Wednesday 20 November 2013

Commentario sul Sutra del Essenza della Saggezza














Commentario sul 

Sutra del Essenza della Saggezza


( IL SUTRA DEL CUORE DELLA SAGGEZZA )














Ven. Geshe Gedun Tharchin

ROMA - 2004









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Introduzione dell’autore


Parte I
Prajnaparamita
Madre di tutti gli Illuminati
Percezione profonda
Il sentiero dell’accumulazione


Parte II
Dharma semplice
Ka dam pa
Il Sutra del Cuore e il Kalachakra
Tre tipi di Buddha
Il sentiero della preparazione


Parte III
Lo Jong
Lam Rim
Il sentiero della visione


Parte IV
Dare un senso al tempo
Il sentiero della meditazione
Stato di Buddha


Parte V
Meditazione sul “Sutra del Cuore
Testo del Sutra del Cuore















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Introduzione dell’autore 

La Via di Mezzo e Vacuità



Nel corso dei miei insegnamenti ho enfatizzato il modo di rendere l’antica saggezza della Via di Mezzo un pratico strumento spirituale accessibile a tutti i tipi di esseri umani, per portare armonia, rispetto e tolleranza nel mondo odierno. Lo scopo di ciò è semplificare il Dharma e fare in modo che questo non rimanga un argomento puramente filosofico o una qualche performance rituale. Nel corso di queste lezioni ho cercato di cogliere l’essenza del Dharma, presentandolo come un “mezzo abile” per integrare i valori spirituali universali con tutte le azioni e gli eventi della vita quotidiana. Penso, infatti, che ciò sia di estrema necessità nel mondo moderno, improntato ad un rapido sviluppo tecnologico e spero di esporre un Dharma che si adatti al XXI secolo!

In questo libro ho cercato di presentare un Dharma profondo e al contempo semplice, concentrandomi sui concetti fondamentali del Buddhismo e sul suo messaggio della Via di Mezzo, senza far riferimento a nessuna tradizione specifica. Il mio obiettivo è cogliere l’essenza del pensiero e della meditazione buddista senza tener conto delle influenze derivanti dal retroterra culturale di ogni individuo, in maniera tale da illustrare in modo lucido, puro e modesto un Dharma che possa integrarsi facilmente alla vita quotidiana e semplificarla. Nonostante le mie capacità limitate, tenterò di mostrare in quale modo il Buddhismo possa fornire dei validi contributi al miglioramento di una società sofisticata come quella d’oggi.

Penso che il cosiddetto Dharma possa essere definito in una parola “Via di Mezzo”, in tibetano Uma ed in sanscrito Madhyamaka. Essere nel mezzo significa saper equilibrare ogni cosa e comprendere che il Dharma, la compassione, la rinuncia e anche la realtà ultima, cioè la vacuità o Mahamudra (il Grande Sigillo, l’Unione delle Due Verità) non sono nient’altro che Uma.

In breve, Uma è l’essenza di tutti i fenomeni e coincide con il Dharma da realizzare e in cui trovare rilassamento e pace. Le descrizioni più esplicite di Uma si trovano nel Mulamadhyamakakarika di Nagarjuna. Tecnicamente il termine Madhyamaka si riferisce alle due Bodhicitta del testo di Nagarjuna, dette Bodhicitta del livello convenzionale e del livello ultimo, che sono rispettosamente la grande compassione e la realizzazione della realtà ultima. Sono anche conosciute come Compassione e Saggezza, come sintetizzato nell’ultimo e nel primo verso del Mulamadhyamakakarika:

Mi prostro a Gautama
Che mediante la compassione
Ha insegnato la vera dottrina
Che porta all’abbandono di tutte le teorie.

Mi prostro al Buddha Perfetto,
Il migliore dei maestri, che ha insegnato che
Ogni cosa sorta in maniera dipendente è
Senza fine, senza nascita,
Non annichilita, non permanente,
Non viene, non va,
Senza distinzione, senza identità,
E libera da costruzione concettuale.

Uma o Madhyamaka è quindi la descrizione del Dharma così come è rivelato dal grande Nagarjuna in opere quali I Sei Trattati che provano con la logica la Via di Mezzo, specialmente I Versi della Saggezza Fondamentale, in cui viene detto:

Qualunque cosa sorta in modo dipendente
È detta essere la vacuità.
Questa, essendo un designazione dipendente
È essa stessa la via di mezzo.

Quando la vacuità è possibile,
Ogni cosa è possibile;
Dove la vacuità non è possibile,
Nessuna cosa è possibile.

Questa filosofia è riconducibile ai seguenti versi di un sutra del maestro Sakyamuni:

Colui che vede l’Origine Interdipendente
Vede il Dharma della Vacuità,
Allora vede il Dharmakaya dell’Illuminato.

