Wednesday 20 November 2013

Avaloketsvara e La Grande Compassione




La Grande Compassione - Pratica di Avaloketesvara



Geshe Gedun Tharchin
2008














INDICE



Nota dell’Autore
Capacità della Mente nel Lo Jong di riconoscere la confusione dei tempi
degenerati 
Risultati della pratica del Lo Jong e applicazione del Tong Len 
Pratica di Avalokitésvara. La Grande Compassione 
Il significato del Rifugio e della Terra Pura 
Conclusioni 










Author’s note


This is the last Dharma talks I delivered in Torino during the weekend of 11 - 12 October 2008. The talks were delivered in English and translated into Italian by Dharma friend Roberto Volpon. The registration and transcription of the talks accomplished by Dharma friend Renata Simonotti. I am grateful of their gentleness and enthusiasm in Dharma, which made possible this work to share with many people. I wish that may it will become a resource for well-being of all sentient beings.

Gedun Tharchin












*****

Capacità della Mente nel Lo Jong di riconoscere la confusione di quest’epoca degenerata.


Apriamo questo incontro di Dharma recitando insieme la preghiera del Rifugio.
(segue preghiera)

Portare il Dharma in un’altra nazione non è cosa facile. Anche in Tibet, territorio sconfinato, il suo avvento dall’India ha incontrato numerosi ostacoli, e le difficoltà non sono nemmeno mancate quando lo si è reintrodotto alla fonte originaria, in Nepal e in India e, ovviamente, gli impedimenti maggiori si sono presentati quando è approdato in occidente.
E’ dunque positivo e particolare che esistano luoghi in cui le persone possano incontrarsi per parlare di Dharma approfondendone la conoscenza.
In passato nel Tibet vivevano grandi Lama, che purtroppo stanno scomparendo e, quando non ne resterà in vita nessuno, si compirà la fine di un periodo fertile e si cementeranno questi tempi bui. I grandi maestri scompaiono, il mondo moderno è cambiato e la pratica del Dharma deve affrontare più impedimenti e meno agevolazioni e condizioni favorevoli; così si prospetta un periodo particolarmente arduo per l’insegnamento, per l’ascolto e per la pratica del Dharma.
Le difficoltà e gli ostacoli alla pratica del Dharma non dipendono dalla colpa di qualcuno in particolare, sono il risultato del momento storico decadente in cui, in inscindibile connessione, i tempi e la mente si deteriorano, le qualità si depotenziano e sviliscono e tutto degenera.
Se da un lato la modernità ha apportato un rinnovamento, un miglioramento delle condizioni di vita, dall’altro non vi è altrettanta corrispondenza in una crescita delle qualità umane, della mente umana.
Possiamo constatare la decadenza quotidianamente: viviamo in Italia, un paese bellissimo, con un buon clima, economicamente sviluppato, in cui usufruiamo di tutte le comodità, abbiamo ottimo cibo, case belle e confortevoli e spesso ne possediamo più di una, in città, al mare e in montagna, abbiamo un lavoro ben retribuito, una o più automobili, godiamo di periodi di vacanza da trascorrere dove e come vogliamo, seguiamo la moda cambiando frequentemente abiti e possiamo soddisfare tanti desideri.
Abbiamo tante comodità, ma cosa apportano alla nostra vita? un giorno dovremo comunque abbandonarle, e non ci accorgiamo nemmeno che questi agi in realtà ci incatenano ad un sistema consumistico, intrinsecamente insaziabile, che incrementa ogni tipo di complicazioni e ci allontana definitivamente dalla semplicità di una vita sana e costruttiva; questa è decadenza.
La visione materialistica del pensiero moderno definisce questo fenomeno “sviluppo”, ma dal punto di vista dell’essenza della realtà è assoluta “degenerazione”.
Usufruiamo di un’efficiente assistenza medica, accessibile a tutti, ma, nel contempo la medicina è diventata troppo potente, ha travalicato i confini dell’umano e spesso condiziona tragicamente la vita delle persone rendendole assolutamente dipendenti dal rimedio adottato, quasi fossero automi condannati a vivere in uno stato di dipendenza ininterrotto.
Oggi la medicina non lascia la libertà di morire, vuole mantenere in vita ad ogni costo, non si sa bene cosa.
Nella medicina moderna l’essere umano è stato trasformato in un anonima macchina in cui si deve intervenire ad ogni costo aggiustando, sostituendo i pezzi difettosi, affinché continui a funzionare all’infinito, se malamente non importa, basta che non si fermi. In questo modo il corpo è diventato qualcosa di materiale, di meccanico, e ha perduto ogni sua qualità spirituale.
Questa è la degenerazione della medicina.
Non nego assolutamente che esista un effetto positivo e degno di tutto rispetto della medicina moderna, sono stati scoperti farmaci efficaci contro la tubercolosi, i tumori e tante malattie, ma quando si oltrepassano i limiti umani significa che si è caduti in concezioni errate, degenerate.
La stessa decadenza ha coinvolto il sistema economico mondiale; si è in fibrillazione per il crollo delle borse, un tipo di affari che non maneggia direttamente il denaro, si tratta di un gioco perverso di numeri ipotetici che appaiono convulsamente su uno schermo, tutto è virtuale completamente illusorio e le persone non sanno assolutamente cosa succeda al loro denaro, tutto può scomparire in un istante.
Questa è la degenerazione dei nostri tempi che si manifesta nel progressivo aumento della confusione generale.
Al contrario il Dharma non incrementa il disordine o l’illusione, non si ferma nemmeno al sogno delle terre pure o del paradiso, è un’essenza concreta che permette di uscire dalle nebbie del caos e percorrere la chiara via della realizzazione.
Il Dharma non pretende di allontanarci dai problemi, e non sarebbe comunque possibile perché ne siamo immersi, e il desiderio di rifuggirli non è altro che un’ulteriore illusione; ci mostra invece, nella stessa confusione, la visione corretta della realtà, ci permette di comprenderla con chiarezza e di affrontare serenamente e costruttivamente ogni ostacolo.
Un aspetto particolarmente grave della degenerazione dei tempi moderni è la corsa ad armamenti sempre più sofisticati e devastanti. In epoche antiche le armi erano limitate, si poteva uccidere in battaglia un certo numero di nemici con lance, frecce o altro, ma oggi il potenziale distruttivo è in grado di annientare tutto, di sterminare indiscriminatamente militari e civili, sino a cancellare dal pianeta intere aree geografiche.
Con la scusa della sicurezza nazionale si impegnano capitali enormi nella ricerca e fabbricazione di macchine belliche inimmaginabili, sperperando denaro pubblico che dovrebbe essere utilizzato per servizi e benefici a favore delle persone.
Come definire questo stato di cose? “sviluppo” o “degenerazione”?
Dal punto di vista del Dharma è degenerazione, decadenza, senza ombra di dubbio, e su questo dobbiamo riflettere seriamente.
La visione storica dell’universo suddivide il tempo in “eoni”, che possono essere piccoli o grandi. Pare che negli eoni più remoti la vita umana sulla terra fosse lunghissima e che si sia man mano accorciata fino ad arrivare, oggi, ad una durata massima di un centinaio di anni.
Si dice che nei lontani eoni la vita individuale durasse senza difficoltà migliaia di anni, invece in questo eone, pur caratterizzato da manifestazioni di esseri spirituali di grande levatura come il Buddha, il Cristo, Maometto sino ai più recenti Gandhi, Krishnamurti, Martin Luther King, madre Teresa di Calcutta, e tanti altri, la vita è corta, a dimostrazione che siamo in un’epoca difficile, tormentata.
Per realizzare qualcosa di significativo cento anni sono un periodo davvero troppo breve:
  1. i primi vent’anni sono dedicati alla crescita;
  2. i successivi venti trascorrono nelle fantasie, nel sogno di un futuro infinito;
  3. dopo i quarant’anni si è più maturi ed occupatissimi, ci si affanna costruire la solidità, la stabilità, la propria sicurezza;
  4. a sessant’anni si manifestano i primi acciacchi, il corpo e la mente si indeboliscono progressivamente e tante porte cominciano a chiudersi;
  5. a ottant’anni si è nella vecchiaia, le forze sono definitivamente perdute e, se anche si raggiungono i cent’anni, osservando nel dettaglio ogni fase si vede che il tempo dell’esistenza umana in realtà è brevissimo. Questa è la degenerazione dell’età, del tempo di vita.
L’argomento dell’insegnamento del nostro incontro è il “Lo Jong”, la trasformazione della mente, ed è strettamente connesso al riconoscimento della degenerazione dell’attuale era.
Nella confusione quotidiana lo stato mentale è completamente occupato dalle ansie, dai timori, dalle difficoltà, dai problemi.
Il termine Lo Jong è suddiviso in due sillabe, Lo” significa mente, ma non la mente di Buddha che è già sviluppata, liberata, si riferisce alla mente degli esseri comuni che vivono in questa epoca, e che ha bisogno di essere addestrata, educata, esercitata, come indica appunto il termine “Jong”, così che possa essere liberata dal caos.
La mente confusa non è felice, né soddisfatta, né serena, all’interno del meccanismo, “non è giusto”, “non mi piace”, “non va bene”…... si deprime e affonda nel più assoluto condizionamento. Un problema ne porta mille altri, una mente infelice ne genera infinite altre, si alimenta così una situazione progressivamente negativa.
Il Lo Jong è il metodo che trasforma la mente sofferente e problematica in una mente capace di superare ogni tormento e difficoltà, rendendoli anzi strumento di illuminazione.
Il Lo Jong non tende a creare artificiosamente uno stato di gioia, di felicità o di allegria, ma è l’esercizio attraverso il quale la mente impara a riconoscere il reale significato della sofferenza di cui è ammantata e, in questa capacità di capire, apprende la modalità per trasformarla in sentiero verso l’illuminazione.
Praticando il Lo Jong si ha la sensazione di penetrare più profondamente nel tormento riconoscendone con maggior chiarezza l’essenza.
Se invece non si pratica il Lo Jong, ma qualche altro tipo di Dharma con lo scopo di eliminare il dolore e realizzare uno stato di felicità, il benessere apparentemente ottenuto ha una durata limitata e, nel momento immediatamente successivo, ci si ritrova immersi negli stessi problemi, nulla è effettivamente cambiato.
Nel Lo Jong, al contrario, si manifesta visibilmente di giorno in giorno l’effetto della mente che muta nella conoscenza e accoglienza di una sofferenza in grado di divenire cammino verso una stabile pace e serenità.
Il Lo Jong può sembrare difficile, incoerente, ma in realtà è meraviglioso, la sua introduzione in Tibet risale al X° - XI° secolo, era praticato dai grandi maestri Kadampa, di cui il primo è stato Atīsa.
Il Lo Jong, promosso e portato avanti in questo lignaggio, è penetrato in seguito in tutte le grandi tradizioni delle scuole tibetane e ne ha costituito di fatto il cuore, la pratica essenziale, indispensabile, la bodhicitta, la vera intenzione o motivazione che è alla base del Dharma.
Certamente non è facile modificare le situazioni problematiche, complicate e spesso estremamente dolorose, ma se si osserva l’effettiva potenzialità della mente e si inizia lentamente e sistematicamente ad addestrarla nell’intenzione altruistica, poco per volta si scoprirà che si possono affrontare condizioni pesantissime e trasformarle in via di realizzazione, in altrettante occasioni di Dharma. Si comincia piano piano, affrontando dapprima semplici circostanze, sino a giungere a quelle più complesse e difficili.



