo fare al momento della morte, egli dirà sicuramente che dovremmo vivere cercando di mantenere la nostra consapevolezza. Se andiamo da un maestro Vajrayana, ci spiegherà tutta una serie di cose complicate come i quattro elementi e i processi di dissoluzione e alla fine non ricorderemo nulla di tutto ciò.

Il punto d'incontro di queste due tradizioni è che hanno in comune il fatto di voler morire con un atteggiamento mentale positivo, con la mente virtuosa. Dobbiamo dunque cercare di applicare entrambi i metodi poiché abbiamo la fortuna, essendo in Occidente, di vivere in un contesto in cui molte tradizioni buddhiste si sono incontrate. Per diventare consapevoli del momento della morte, anche se non siamo coscienti di tutti i fenomeni di dissoluzione, dobbiamo avere una buona pratica di consapevolezza. Pertanto, l'attenzione deve essere concentrata sul mantenimento di un atteggiamento mentale positivo e di una mente virtuosa e aperta.

Da quando sono in Occidente ho incontrato molte tradizioni diverse: oltre al Chan/Zen e al Theravada, che non facevano parte del contesto tibetano, altri lignaggi come il Kagyu e il Nyingma, di cui non sapevo molto quando studiavo nel mio monastero, e naturalmente il cristianesimo. Possiamo attingere a tutte queste belle tradizioni per arricchirci ulteriormente.

Questo è uno dei vantaggi della civiltà occidentale, quello di vivere in un contesto multiculturale e democratico che ci permette di conoscere cose diverse, senza la mentalità chiusa che ci porta a dire: "Quello che faccio io è meglio di quello che fanno gli altri". Questo atteggiamento è sbagliato e mostra l'ignoranza che è all'origine di tutte le nostre miserie. Distruggere questo atteggiamento e aprirsi agli altri è uno degli obiettivi della pratica del Dharma, e quando ci si apre agli altri, si ha la possibilità di ricevere molto e di favorire la propria crescita spirituale. Quindi bisogna avere anche una buona capacità di introspezione e soprattutto consapevolezza perché, senza queste qualità, si rischia di prendere non solo cose buone ma anche cose cattive.

La parola ignoranza è un termine che nel buddhismo potrebbe essere spiegato in molti modi e con diversi livelli di introspezione, tuttavia qui lo interpretiamo come piccolezza mentale. Accettare o considerare qualcosa come positivo solo perché “è mio” è un sintomo di chiusura mentale ed è un atteggiamento fortemente egocentrico. Secondo una definizione tibetana questo atteggiamento può essere tradotto come "aggrapparsi a se stessi". La frase simbolica per definire questo atteggiamento mentalmente sbagliato dice: "Questo è buono perché mi appartiene".

Nelle scuole di filosofia per la definizione di questo concetto si studiano enormi volumi per descrivere in profondità quello che stiamo dicendo. L'ignoranza può essere definita come una mente ristretta e come attaccamento a se stessi, chiarendo così la relazione tra ignoranza ed egocentrismo. Uno dei primi obiettivi è quello di distruggere questi atteggiamenti mentali sbagliati che sono fonte e origine di tutte le nostre miserie e purtroppo è anche vero che molti praticanti buddhisti sono inconsapevolmente permeati da questa grande ignoranza.

A volte ci sono persone considerate grandi praticanti perché mostrano una conoscenza erudita del buddhismo e che però possiedono anche una grande ignoranza a causa di una mente ristretta. A volte avere una conoscenza esclusivamente teorica del buddhismo, priva di umiltà e comprensione profonda delle cose, può essere un motivo di chiusura mentale, ma questa è solo una mia opinione e può essere sbagliata.

Vivere e morire dovrebbero essere entrambi parte della nostra esistenza da sperimentare con consapevolezza. Vivere in consapevolezza e morire in consapevolezza è il consiglio dato nella tradizione Theravada che, secondo me, è la tradizione che ci riporta più direttamente all'essenza del messaggio del Dharma.

 

Domanda: Nel corso di una morte accidentale cosa succede a una persona?

Risposta: È una morte più complicata. Se uno arriva al coma a causa di una malattia e ci arriva gradualmente, questo processo di dissoluzione può durare più a lungo. Coloro che muoiono per malattie particolari che portano gradualmente al momento della morte sono in qualche modo più fortunati perché questa gradualità permette più tempo per portare alla mente tutte le loro esperienze e sfruttare al massimo questa opportunità. È una buona opportunità per riflettere in modo lento e graduale. Se sei un buon praticante, se muori per un incidente o per un evento violento di qualsiasi tipo, c'è la possibilità di riportare alla mente tutta l'esperienza in quel particolare momento, ma ci deve essere una consapevolezza straordinaria. Gandhi al momento della morte, dopo che gli avevano sparato, era in grado di invocare il nome 'Ram', l'equivalente di Dio. L'attacco mortale non fu un evento che lo disturbò al punto da sconvolgere la sua calma mentale, riuscì a mantenerla intatta... grande consapevolezza.

 

Domanda: Il modo in cui moriamo influenza la rinascita?

Risposta: La natura della rinascita sarà decisa dall'impronta che si dà alla mente innata in quel particolare momento. La morte è un'opportunità unica e in un certo senso ci esercitiamo per tutta la vita per prepararci a quel particolare momento. Se in quel momento diamo l'imprinting con sentimenti di rabbia, questo può causare reincarnazioni in quello che chiamiamo il Reame Inferiore. È come una e-mail, puoi scrivere pagine e pagine di messaggi sul tuo computer, ma se sbagli l'indirizzo del destinatario si perde tutto il lavoro... il lavoro della nostra vita. È uno dei segreti del buddhismo.