Il sistema filosofico è stato conosciuto poi come Prasangika Madhyamaka dal suo più fervido seguace Chandrakirti nel suo commento al Mulamadhyamakakarika, Introduzione alla Via di Mezzo o Madhyamakavatara. Un breve commento poetico al Mulamadhyamakakarika di Nagarjuna è stato scritto da Lama Tsongkhapa e porta il titolo “Omaggio a Buddha Sakyamuni per il suo insegnamento sulla relatività”. Se ne riportano dei versi:

Omaggio a colui la cui visione e parola
Resero un insuperabile saggio e maestro,
Il vittorioso, che vide la relatività
E la insegnò a tutti noi!

L’ignoranza è la vera radice
Di tutti problemi nel mondo;Colui che vide ciò e se ne liberò
Secondo quanto dice una leggenda buddista, Buddha apprese la Via di Mezzo da un fenomeno semplice, una chitarra indiana: né un tocco troppo debole né uno troppo forte produce perfettamente e correttamente il suono desiderato. Quindi, per appagare il desiderio umano bisogna saper seguire la Via di Mezzo, la saggezza che riesce ad equilibrare tutto!
Proclamò la relatività universale.

e

Tutto ciò è oggettivamente vacuo
E questo effetto deriva da questa causa;
Queste due verità non si escludono a vicenda
Ma anzi sono complementari.

Tra i maestri, il maestro della relatività,
Tra le saggezza, la saggezza della relatività;
Questi sono come Vincitori Imperiali nel mondo
Che ti rendono Campione Mondiale di Saggezza, al di sopra di tutti.

Ognuna delle cose che hai insegnato
È permeata di relatività,
E dal momento che quest’ultima conduce al Nirvana
Nessuna delle tue azioni non procura pace.

Atisha, autore de “La lampada del sentiero che conduce all’Illuminazione”, Shantideva, autore di Bodhisattvacaryavatara e molti praticanti in Tibet, come Marpa, Milarepa, Tsongkhapa e l’attuale quattordicesimo Dalai Lama del Tibet, hanno basato il loro pensiero sulla Via di Mezzo di Nagarjuna così come viene descritta nel Buddhapalita di Buddhaviveka, nei “Quattrocento versi sulla Via di Mezzo” di Aryadeva, nel Madhyamakavatara di Chandrakirti.

Anche due grandi maestri di logica indiani, Dignaga e Dharmakirti, autore dei sette trattati Pramana, inoltre i cinque Dharma di Maitreya, le cinque Bumi di Asanga, l’Abhidhramasamucchaya di Asanga, l’Abidharmakosa di Vasubandu e centinaia di commenti e opere di studiosi tibetani, sono basati su questi testi.
I trattati Lam Rim e i trattati Lo jong dei maestri ka dam pa del Tibet hanno costituito un grande supporto per la Via di Mezzo del Buddha, giacché le hanno consentito di giungere ai giorni d’oggi, preservandola come un tesoro vivente di spiritualità. Vi è anche un sistema di dialettica tibetano, chiamato due dra, che si è sviluppato basandosi sui sistemi di logica indiani degli studiosi Sakyapa, e che distingue leggermente il sistema di studiare la filosofia buddista proprio delle Università Monastiche tibetane da quello della grande Università di Nalanda in India.

All’interno al Buddhismo Tibetano vi è la scuola di pensiero del Vajrayana, che si basa sul sentiero spirituale promosso dagli 80 Mahasiddha indiani. Tale sistema è conosciuto come un mezzo segreto del Dharma, e funziona solo per le persone che possiedono capacità paragonabili a quelle degli 80 Mahasidda. Il sistema Vajrayana è anche un modo d’approccio verso Uma o Madhyamaka (l’unione delle due verità della Chiara Luce e del corpo Illusorio o corpo d’Arcobaleno o Corpo Vacuo) attraverso la penetrazione nei punti vitali del sistema sottile dell’esistenza umana.

Dunque la Via di Mezzo non consiste in un una filosofia o in un atteggiamento fisso e predeterminato, ma si basa sulla realtà della relatività della verità, sulla perfezione di una conoscenza intelligente, che riesce a fornire adeguate risposte a ciascun individuo, tenendo conto dei ritmi di continuo cambiamento cui sono sottoposti gli eventi e le cose. Quindi, la Via di Mezzo non è qualcosa per eruditi o per persone particolarmente realizzate, ma piuttosto è un mezzo che permette a tutti gli esseri viventi di gestire la loro vita riuscendo a dare equilibrio a tutti i momenti, gli eventi, le situazioni che capitano loro senza far venir meno l’esperienza gioiosa del Dharma all’interno del flusso mentale.