I risultati della pratica del Lo Jong e applicazione del Tong Len


Iniziamo la sessione leggendo insieme gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente”. (segue lettura pag. 3)

Avete capito bene il significato del Lo Jong?
Lo” è riferito alla mente ordinaria, che affronta la vita quotidiana, e “Jong” è l’addestramento, la trasformazione della mente ordinaria.
A questo punto possiamo chiederci: “cos’è la mente ordinaria?”
La mente ordinaria è totalmente condizionata, resa confusa dagli stessi problemi dell’esistenza, una mente che non trova pace, serenità, riposo, essendo costantemente agitata, mossa dalle ansie e dalle preoccupazioni.
Lo stato ordinario della vita quotidiana è difficile da contrastare, siamo nati con questa mente e siamo abituati a pensare secondo canoni predefiniti, ma ciò che conta è essere consapevoli di questa condizione e riconoscerla, la situazione caotica in cui siamo immersi non ci deve disturbare, perchè solo così abbiamo la possibilità di imparare a confrontarci con una sofferenza che può divenire fonte di gioia e di pace.
Se la sofferenza si mantiene statica e inalterata è causa di ulteriore sofferenza e ciò indica chiaramente che non si è dato inizio al processo di trasformazione della mente, che invece è ben evidente nel momento in cui la sofferenza diventa opportunità di gioia, di pace.
Nel Lo Jong non si afferma di dover riconoscere un particolare Buddha, nel suo palazzo divino, con le sue specifiche eccelse qualità, ma si insegna semplicemente ad entrare in contatto con la situazione immediata, concreta, della propria vita, con la realtà del condizionamento e della sofferenza e a scoprirne l’essenza, così da poter trasformare il negativo in positivo, le circostanze difficili in favorevoli, il nemico in amico; questa è la pratica del Lo Jong, della trasformazione della mente.
Si soffre per gli amici, si è preoccupati, si è attaccati, possessivi, e l’amicizia è fonte di sofferenza, e poi si soffre per i nemici, si matura risentimento, offesa, avversione; in entrambi i casi si soffre.
Si soffre perchè si cercano facilitazioni nella vita e non si ottiene nulla o se ne riceve solo una parte, si soffre per la moltitudine di problemi che la quotidianità ci propone, si è insoddisfatti di ciò che si possiede e angosciati dai problemi che non si vogliono.
Il primo passo del Lo Jong consiste proprio nel comprendere che tutti gli aspetti dualistici sono fonte di sofferenza, e nel voler uscire dalla costante dicotomia di giudizio: “bianco - nero”, “buono -cattivo”, “bello brutto”.
Il Lo Jong insegna a liberarsi dal dualismo che produce ulteriore sofferenza.
Il Lo Jong è una pratica importante, e non necessita di nulla, ovunque voi siate, in qualsiasi circostanza e tempo, potete praticare.
Il Lo Jong e il Tong Len sono due pratiche interconnesse.
Si soffre perché si desidera la felicità e il benessere e si soffre perché non si vuole la sofferenza e si fugge dai problemi.
Nel Tong Len, la pratica del “dare e ricevere”, si prova l’immensa gioia di offrire agli altri le proprie virtù, qualità e meriti, e di prendere i loro problemi e negatività.
Agendo in questo modo la sofferenza che nasce dalla preoccupazione di felicità e dalla preoccupazione del dolore svanisce, c’è la gioia, nel Tong Len, di dare agli altri la felicità e accogliere la loro sofferenza.
Il desiderio di felicità e di non sofferenza è sostituito e superato dalla compassione che non teme il dolore e non desidera una felicità illusoria.
La pratica del Tong Len è semplice, consiste nel maturare l’attitudine a dare le qualità e prendere i problemi, offrire agli altri la felicità e accogliere la loro infelicità, è come trovarsi in una condizione in tutti siamo ugualmente affamati, ma noi abbiamo del pane che, con gioia, diamo agli altri, tutto qui, è semplice.
Riguardo al Tong Len ci sono interpretazioni estremamente fantasiose, qualcuno pensa che sia una pratica di guarigione “Prendo su di me la malattia dell’altro, lui si risana, e io mi posso ammalare”, ma questa è follia totale, perché si ridurrebbe la realtà profonda, universale, incommensurabile, della bodhicitta ad una piccola attività per curare il mal di testa.
Simili fraintendimenti sono quasi scontati nelle società sviluppate, è normale manipolare gli eventi secondo concetti di efficienza industriale, tanto da inquadrare anche il Tong Len in parametri pragmatici e utilitaristici, lo si pubblicizza scrivendo libri di facile lettura e di cui si vendono moltissime copie diventando anche famosi e ricchi, un ulteriore espressione del condizionamento del Dharma in un’epoca degenerata.
Per praticare il Tong Len è necessario prima comprendere il significato del Lo Jong, la trasformazione della mente, e solo sulla base di questa consapevole acquisizione è possibile attuare la pratica del “dare e ricevere”.
Il Lo Jong insegna ad addestrare la mente che soffre, e il primo risultato è perlomeno imparare a non soffrire più del necessario.
E’ necessario osservare con chiarezza alcuni interrogativi di base: “cos’è questa mente?” “cos’è questa mente sofferente?”, “cos’è questa sofferenza della mente?”
Si apprende a penetrare nel significato della sofferenza esaminandone tutti gli aspetti: è attaccamento? avversione? confusione?
Senza questa analisi si rimani bloccati nel desiderio di essere felici, senza sapere cos’è la felicità, nel desiderio di non soffrire, senza sapere cos’è la sofferenza.
Riflettere su questi aspetti induce la cognizione della sofferenza e genera l’attitudine alla trasformazione della mente: la sofferenza che non si voleva, diventa l’oggetto da ricevere, e la felicità che si è sempre cercata, diventa l’oggetto da dare. In questo modo si esce dal dualismo che impediva la corretta visione della realtà, si è liberi da ogni giudizio e pregiudizio su felicità e sofferenza.
Questa è la via di uscita e, anche se non esiste nessuna coercizione, né obbligo, né punizione in caso non la si applichi, non c’è comunque nulla da perdere, dunque perché non provarci?
Lo Jong e Tong Len sono solo quattro parole, ma talmente affascinanti e misteriose per cui potremmo essere indotti a pensare che forse solo Buddha ne possedesse la piena comprensione, trasmessa direttamente ai suoi discepoli, di generazione in generazione che, di conseguenza, ne sarebbero gli unici depositari.
Ma non è così, Lo Jong e Tong Len sono una realtà che ciascun essere ha dentro di sé. I discepoli del Buddha attraverso il dono della spiegazione ci facilitano la comprensione, il riconoscimento del suo immenso valore. E’ come trovarsi di fronte ad una grande torta, tutti se ne possono servire, ma chi non ne vuole lascia liberamente la sua fetta nel piatto, ne godrà qualcun altro, non c’è coercizione, né obbligo.
Io viaggio spesso e alla stazione Termini incontro tanti barboni, ieri, alla partenza per Torino, ho visto due signore che dormivano su una panchina, probabilmente due sorelle, una accanto all’altra, con tanti sacchi di plastica intorno, la loro intera ricchezza. Anche alla stazione di Zurigo è praticamente stanziale un’anziana signora su una sedia a rotelle, e allora ho pensato che forse queste persone sono grandi praticanti, non posseggono nulla, proprio come gli yogi del passato che donavano tutto, e non ho potuto non paragonarli ai Lama di oggi, così imponenti in palazzi riccamente decorati, serviti in ogni necessità e per i loro spostamenti dispongono di automobili con tanto di seguito. Questo non è Lo Jong, non è Tong Len, anzi è esattamente l’opposto.
La pratica del Lo Jong e del Tong Len è caratterizzata dal dare e non dal preoccuparsi di ricevere, è una qualità intrinseca all’essere umano, è un Dharma naturale, è parte della natura dell’essere e nessuno può rivendicare di esserne depositario esclusivo.
L’attuale società è sopraffatta dalla confusione e proprio per questo è necessario praticare il Lo Jong, la trasformazione della mente, in modo da contrapporre al caos una poderosa accumulazione collettiva di meriti.
Riguardo all’acquisizione di meriti nel sentiero spirituale ci sono tanti modi differenti di concepirla, ordinariamente si offrono ad esempio centomila candele, centomila incensi, centomila prosternazioni, ma nel Lo Jong si esprime in modo profondamente diverso, e la stessa confusione stessa diventa fonte di merito.
Quanti più problemi, difficoltà, caos la persona abbia, attraverso la loro trasformazione, tanti più meriti realizza. Quindi la propria modalità di acquisizione di meriti esiste già di fatto, è sufficiente prendere atto dell’enorme ricchezza disponibile, costituita da disordine, problemi, difficoltà; non c’è null’altro da fare.
Probabilmente conoscete la storia di Bodhidharma, un prezioso yogi indiano che portò il buddhismo in Cina. Egli rimase per nove anni in meditazione silenziosa rivolto verso un muro.
L’imperatore cinese dell’epoca, fervente seguace del buddhismo, edificava monasteri e sosteneva numerosi monasteri con generose elargizioni; un giorno invitò Bodhidharma nel suo palazzo affinché insegnasse il Dharma e gli confidò di essere un devoto scrupoloso e generoso e di aver operato in modo da acquisire tanti meriti e, a questo punto, desiderava conoscere dal maestro quanti ne avesse accumulati grazie a tutte queste attività.
Bodhidharma lo guardò e gli rispose: “In questo modo tu hai distrutto tutta l’accumulazione di meriti che avevi, ora hai finito i tuoi meriti, io non verrò nel tuo palazzo”.
Bodhidharma era un praticante solidissimo, come Milarepa, e molta gente gli chiedeva insegnamenti, che però non era in grado di capire, per questa ragione egli smise di insegnare e si rivolse verso il muro in meditazione silenziosa, aveva constatato che nessuno recepiva quell’insegnamento, ad eccezione di una persona che fu in grado di comprenderlo pienamente nel silenzio, senza che fosse pronunciata una sola sillaba. Il Dharma va oltre le parole.