Anche un santo dei tempi moderni come Mahatma Gandhi ha applicato fondamentalmente il principio della Via di Mezzo, il punto di vista proprio del Madhyamaka o Uma, utilizzandolo come un modo per sistemare ed equilibrare tutte le situazioni che ha incontrato. Gandhi riuscì a mantenere la Via di Mezzo anche nelle questioni fra credenti in Dio ed atei, religioni monoteiste e politeiste, sostenendo che “Dio è la Verità e la Verità è Dio” e “Non c’è nessun Dio se non la Verità” e riuscendo così a portare equanimità ed equilibrio tra queste posizioni che si escludono l’una l’altra.

Colpisce molto anche il suo modo, proprio della Via di Mezzo, di avvicinarsi alla fede Induista e Buddhista in India, dal momento che lui ha affermato: “Ma l’insegnamento di Buddha, come il suo cuore, si espandeva dappertutto e abbracciava ogni cosa, e per questo è sopravissuto al suo corpo e si è diffuso sulla faccia della terra. Il Buddha non ha mai rifiutato l’Induismo, ma ne ha ampliato la base, ha dato vita a degli insegnamenti che erano seppelliti nei Veda e che erano ricoperti di erbacce. Il suo grande spirito induista ha spianato la sua strada tra le foreste di parole, parole senza senso che avevano ricoperto l’aurea verità presente nei Veda. Le leggi di Dio sono eterne ed inalterabili e non possono essere separate da Dio stesso. È una condizione indispensabile della Sua Perfezione. Da qui la grande confusione che Buddha non credeva in Dio e credeva semplicemente nella legge morale.”
Credo che la vita di Gandhi sia un esempio della grandezza del genere umano e dell’animo umano. La sua vita fu semplice, modesta e umile tuttavia in grado di affrontare tutte le situazioni. Inoltre egli era intelligente, istruito culturalmente e possedeva forza pacifica, tolleranza e amore, che lui chiamava ahimsa bavana, letteralmente azione di non-violenza e la sua pratica era Satyagrah, cioè basata sulla Verità…parole estremamente sagge!

Quindi, secondo me, la Via di Mezzo è uno stato di completa libertà da posizioni estreme e di assoluta pace, e costituisce il più semplice, il più umile e allo stesso tempo il più grande e il più potente principio naturale che permette di superare tutti i problemi stando sull’infallibile livello zero della vacuità, Sunyata.

I seguenti tre versi, tratti dal Bodhisattvacaryavatara di Shantideva, chiariscono in che modo avvicinarsi al Dharma:

Uno dovrebbe impegnarsi assiduamente negli esercizi
Appropriati alle varie situazioni in cui si viene
A trovare sia volontariamente, che per volontà altrui.

Non c’è nulla da cui il Bodhisattva non può imparare.
Non esiste niente che non costituisca azione di merito per la buona persona
Che si comporta in questo modo.

Non si dovrebbe fare nient’altro che ciò che direttamente
O indirettamente reca beneficio agli esseri senzienti, e solo per il beneficio
Degli esseri senzienti uno dovrebbe dedicare ogni cosa all’Illuminazione

Il Grande Nagarjuna afferma nel Ratnavali, “La preziosa ghirlanda”:

Un grammatico prima insegna ai
Suoi studenti a leggere l’alfabeto,
Allo stesso modo Buddha insegnò ai suoi seguaci
La dottrina che essi potevano comprendere.

Ad alcuni insegnò dottrine
Per evitare di commettere azioni peccaminose,
Ad altri dottrine basate sulla dualità.

Ad alcuni insegnò dottrine basate sulla non-dualità, ad altri
Insegnò ciò che è profondo e spaventoso per colui che è pauroso.
Avente come essenza la vacuità e la compassione,
I mezzi per ottenere l’Illuminazione.

Quindi l’insegnamento del Dharma non consiste nell’esporre le proprie idee e i propri pensieri, ma piuttosto ciò che reca beneficio agli altri.

Spero che il mio libro, nato come il primo in Italia, vale a dire nel contesto della cultura, della religione, della società, dello stile di vita occidentale, possa soddisfare l’inevitabile attrazione naturale che molte persone provano nei confronti del pensiero e della pratica della Via di Mezzo e che possa dare un presentazione del Dharma aggiornata ed adeguata alla mentalità del mondo contemporaneo, così da aiutare il genere umano a condurre una vita significativa, ricca di pace, armonia e serenità.

Secondo Shantideva tutte queste pratiche possono essere realizzate tramite la meditazione sulla consapevolezza:

Dove potrei trovare abbastanza cuoio per coprire l’intero mondo?
Il mondo intero può essere coperto con il cuoio sufficiente per un paio di scarpe.