Nel mondo moderno invece tutto deve essere catalogato, quantificato: due ore di lezione corrispondono a venti euro, tre ore trenta euro, quattro ore quaranta euro e così via; il prezzo dipende da quanto si chiacchiera, così è nella visione materialista dell’industrializzazione e commercializzazione che ha inquinato anche il Dharma e, se lo si pesa in base alla lunghezza del discorso, significa che non lo si è capito per nulla e non se ne conoscono le incommensurabili qualità.
Nel Lo Jong l’accumulazione di meriti non dipende da quante attività meritorie si sono compiute, come costruire templi, sostenere monasteri o altro, ma esclusivamente dall’effettiva trasformazione della mente.
Il sovrano cinese che si affannava a compiere tante azioni per accumulare meriti non avrebbe potuto nemmeno confrontarli con quelli ottenuti dalle anziane signore che, nella loro vita da barbone, praticano probabilmente il Tong Len in assoluto rilassamento e serenità.
Quando ieri sera arrivando in stazione ho visto queste due anziane donne serenamente addormentate una accanto all’altra, completamente serene, rilassate, mi sono fermato a contemplarle e ho paragonato la loro pace con la frenesia del mondo moderno così teso, insicuro, aggressivo, in cui ben pochi possono dormire con tanta serenità.
Questa è l’attitudine degli yogi, dei meditatori del Tong Len, pacificati, già oltre, non più soggetti ad ansie, né paure; eppure, nell’ignoranza ordinaria, la gente si allontana infastidita dai barboni, con paura, pensando a quanto sono sporchi, senza scarpe, a cosa mangiano, a come vivono, a chissà quali batteri e virus possano trasmettere…..
La società industrializzata è schiava di una mentalità ristretta, e lo yogi del Tong Len non vi corrisponde affatto, ne è l’esatto contrario, in qualsiasi circostanza è a proprio agio, ha un’accettazione serena e totale di ogni difficoltà e accumula infiniti meriti.
Il vero yogi meditatore del Tong Len non è riconosciuto come Lama, perché non si veste come un Lama, non abita in palazzi adeguati al suo rango, non esibisce le certificazioni di Lama, non sta seduto in una certa posizione davanti a testi rari, non possiede nessun oggetto prezioso che attesti la sua diretta discendenza dal Buddha nel lignaggio del Tong Len.
Ma così non è scritto da nessuna parte che così dovrebbe essere, è pura e folle fantasia, strutturata solamente a nostra gratificazione, il Buddha non ha mai sostenuto la necessità di tali credenziali.
Il praticante del Tong Len è un perfetto, inosservato, sconosciuto, come ce ne sono tanti e ovunque, camminano per le strade senza esibire segni particolari, né distintivi, né diplomi o autorizzazioni.
Ripeto, in occidente si pensa assurdamente che il Tong Len sia una pratica taumaturgica e molti fantasticano di poter diventare guaritori e di avere il potere di curare il mal di testa di qualcuno, anche se immediatamente dopo si preoccupano di doverne sperimentare personalmente il dolore. Pura follia!
Poiché questa pratica deve essere mantenuta nel segreto, le fantasie si moltiplicano illimitatamente, si vuole scoprirne il potere nascosto, e tutto questo è veramente assurdo e sciocco.
In questo modo si snatura e riduce il Tong Len ad una mera arida tecnica per togliere il mal di testa e si potenzia il proprio ego perché si pensa di avere il potere magico di guarire il prossimo.
Ma il Tong Len è ben più radicale e profondo, è una pratica meditativa semplicissima e potentissima in grado di liberare gli esseri dalla sofferenza, possiede l’attitudine di donare tutte le qualità e di sciogliere completamente dalla sofferenza universale con grande equanimità.
Il Tong Len cambia la persona ordinaria in straordinaria, non è limitato all’eliminazione dei malanni altrui, non muta le condizioni dell’altro perché ognuno ha il proprio karma e risponde personalmente di se stesso.
Il Tong Len trasforma la persona che lo pratica, mostra al meditante la via per uscire dalla sofferenza.
Se è presente qui un guaritore per favore, con tanta compassione, prenda il mio raffreddore così fastidioso!.... No, questo non è proprio possibile, quello che invece è realizzabile è la trasformazione della sofferenza in fonte di gioia, di accumulazione di infiniti meriti. Per questo bisogna essere forti come Milarepa, Bodhidharma e San Francesco.
Domanda: Il karma che accumuliamo si manifesta già in questa vita, o al massimo nella successiva?
Lama: Non sappiamo niente; il karma, sia negativo che positivo, può manifestarsi ora, dopo un minuto, tra molte vite, o anche mai, tutto dipende dall’evoluzione individuale.
Domanda: Noi abbiamo molte paure, come il timore di ritrovarci in ristrettezze se doniamo i nostri beni agli altri, è una preoccupazione normale per tutelare la propria sicurezza o è attaccamento?
Lama: Ognuno è un caso a sé stante e deve valutare personalmente la propria situazione, non c’è una regola generale. Un buon praticante del Tong Len potrebbe apparire agli altri strano, come i barboni della stazione, ma non è necessariamente così, potrebbe condurre una vita normale e, nello stesso tempo, realizzare il Tong Len. Chissà, forse i barboni potrebbero rappresentarne gli yogi più elevati.
Domanda: Ma i barboni hanno consapevolezza di essere yogi del Tong Len? Come si può desiderare di vivere in una condizione così dura?
Lama: La loro è una vita straordinaria, perché non siamo in Asia dove le condizioni sociali sono diverse. Qui il loro coraggio è davvero eccezionale, non si preoccupano di essere famosi, né accettati, né del loro aspetto. Noi forse li consideriamo pazzi e questo è uno degli aspetti della degenerazione dei nostri tempi in cui i peggiori mafiosi sono riveriti, considerati persino onesti e tenuti in grande considerazione perché in grado di ostentare ricchezze e potere.
Domanda: Però in genere il fatto di essere barboni non è una scelta di vita, è piuttosto il risultato di più circostanze sfortunate….
Lama: Non lo sappiamo, non possiamo giudicare nessuna situazione.
Intervento: In ogni caso anche se non ha scelto quella specifica condizione, comunque la vive, e quindi ha coraggio.
La struttura esterna c’entra poco nel Lo Jong , perché magari è molto più difficile fare il direttore di banca e praticare il Tong Len che non essere un barbone.
Io ho chiesto a un barbone se era felice e lui mi ha risposto: “si, molto più di quando ero normale, perché allora non mi bastava mai niente, mentre ora so che al massimo racimolo dieci euro e con quelli campo”.
Domanda: Se voglio praticare il Tong Len a chi lo rivolgo?
Lama: Ai più deboli, ai bisognosi, all’inizio non si comincia con una pratica completa del Tong Len, si parte dalle situazioni più semplici, più facili, poi la si estende progressivamente sino a farla diventare completa, universale.
Domanda: Quindi la meditazione quotidiana sull’impermanenza e sulla vacuità ci aiuta profondamente.
Lama: Sicuro. Nel poco tempo a disposizione è stato possibile spiegare una minima parte del Lo Jong, perché questo insegnamento richiede di essere trattato diffusamente. Cerco solo di trasmettervi almeno i punti essenziali, più concreti e facilmente praticabili.
Traduttore: Scusate vorrei esprimere un’impressione personale, quello di cui mi sono reso conto dopo molti anni è che la chiave di volta è capire che tutto sta nel cambiare l’attitudine mentale, nel riconoscere che solitamente si fanno le cose senza conoscerne la motivazione.
A un certo punto ci si accorge che si agisce con automatismo, perché si è ricevuta una determinata educazione, perché è consuetudine e si intravede la possibilità di avere un’attitudine e un approccio diversi.
Questa consapevolezza è l’interruttore che accende la luce su un mondo diverso, possibile, e credo di concordare perfettamente con la raccomandazione di Geshe-la in cui diceva che non importa quanto si legga o si studi il Dharma per ottenere rilevanti cambiamenti, mentre è essenziale sperimentare la comprensione di quanto è scritto.
Io credo di non averlo realmente compreso fino a quando non è stato evidente nella mia mente che non c’è proprio nulla da cambiare se non la mia attitudine interiore, contrariamente alle sollecitazioni della società che imputa ogni risultanza a fattori esterni, la colpa di tutto è sempre di qualcosa o qualcun altro e dunque questi sono i soggetti e gli oggetti che devono essere cambiati.
Così il barbone è anomalo, lo si emargina, perché la corretta condizione stabilita socialmente è provvedere al proprio agio, accumulare ricchezze, abitare una casa confortevole e ben riscaldata, presentarsi vestirsi alla moda e così via.
Alcuni aspetti sono legittimi, ma la necessità di trasformazione è più che mai reale, pressante, e l’unica cosa che può essere cambiata è la propria attitudine interiore, non certamente la casa o nessun’altra condizione esterna.
Domanda:Vorrei un chiarimento circa i sei reami del samsāra, noi vediamo, oltre al nostro quello degli animali, ma gli altri che sono invisibili interagiscono ugualmente con noi, o no?
Lama: Ci sono due modi di classificare gli esseri dei sei reami, uno secondo i gradi di sofferenza e l’altro secondo una collocazione geografica, ma il livello definitivo appartiene alla sofferenza e non alla territorialità.
Intervento: La compassione è la chiave di tutto perché anch’io mi rendo conto che noi siamo abituati a discriminare ogni situazione, ad esempio studiamo il buddhismo qui o sui libri, ma poi dimentichiamo di trasferirlo nel cuore, di attuarlo, e penso che la pratica del Lo Jong consista nell’essere meno intellettuali e aprire il cuore alla sofferenza di tutti e, anche senza dover necessariamente essere barboni, viverlo nella quotidianità, nel lavoro, nelle relazioni.
Lama: Dobbiamo concentrarci sulla qualità, non sulla quantità. Tutto può essere pratica. Il mio ruolo è quello di insegnare, ma soprattutto ho molto da insegnare a me stesso, non c’è maestro che comanda, siamo amici, tutti condividiamo, sofferenza, dolore, vita.
Concludiamo con la preghiera di dedica.



Pratica di Avalokitésvara. La Grande Compassione


Prima di riprendere l’insegnamento meditiamo la pratica di Avalokitésvara, o Chenresig, in tibetano.

(Segue pratica)

Questa è la meravigliosa pratica del Buddha della compassione, Avalokitésvara, riscalda il cuore e ci rende aperti e disponibili, è la forma della divinità della “Grande Compassione” o “Grande Gentilezza Amorevole”.
Avalokitésvara non è un individuo, ma una emanazione che si manifesta in moltissimi modi, più semplicemente si può dire che è l’espressione della Grande Compassione di tutti gli esseri illuminati, buddhisti e non, non esiste limite ideologico o religioso.
Siamo in Italia, le vostre radici sono cristiane, quindi la domenica mattina è bene partecipare alla Messa e al pomeriggio venire qui e praticare la meditazione di Chenresig, non c’è alcuna contraddizione.
Buddha non è prerogativa buddhista né orientale, è l’emanazione degli esseri illuminati che sono al di là di ogni tentativo di classificazione strumentale.
Questo concetto è fondamentale, Avalokitésvara non è una persona con caratteristiche esterne predefinite, in luoghi diversi si elaborano visualizzazioni differenti, ad esempio in Cina si manifesta nella figura femminile di Guanyin.
La grande compassione appartiene al cuore umano, dunque Avalokitésvara è parte del proprio cuore, non è qualcosa di esterno, di separato. Non è nemmeno prerogativa di una fede o di un’altra, non è esclusiva proprietà del buddhismo, né del cristianesimo, né di nessun’altra religione, né dei credenti, come dei non credenti, è parte del cuore di ogni persona, singolarmente.
Praticare il Lo Jong, in cui “Lo” si riferisce al cuore umano, è praticare Avalokitésvara nella Grande Compassione.
Quando meditiamo e dedichiamo la preghiera ad Avalokitésvara visualizziamo la divinità fisicamente, con quattro braccia, un viso e così via, ma l’analisi della forma è concentrazione sulle caratteristiche della compassione che risiede nel cuore. Osserviamo il nostro cuore nella visualizzazione dell’immagine così da confrontare e verificare la reale presenza della compassione in noi e le sue caratteristiche.
La pratica della sādhana di Avalokitésvara è importante da questo punto di vista, è confrontare l’immagine della Grande Compassione con la compassione nel nostro cuore, trasformandola così nella Grande Compassione di Avalokitésvara.
Non è dunque un confronto con un’entità esterna, ma una verifica della compassione del proprio cuore con la qualità universale della Grande Compassione rappresentata da Avalokitésvara.
La sādhana è volta a trasformare il cuore nella forma di Avalokitésvara e trasformare il corpo e la parola nel corpo e nella parola di Avalokitésvara, cioè non in qualcosa di esterno, ma piuttosto cambiando noi stessi nel corpo puro e nella parola pura di Avalokitésvara, dunque, nel proprio corpo puro e nella propria parola pura.
Questa è la sādhana rivolta all’yidam, la divinità di meditazione personale, individuale e, nella sua meditazione, ci si trasforma nella propria purezza che è rappresentata dall’yidam, non esterno a sé, ma forma stessa della propria illuminazione.
Ciascuno medita la forma dell’illuminazione nella quale apparirà come illuminato, e la scelta è individuale.
Le forme possibili sono innumerevoli e ciascuno può optare per quella che gli è più congeniale, e meditare così sul proprio aspetto illuminato fino al suo compimento.
Non si tratta di meditare una figura esterna, separata da sé, bensì focalizzare l’attenzione sulla forma che meglio riflette le qualità interiori della propria illuminazione, per questo motivo la scelta è vasta. C’è chi focalizza la propria illuminazione nella forma di un Buddha, altri trovano maggiori affinità con Milarepa, Gesù Cristo, San Francesco d’Assisi, Madre Teresa…
Qualsiasi forma scelta rappresenta la propria illuminazione, quella in cui trasformare la propria mente. Ciò non significa diventare qualcosa di estraneo al di fuori di sé, ad esempio io posso meditare la forma della mia illuminazione come Michele, ma non significa che io diventi Michele, bensì che Michele è la forma illuminata su cui medito in quanto riflette la qualità della mia illuminazione, quindi me stesso.
L’yidam è una scelta personale, io ad esempio trovo una connessione particolare con il mahatma Gandhi.
Meditare sull’yidam Gandhi è facile perché è una figura umana, normale, con un viso, due braccia, due gambe, un solo bastone, un paio di occhiali e un abito semplicissimo, mentre un yidam tibetano è assai più complesso da visualizzare, prima di tutto bisogna ricordare il numero di teste, braccia e gambe, possiede diversi oggetti nelle mani ed è abbigliato in modo intricatissimo e ricco di particolari, così la faccenda si fa ardua.
Se non vogliamo complicarci troppo la vita nel buddhismo tibetano la figura più semplice è Buddha Sākyamuni che in mano ha una sola ciotola.
La semplicità è particolarmente importante, mentre creare sovrastrutture può essere faticosamente pericoloso, come notò il grande maestro Atīsa non appena giunto in Tibet: “Voi tibetani praticate centinaia di divinità, ma non ne realizzate nemmeno una, in India noi ne pratichiamo una soltanto e le realizziamo tutte”, perché praticando in modo completo una sola divinità, che le rappresenta tutte, è evidente che si realizzino tutte. In Tibet invece, volendo praticare innumerevoli divinità, si disperdeva ogni possibilità di realizzazione.
Se leggiamo le storie dei grandi traduttori del passato, come Marpa Lotsāva, Ra Lotsāva, gNy Lotsāva e tanti altri che hanno introdotto il tesoro del Dharma dall’India, e in particolare di questi tre che hanno portato in Tibet le scritture dello yoga tantra, vediamo che nella loro vita sono avvenuti fatti miracolosi, eccezionali, non spiegabili secondo la concezione ordinaria, ciò dimostra che erano persone veramente straordinarie, al di là di ogni consuetudine.
Ma se in Tibet vivevano queste persone assolutamente eccezionali, ve ne erano molte altre che barattavano il Dharma come merce da esporre sulle bancarelle. I tibetani affermavano di avere un lignaggio particolarissimo che dava loro il diritto di possedere la verità e, in concorrenza, gli indiani rivendicavano di essere gli unici detentori di grandi iniziazioni e lignaggi risalenti alle origini.
Ognuno camuffava la propria mercanzia con i colori più accattivanti, spacciandola per unica autentica, senza rendersi conto che le variopinte bancarelle di Dharma non facevano altro che alimentare il mostro di un’immensa confusione e che tutte le sbandierate presunte verità, vendute per ottenere denaro, si rivelavano assolutamente fallaci.
Atīsa, preso atto della drammatica situazione, espresse le sue amare considerazioni sullo stato caotico del Dharma in Tibet, mettendo in guardia la gente che, volendo praticare le centinaia di false divinità acquistate sulle bancarelle del mercato, non avrebbero mai potuto realizzarle, mentre se avessero praticata una sola, ma autentica, le avrebbe realizzate tutte.
Questi sono tempi decadenti, il Dharma peggiora, i maestri di Dharma peggiorano, gli studenti peggiorano, la pratica peggiora, i Centri di Dharma peggiorano, tutto degenera.
In quest’epoca difficile la pratica necessaria è proprio il Lo Jong, apprezzare in Avalokitésvara la qualità della mente della Grande Compassione.
Apprezzare Avalokitésvara non significa diventarne fanatici. Allo stesso modo si apprezza il Dalai Lama, questa grande figura di uomo, perché lo si ritiene l’incarnazione di Avalokitésvara, quindi la manifestazione della Grande Compassione, e se ne ammira la qualità che, com’è in Avalokitésvara, è nella propria mente.
Se però questo concetto non è ben chiaro nella mente si finisce per diventare esaltati seguaci del Dalai Lama come persona, sviluppando un malsano atteggiamento che non esprime ammirazione, ma solo idolatria.
Proprio a causa di questo tipo di fanatismo succede spesso che anche in Europa, come in America, si scontrino fazioni diverse, una a favore e l’altra contraria al Dalai Lama, in un conflitto che si estende alle diverse scuole e maestri. Non si tratta dunque di autentica devozione, ma di una presunta fede bugiarda e sbagliata che è l’esatto contrario del Lo Jong.
La preghiera in sette rami che abbiamo recitato nella sādhana iniziale è una indispensabile preparazione al Lo Jong, che non può essere realizzato mediante l’accensione di un interruttore affinché immediatamente appaia la luce. Occorrono fasi e tempi di necessaria preparazione, come ha richiesto l’ottimo pranzo di oggi che Michele ha cucinato con tanta attenzione, tempo e cura.
La pratica in sette rami inizia con:
  1. l’omaggio, l’onore, l’offerta alla Grande Compassione di ogni cosa di cui si goda, si offre cibo, ricchezze naturali, preziosità universali; qualunque bene si possegga, o azione si compia, non appartiene a sé, per questo deve essere con devozione offerta alla Grande Compassione.
  2. Segue la confessione delle colpe, che è necessaria purificazione, consiste nel ricordare i propri atti nocivi e riconoscerli come tali. Tutto ciò che si oppone alla Grande Compassione è disdicevole, sbagliato.
L’azione negativa non è quella che contraddice una regola, una legge, un ordine, ma è tutto ciò che contrasta il principio della Grande Compassione.
  1. Si procede poi con l’elogio, decantando i frutti e le azioni ammirevoli compiute nella Grande Compassione.
  2. Il ramo seguente è la richiesta dell’insegnamento sulla Grande Compassione.
  3. Ci si rivolge dunque ai maestri, esempio della Grande Compassione, con la supplica di restare, di essere presenti, fino a quando il principio della Grande Compassione si realizzi.
  4. Infine vi è l’offerta del Mandala, di tutto ciò che si possiede, delle virtù dei tre tempi, delle qualità di corpo parola e mente, delle qualità dei virtuosi, dei maestri, dei Buddha, tutto è offerto alla Grande Compassione.
  5. L’ultimo dei sette rami è la dedica delle virtù dei tre tempi per la causa dell’illuminazione a beneficio degli esseri senzienti.



Il significato del Rifugio e della Terra Pura.


Leggiamo un’altra preghiera a Chenresig:
“Prego te, Lama Chenresig,
Prego te, Yidam Chenresig,
Prego te, Sublime Nobile Chenresig,
Prego te, Signore Protettore Chenresig,
Prego te, Protettore Amorevole Chenresig,
Buddha Amorevole, tienici sotto la tua compassione!
Per gli esseri che vagano innumerevoli volte nel samsāra senza fine, provando sofferenze insopportabili, Signore, non esiste nessun altro rifugio al di fuori di Te!”
Tutte le religioni hanno la preghiera del rifugio, nel cristianesimo la salvezza è in Gesù Cristo, in questo contesto è Avalokitésvara, l’importante è comprenderne, in qualsiasi ambito, il significato profondo.
Ad esempio “non esiste nessun altro rifugio al di fuori di Te” non significa affatto che non si possa prendere rifugio in nessun’altra divinità, sarebbe un’interpretazione ristretta, errata, che porterebbe soltanto a divisioni faziose e ingiustificate fra le diverse religioni.
Il rifugio è pura compassione e dunque non può essere discriminante. Avalokitésvara cos’è? Compassione! Buddha cos’è? Compassione! Gesù Cristo cos’è? Compassione! Il Dalai Lama cos’è? Compassione! Tutto qui, null’altro che questo.
“Dacci la tua benedizione affinché possiamo realizzare lo stato del Buddha Onnisciente.”
La preghiera a Chenresig come yidam, protettore, maestro, non è rivolta a un soggetto, ad una persona, ma alla qualità della compassione della mente che è illimitata e non può essere circoscritta entro i confini di un individuo, di religioni, di culture, è assolutamente universale.
Dunque la frase “non esiste nessun altro rifugio al di fuori di Te” non è discriminante, ha una valenza inclusiva e non esclusiva, significa affidarsi completamente, prendere rifugio nella pura Grande Compassione, qualità che comprende in sé ogni essere, che è universale, illimitata, perfettamente manifesta nei Buddha e Bodhisattva.
Esprime esattamente lo stesso significato del primo comandamento “Non avrai altro Dio all’infuori di me”, perchè Dio tutto include, Dio è il rifugio.
Ma nella nostra società caotica e offuscata ci si affida all’interpretazione più gretta e restrittiva e questa frase diventa ingiustamente causa di divisioni e di presunte supremazie religiose, di clamorosi fraintendimenti per cui si pensa che prendendo rifugio in Buddha si sia automaticamente esclusi dalla protezione di Gesù Cristo, o viceversa, quasi vi fosse competizione, si crea così una situazione paradossale e profondamente stupida che alimenta unicamente la sofferenza.
Nei documenti ecclesiastici si afferma che la chiesa è l’unica possibile salvezza e, altrettanto, nei testi tibetani si legge che i tre gioielli, gli insegnamenti del Buddha, sono l’unico mezzo per salvarsi, ma queste affermazioni non devono essere prese alla lettera, bensì interpretate nella loro realtà inclusiva che tutto accoglie, rappresentano la Compassione Universale che mai potrebbe appartenere a qualche esclusiva e insensata supremazia.
L’insegnamento del Buddha non esclude l’insegnamento del Cristo, né l’insegnamento del Cristo esclude quello del Buddha, e tutti i possibili fraintendimenti in proposito sono originati soltanto dalla loro cattiva interpretazione, dalla non conoscenza della Grande Compassione.
Ogni interpretazione ristretta nell’ignoranza è simile all’acquisizione di un dogma che necessita di un timbro del potere costituito, ma qualsiasi certificazione di potere non è mai veritiera, e pertanto è sbagliato che esistano dogmi, sia nel buddhismo che nel cristianesimo, perchè sono in netto contrasto con il messaggio spirituale.
Il dogma è contrario alla libertà dell’uomo, e questo vale sia per le religioni che per la politica.
La sādhana continua parlando degli inferi, conseguenti alle proprie azioni negative:
“Per la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto il potere della collera si rinasce nell’inferno; possano tutti gli esseri che provano il tormento del caldo e del freddo, Sublime Divinità, rinascere di fronte a Te
OM MANI PADME HUM”

Lo stato infernale non indica un luogo geografico, ma è riferito alla condizione mentale determinata da rabbia e odio. Ipoteticamente, una persona che abiti in un palazzo bellissimo, disponga di cibi prelibati, gioielli preziosi, abiti raffinati, ma sia dominata dalla rabbia e dall’odio, non è in grado di goderne perché sta vivendo in uno stato infernale.
Questo è il significato dell’inferno, anche se esistono infinite altre interpretazioni leggendarie che collocano ad esempio l’inferno nelle viscere della terra sotto Bodgaya, ma questa è fantasia, lo stato infernale vero invece lo si sperimenta subito, lo si vive concretamente nelle azioni negative, non è necessario aspettare le prossime rinascite, è presente qui e ora.
Nella grande compassione tutti i tormenti infernali sono naturalmente superati, questo è il potere del Lo Jong, il significato di: “rinascere vicino a Te”. Non è necessario morire sperando di avere l’opportunità di realizzazione in una prossima rinascita, già ora siamo di fronte ad Avalokitésvara nella Grande Compassione.
I maggiori yogi, meditatori del passato, sia indiani che tibetani, Nāgārjuna, Chandrakīrti, Atīsa, Lama Tsong-Kha-Pa, ad un certo punto della loro esistenza ebbero la visione di Avalokitésvara, di Tārā, di Mañjusrī, perché avevano realizzato la Grande Compassione, questo è il potere della pratica del Lo Jong.
La ripetizione del mantra di Avalokitésvara “Om Mani Padme Hum” richiama l’essenza del proprio cuore al fine di sviluppare la Grande Compassione, per questo è il mantra del Lo Jong, non occorre altro.
La gente cade ripetutamente negli stessi errori e riduce il Lo Jong - Tong Len ad una possibile pratica di guarigione e, ritenendo di essere in grado di curare il mal di testa a qualcuno, si illude di avere poteri taumaturgici, anche se in fondo resta sempre il timore che, se funziona, ci si possa davvero ammalare al posto degli altri!….
Il mantra del Lo Jong è “Om Mani Padme Hum”; la divinità del Lo Jong è Avalokitésvara; l’essenza del Lo Jong è la Grande Compassione.
I versi continuano:
“Per la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto il potere dell’avarizia, si rinasce nella forma di spirito affamato; possano gli esseri che provano il tormento della sete e della fame, rinascere nel sublime reame del Potala.
OM MANI PADME HUM
Per la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto il potere dell’ignoranza, si rinasce nello stato animale; possano tutti gli esseri che provano il tormento della stupidità, nascere di fronte a Te, o Signore
OM MANI PADME HUM
Per la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto il potere del desiderio, dell’attaccamento, si rinasce nel mondo degli uomini; possano gli esseri che provano le sofferenze di eccessive attività e frustrazioni, rinascere nella terra pura di Dewa Chen
OM MANI PADME HUM
Per la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto il potere della gelosia, si rinasce nel mondo dei semidei gelosi; possano gli esseri che provano la sofferenza di continue liti e discussioni, rinascere nel dominio del Potala.
OM MANI PADME HUM
Per la forza degli atti negativi accumulati da tempo senza inizio, sotto il potere dell’orgoglio, si rinasce nello stato degli dei; possano gli esseri che provano la sofferenza della trasmigrazione e della decadenza, rinascere nel regno del Potala.
OM MANI PADME HUM”
In queste righe sono descritti gli esseri appartenenti ai sei reami del samsāra:
  • Abbiamo già visto che rabbia e odio corrispondono a stati infernali;
  • gli esseri tormentati dall’avarizia sono insaziabili, avidi e non possono che appartenere al regno degli spiriti affamati;
  • la causa principale della nascita nel regno animale è l’ignoranza, la stupidità;
  • per gli esseri umani invece la causa della loro condizione è l’attaccamento e il desiderio;
  • la rinascita nel regno dei semidei è principalmente provocata dalla gelosia, dall’invidia;
  • mentre quella nel mondo degli dei è prodotta dall’orgoglio.
Non è necessario morire per sperimentare queste condizioni in una prossima esistenza, tutto è già presente in ogni istante di questa vita: nella collera siamo realmente esseri infernali; nell’avarizia inesorabilmente avidi, insaziabili e affamati; nell’ignoranza in uno stato animale; nell’attaccamento e desiderio la sofferenza è costantemente presente; nella gelosia e nell’invidia siamo semidei competitivi e arroganti che lottano incessantemente per affermare un ipotetico potere; nell’orgoglio di aver fatto imprese importanti, ad esempio aver scalato l’Everest, essere al comando di qualcosa, far parte di un’élite, ci fa sentire degli dei, felici, ma è una felicità fittizia che dura per un tempo limitato e il ritorno alla condizione inferiore è causa di grande sofferenza. Non si possono scalare tutti i giorni gli ottomila, si invecchia e il corpo si deteriora inesorabilmente.
Questi sono i sei reami del samsāra e, anche il cristianesimo che fonda tutto su un’unica vita, richiama con uguale insistenza alla necessità di realizzare la propria condizione in questa esistenza perchè il regno dei cieli è già qui e ora.
Non è necessario rinascere per vivere diverse esperienze, tutto si sperimenta in questa vita e, sia nel cristianesimo che nel sentiero meditativo del vajrayāna, è possibile decidere del proprio destino in una sola esistenza.
Le religioni serbano un patrimonio di valori e di segreti non chiaramente e istantaneamente accessibili alla mente ordinaria. La stessa resurrezione del Cristo non è così facile a capirsi, è un’esperienza misteriosa, difficile da assimilare.
Altrettanto, nel buddhismo tibetano l’insegnamento del bardo è complesso, eppure non è necessario morire per fare esperienza del periodo intermedio prima della prossima rinascita, lo si può sperimentare durante lo stato meditativo. I grandi maestri del passato, nel corso della loro esistenza, hanno provato questa condizione.
La lettura delle vite degli ottanta mahāsiddha è veramente interessante, erano personaggi incredibili, umili pescatori, pastori, probabilmente barboni, in netto contrasto con la moderna rappresentazione dello yogi.
Secondo la nostra visione consumistica i grandi maestri devono avere una bella casa, abiti appropriati, un ufficio completamente attrezzato, un sito web, tre o quattro cellulari, gli assistenti che li servano, abbondanza di risorse che consentano ogni comodità e opulenza.
Questa è la nostra fantasia sui mahāsiddha moderni, in assoluto contrasto alla loro vera essenza.
Per questi motivi sono rimasto colpito dalle due barbone della stazione di Roma, dormivano serenamente, pacifiche, e traspariva dal loro viso la completa assenza di emozioni conflittive, causa dell’esistenza nei sei reami, ciò significa che sono libere, già al di là del samsāra.
Cosi è essere mahāsiddha, yogi, se invece noi pratichiamo il Dharma per appagare il nostro ego e soddisfare ogni desiderio diventiamo esseri umani peggiori, alimentiamo l’attaccamento attraverso la pratica del Dharma, ed è spaventoso! Ci ritroviamo in un circolo vizioso, irrisolvibile, perché l’unica soluzione possibile, il Dharma che elimina l’attaccamento, è strumentalizzato al fine di appagare i desideri e, di conseguenza, aumentare i problemi.
Se abbiamo bisogno di esemplificazioni guardiamo la storia dell’umanità, costellata da eventi tragici, come il nazismo e tanti altri, si sono manifestati proprio a causa di quest’attitudine devastante.
Ciò dimostra quanto siano pericolose le bancarelle del Dharma sponsorizzate da tanti Lama.
Gli occidentali non conoscono il Dharma e sono attratti dalle belle bancarelle variopinte per acquistare facili soluzioni ai loro problemi. Un esempio è stata la grande diffusione dei primi libri sul Tibet e sulla sua religione, molto commerciali come “Il Terzo Occhio”.
Questa non vuole essere un’accusa, ma è un richiamo alla necessità di saper riconoscere limiti intrinseci in ogni situazione, avere la consapevolezza di essere un’epoca degenerata, pregna di confusione e di problemi. Questo stesso riconoscimento è parte della pratica del Lo Jong che indica la necessità inderogabile di sviluppare la compassione.
Nel Lo Jong si afferma che il tempo delle cinque degenerazioni può essere trasformato nella via per l’illuminazione.
Viviamo tempi difficili e particolarmente critici in cui la potente pratica del Dharma è limitatissima, sta scomparendo definitivamente e più che mai vi è una assoluta necessità di compassione.
Questa preghiera è dunque fondamentale ed è parte della pratica del Lo Jong, prosegue:
“Avendo così pregato con concentrazione il corpo del nobile Chenresig emana raggi di luce che purificano le impurità delle apparenze karmiche e le conoscenze illusorie,
il mondo esterno diventa la terra della grande felicità, Dewa Chen,
corpo, parola e mente degli esseri si trasformano nel corpo, parola e mente di Chenresig,
apparenze, suoni e pensieri sono indivisi dalla vacuità
OM MANI PADME HUM”
Tutte le difficoltà e i problemi che si manifestano non sono che il frutto del karma negativo e della mente impura.
Sempre noi decretiamo ciò che è buono o cattivo, ad esempio l’euro non è in sé né buono né cattivo, siamo noi i responsabili della sua discriminazione in un senso o nell’altro, definiamo un attributo in base a parametri assolutamente soggettivi.
Siamo incapaci di osservare la realtà così com’è, dobbiamo etichettare ogni evento dividendolo in: positivo - negativo, buono - cattivo, piacevole - spiacevole, bello - brutto, senza renderci conto che ciò che appare altro non è che il riflesso del karma e della mente.
Dunque l’immagine di un karma e di una mente impura si mostrerà negativo, repellente, spiacevole, doloroso; mentre l’immagine di una mente pura, di un karma positivo, si presenterà buono, accogliente, piacevole, che genera contentezza.
L’immagine che noi valutiamo corrisponde al karma e alla mente che l’hanno prodotta; le cose sono buone o cattive in dipendenza del giudizio attribuito, e non oggettivamente, è dunque evidente l’impossibilità di ottenere un cambiamento purificando l’immagine esterna, ciò è realizzabile soltanto nella purificazione della mente che osserva.
Nella purificazione della mente si purificano tutte le apparenze che le si manifestano, tutti fenomeni esterni appariranno purificati, saranno la grande felicità, Dewa Chen, o Sukhāvatī.
Dov’è la terra della grande felicità, Dewa Chen?
In genere si pensa che la si possa raggiungere solo dopo la morte.
I tibetani hanno elaborato metodi complicati, come la pratica del Powa, per trasferire durante il processo della morte la coscienza in Dewa Chen. Va bene, ci credono e io non lo metto in dubbio, però personalmente non lo so, non l’ho studiato a fondo, né praticato. Mi pare che possa essere pericolosamente frainteso tanto da indurre a credere che basti premere un pulsante e lanciare un missile nello spazio, ma per un simile viaggio si deve essere ricchissimi, il biglietto costa moltissimo.
Molti che pretendono di praticare il Powa pensano ad un evento miracoloso, di non dover far nulla, qualcun’altro preme un determinato pulsante e ci si ritrova catapultati direttamente nella terra pura, ma non è così.
Affinché questo possa avvenire si deve impiegare un intero patrimonio, cioè avere accumulato una quantità immensa di meriti, poi si deve incontrare la persona speciale che sappia premere correttamente il pulsante e, a livello personale, si deve avere maturato una solida convinzione e disponibilità ad entrare in quell’astronave.
Soltanto quando tutte queste condizioni saranno soddisfatte si potrà confidare nella possibilità del Lama di spedirvi in Dewa Chen.
Altrimenti Dewa Chen dov’è?
E’ qui, è la mente pura, e le apparenze che le si presentano sono anch’esse pure, la vostra casa diventa Dewa Chen, così come concepita dalla vostra mente, tutto questo si realizza nel Lo Jong, cioè purificando la mente, praticando la Grande Compassione.
I tibetani sono inquieti perché gli è stato insegnato che, per poter rinascere in Dewa Chen, prima devono morire, per cui vivono tutta l’esistenza recitando il mantra con l’attenzione proiettata verso le future esistenze e, in questo modo, rimangono bloccati, statici, senza minimamente scalfirne la sofferenza samsarica del presente. Non concepiscono che non è affatto necessario morire per rinascere in Dewa Chen e che la terra pura è realizzabile qui e ora.
I tibetani hanno molti problemi e, alla visione di un ipotetico Dewa Chen comunque soltanto futuro, si sono aggiunti la perdita del proprio paese, della terra, la povertà, la violazione delle libertà e dei diritti umani. Però, chissà, forse si sentono appagati di essere nati nel paese delle nevi e di avere di conseguenza la cittadinanza di Avalokitésvara, ne avvertano la potente protezione!....
I tibetani oggi sono più confusi che mai e ciò è causa di ulteriori difficoltà, sono afflitti da enormi preoccupazioni e non usufruiscono più di nessun progetto collettivo, di un programma che dia indicazioni precise, per cui ognuno procede a casaccio affidandosi alle proprie interpretazioni e fantasie. Prima il Tibet aveva un governo che dava regole, era una sicurezza, un punto di riferimento, ora invece sono tutti allo sbaraglio, in un caos doloroso in cui vengono inevitabilmente trascinati anche gli amici del Tibet.
Il karma del Tibet ha determinato una situazione veramente paradossale e drammatica e l’unica soluzione per uscirne è la pratica del Lo Jong, purtroppo però gli stessi tibetani in questo momento non credono più nella sua incommensurabile potenza.
Soltanto il Dalai Lama pratica costantemente il Lo Jong; gli anziani pregano tutto il giorno per rinascere in Dewa Chen e i giovani non sono più interessati al Dharma, al buddhismo.
Il Dalai Lama, nella pratica ininterrotta del Lo Jong, cerca nella via di mezzo una soluzione equilibrata che risponda alle esigenze di uno e dell’altro, ma di fatto, essendo rimasto solo, subisce l’opposizione di tutti perchè non sono più in grado di comprendere la Grande Compassione.
Non esiste più un corpo compatto di praticanti del Lo Jong in grado di contrastare le difficoltà del momento e quello che succede è il disordine e la sofferenza che tutti abbiamo sotto gli occhi.
Il Lo Jong fa parte della cultura tradizionale e autentica del Tibet, iniziata e promossa dai mastri Kadampa, ma invece di potenziarsi è purtroppo progressivamente diminuito nei secoli, sino a scomparire.
Quando la mente è purificata si vede l’altro, chiunque sia, come Avalokitésvara.
La terra pura, Dewa Chen o Sukhāvatī significa che tutti gli esseri sono Avalokitésvara.
Invece la mente ordinaria, non trasformata dal Lo Jong, è offuscata, non è in grado di vedere con luminosità e purezza e coglie negli altri esclusivamente i difetti.
Perché si verifica questo fenomeno? perché la mente che osserva è essa stessa difettosa; nel momento in cui riuscisse a liberarsi dal proprio difetto non lo proietterebbe più all’esterno e questo svanirebbe naturalmente.
Qualsiasi oggetto mentale appaia alla tua mente, siano insulti, parolacce, musica celestiale, parole buone, canto di uccelli… tutto si trasforma nella natura della vacuità, tutto è puro nella vacuità.
Vedi, senti, pensi solo con purezza, ecco il frutto della pratica del Lo Jong.
La grande compassione è la Terra pura, Sukhāvatī.



Conclusioni


Io credo che il mio compito di essere umano sia quello di dover praticare il Dharma in questa vita, realizzarlo qui e ora, senza preoccuparmi delle esistenze future, ed esattamente questo è il vajrayāna.
Non è necessario arrovellarsi in ipotetiche interpretazioni; il cristianesimo afferma un’unica possibilità di esistenza, il buddhismo ne prevede moltissime e ha fiducia nelle opportunità offerte dalle reincarnazioni, il buddhismo non crede in un Dio creatore, mentre il cristianesimo ne ha la certezza.
Il trincerarsi dietro le differenze, come se si dovesse sancire un’unica verità assoluta, alimenta soltanto il caos, i conflitti e le guerre e pone in evidenza la chiusura e la ristrettezza mentale che non hanno nulla a che fare con la pratica del cuore, della bodhicitta.
Ci sono domande?
Domanda: Se si rompe la mala come la posso eliminare? devo bruciarla, gettarla nel fiume, o altro?
Lama: La puoi buttare dove vuoi, non è questo che conta, ma sarebbe bene cambiare il filo e ricomporla nuovamente.
Domanda: Non mi è chiara la questione della reincarnazione, la differenza tra cristianesimo e buddhismo…
Lama: Non c’è differenza, le differenze sono solo visioni dualistiche di chi le interpreta. E’ assolutamente inutile e dispersivo concentrarsi sulle diverse concettualizzazione di uno o dell’altro, non ha nessun senso.
Domanda: Ho avuto un periodo particolarmente difficile, ero molto arrabbiato e persino incattivito verso gli altri, e ora ho iniziato il lungo percorso per cambiare questo atteggiamento, ma ho seri problemi anche pratici e vorrei abbreviarlo il più possibile, come posso fare?
Lama: Non ci sono scorciatoie prestabilite, tutto dipende dalla tua forza, dal tuo impegno, non sono in grado di darti altro consiglio.
Praticare il Lo Jong è la via migliore, per chiunque in qualsiasi circostanza, per questo sono davvero contento di aver meditato con voi questa pratica.
Domanda: Tu parlavi delle cinque degenerazioni, ma noi singoli come possiamo aiutare concretamente gli altri, io mi sento totalmente incapace, non so che fare?
Lama: Lavora su te stesso, noi cerchiamo sempre le soluzioni all’esterno, vogliamo cambiare situazioni e persone, mentre dobbiamo semplicemente cambiare noi stessi e, automaticamente, saremo di aiuto agli altri.
Domanda: E come posso cambiare me stesso? Soltanto recitare i mantra o fare la pratica sarà certamente utile per purificare la mente, ma non mi sembra sufficiente per la liberazione.
Lama: Non è necessario praticare leggendo o recitando questi testi e tanti altri, tu devi valutare cosa sia più utile per te, nella tua vita, nel tuo lavoro, nel tuo quotidiano. Non c’è una ricetta rigida.
Roberto tu che pratichi da tanto tempo, dai un consiglio a questo giovane.
Roberto (il traduttore): A me sembra che l’insistenza che Geshe-la ha posto sulle circostanze che inducono confusione sia veramente il punto centrale che dobbiamo affrontare, perché, osservando me stesso, vedo che ho seguito un percorso che, se da un lato era partito da una condizione di confusione destinata a crescere progressivamente, dall’altro invece ha usufruito di occasioni, come quella di oggi, in cui uno spiraglio di luce e riuscito a penetrare nel caos, apportando chiarezza nella visione delle cose.
Rifacendomi dunque alla mia esperienza, l’unico consiglio che posso darti è riferirti che il primo insegnamento di Dharma che ho avuto la fortuna di ascoltare è stato proprio il Lo Jong, in un tempo in cui la mia mente era priva da ogni possibile preconcetto, non conoscevo nulla e quindi ero aperto a ricevere tutto con freschezza.
Terminata la settimana di ritiro, in cui si è concluso questo primo fondamentale insegnamento, ho detto a me stesso: “ecco ho trovato quello che cercavo”, ho vissuto un momento di vera chiarezza.
Poi, nel corso degli anni successivi, ho voluto approfondire altre conoscenze, ho incontrato tanti maestri, ricevuto molte iniziazioni di cui peraltro comprendevo poco, con il risultato di trovarmi in una nebbia sempre più spessa, ma una simile confusione non era certamente imputabile ai maestri, era esclusiva conseguenza del mio vagare in superficie senza mai fermarmi ad approfondire gli aspetti fondamentali dell’esistenza.
In questa esperienza ho potuto verificare che ritrovavo la chiarezza ogni qualvolta incontravo un maestro che, in tutta semplicità, riprendeva il Lo Jong, puro e semplice.
Geshe-la ci ha mostrato come il Lo Jong e la pratica di Chenresig siano due facce della stessa medaglia, la prima osservata nell’ottica più universale e l’altra secondo la tradizione tibetana.
Concludendo, credo che la confusione samsarica non sia evitabile, però, qualora si abbia ricevuto la giusta intuizione sul percorso da seguire, invece di disperdersi, è bene mantenersi concentrati su quello.
Quando si riconosce un insegnamento come rispondente alle proprie necessità io consiglierei di approfondirlo e seguirlo con determinazione e fermezza.
Domanda: la pratica del Tong Len è diversa da quella del Lo Jong?
Lama: E’ la stessa, è la Grande Compassione. Il Lo Jong è la qualità della mente, il Tong Len la sua pratica.
Ora sarebbe bello se voi esprimeste le vostre impressioni e conclusioni, Michele, tu che pensi?
Michele: Grande confusione!.....
Vorrei però riprendere la domanda di Andrea, forse sarebbe opportuno mantenere come atteggiamento di fondo un po’ di saggezza e umiltà, perché i maestri sono tutti i preziosi, ma non bisogna rivolgersi a loro pretendendo che premano un pulsante che velocizza la purificazione. Dobbiamo avere l’umiltà di ascoltare, accogliere la ricchezza che ti offrono, ognuno ti dà esattamente tutto ciò che ti serve e con il tempo forse potremo apprezzarlo. Il metodo veloce dipende solo da noi.
Francesco: Mi sembra che la pratica del Lo Jong ci possa essere molto utile nella quotidianità, è la più benefica anche se molto difficile. Però dà anche una grande gioia, forse perché è davvero unica, non ha riferimenti, è universale.
Renata: Il Lo Jong è, come diceva Geshe-la, semplicissimo, ma proprio per questo difficile, non immediato, richiede un paziente lavoro, ma c’è un aspetto fondamentale che tutti siamo in grado di applicare, ed è cominciare dal presente.
Io osservo la mia vita e vedo che, inesorabilmente, in ciò che sto facendo, là dove le circostanze mi hanno portato e in quella precisa concreta situazione, non posso fare altro che desiderare di applicare la compassione.
Non si tratta di gesti eclatanti, si comincia proprio con poco, come il non giudicare ed etichettare tutto ciò che si presenta, sia persona, situazione, azione o pensiero, forse in questo modo si avvia il processo di trasformazione della mente, piccolo passo dopo piccolo passo, con grande lentezza ma continuità, senza pensare di poter realizzare dall’oggi al domani la Grande Compassione; è davvero essenziale osservare con consapevolezza il presente, con le sue condizioni e persone.
Simona: A casa ho una stanza apposta per la meditazione, in cui ora faccio le prosternazioni, ma cerco di portare anche a scuola dove insegno la mia pratica, e in famiglia con mia figlia, e sento che in questo modo si affievoliscono le differenze, non c’è più confine tra il mio io e il non io.
Seguo molti maestri, frequento vari Centri e ho ricevuto tante iniziazioni di cui anch’io non ho capito niente, ma credo ugualmente che tutto sia servito, ugualmente benefico e utile perché il seme, che forse germoglierà solo più tardi, è stato piantato.
Lama: Molto bene, possiamo terminare così il nostro incontro.

Grazie a tutti per il vostro impegno e grazie al traduttore, una figura fondamentale, Roberto è un grande amico, un buon praticante e conoscitore del Dharma. E’ sempre una bella occasione quella di poterci incontrare, abbiamo affrontato l’argomento in modo tranquillo, senza troppe parole, rivolgendo l’attenzione al significato più profondo, tutto è scaturito con naturalezza e in modo perfettamente sintonico con la pratica di Avalokitésvara che abbiamo meditato insieme e che voi effettuate settimanalmente qui al Centro.
Io non pianifico mai l’insegnamento in modo rigido, esprimo quello che ogni situazione mi suggerisce, questo è bene per il Dharma, ma non tanto per la vita ordinaria che invece richiede programmazione, pianificazione in ogni suo aspetto, nell’organizzazione della giornata, nel lavoro, nella famiglia.
Nella prassi non è sempre facile far coincidere il Dharma con la vita, ma occorre essere consapevoli della peculiarità di entrambe le circostanze, se vi sono punti di convergenza tanto meglio, ma questo non è affatto obbligatorio.
Sono veramente soddisfatto di come si è sviluppato l’insegnamento in questi due giorni, non è il prodotto di una programmazione preliminare, di una scelta su come articolare la spiegazione in un modo piuttosto che in un altro, è scaturito naturalmente.
Insieme, abbiamo posto le condizioni affinché si ottenesse questo risultato.
E’ importante che così avvenga, e possiamo concludere con la preghiera di dedica dei meriti.



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