Allo stesso modo, dal momento che non posso controllare gli eventi esterni,
Controllerò la mia mente.
Perché preoccuparmi di controllare tutte le altre cose?

e

In breve, questa sola è la definizione della consapevolezza:
L’osservazione in ogni istante
Dello stato del proprio corpo e della propria mente.
Sarei molto grato ai lettori se mi dessero qualche consiglio per il miglioramento delle edizioni future. Spero che questo libro possa essere un mezzo per rivelare nel mondo presente l’antica saggezza e possa essere utile allo sviluppo di amore universale e tranquillità in ogni individuo – qui ed ora.

Un mio sogno è che le religioni del XXI secolo diventino aperte come il cielo, inclusive come internet (che non escludano cioè altre tradizioni spirituali e religiose) e veloci come le e-mail nel dare risposte ai problemi umani…penso che essere un buddista puro significhi che egli possa essere anche un Cristiano puro, un induista puro, un islamico puro.

Vorrei aggiungere qui i miei versi preferiti di Shantideva, che reputo essere l’essenza dell’amore che abbraccia ogni cosa, della compassione, della saggezza e della Via di Mezzo dell’equanimità:

-Il maestro Sakyamuni ha dichiarato che il campo degli esseri senzienti è il campo dei Buddha, perché molti hanno raggiunto la più alta perfezione onorandoli.

-Dal momento che l’ottenimento delle qualità di Buddha è ugualmente dovuto sia agli esseri senzienti che ai Buddha, che senso ha non rispettare gli essere senzienti come si rispettano i Buddha?

-La loro grandezza non dipende dall’intenzione ma dall’effetto stesso. In tal senso gli esseri senzienti sono pari ai Buddha.

-Una disposizione amichevole, che è onorabile, costituisce la grandezza degli esseri senzienti. Il merito dovuto alla fede nei Buddha costituisce la grandezza dei Buddha.

- Perciò, gli esseri senzienti sono uguali ai Buddha nell’aspetto dell’acquisizione delle qualità dei Buddha; ma nessuno di essi è del tutto pari ai Buddha, che sono oceani di buone qualità dagli aspetti illimitati.

Dei versi citati frequentemente (che si trovano nelle raccolte di sutra in pali e in sanscrito) sono attribuiti al maestro Sakyamuni:

O Bhiksu e uomini saggi,
Come un orefice testerebbe il suo oro
Bruciandolo, tagliandolo e levigandolo,
Così voi dovete esaminare le mie parole e accettarle,
Non solamente per la riverenza che nutrite per me”.

Il Buddha ha dato hai suoi seguaci la grande libertà di analizzare le sue stesse parole per vedere se sono attendibili o no e ciò significa anche che i suoi discepoli si possono fidare delle sue parole solo dopo averne compreso appieno il significato.

Le mie spiegazioni e i miei discorsi sul Dharma sono semplicemente dei consigli che do ai miei amici spirituali e spetta loro la decisione finale. Penso infatti che questo sia il significato della frase di Sakyamuni: “tu sei il tuo stesso maestro e sei anche il tuo stesso nemico”. Ogni insegnamento di Dharma dovrebbe cominciare con la motivazione dell’altruismo, tecnicamente chiamata amore o compassione, in tibetano Nying Tze, letteralmente Cuore Sensibile, che è il vero mezzo abile per servire gli altri ed è per questo che un maestro dovrebbe sempre insegnare ciò che è utile agli altri piuttosto che le sue idee e la sua filosofia.

Mi sforzo sempre di insegnare il Dharma con questa motivazione, ma per via di limitazioni samsariche, sicuramente la mia motivazione è stata sempre mescolata a molti interessi mondani.

Qualsiasi azione basata sulla motivazione della compassione sarà automaticamente positiva, poiché l’amore e la compassione sono l’essenza del Dharma.

Possano tutti gli esseri senzienti essere felici nello spirito della Via di Mezzo e nella realizzazione della Vacuità.

Vorrei esprimere la mia gratitudine verso tutti i miei amici che mi hanno aiutato in un modo e nell’altro per realizzazione di questo testo e, sopratutto alla dottoressa Rita, chi e fatto tutto traduzione, trascrizione e revisioni finale di questo testo.


Gedun Tharchin


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I Parte

(9 Novembre 2003)



Prajnaparamita


Parleremo del Sutra del Cuore, anche detto l’Essenza della Saggezza o Cuore della Saggezza: si tratta di un sutra molto famoso, conosciuto in tutto il buddismo mahayana e spesso utilizzato come testo di riferimento per la pratica quotidiana. Come ho scritto nel mio libro “la via del Nirvana”, possiamo trovare varie versioni del prajnaparamita sutra o Sutra della Saggezza: la più grande conta 100,000 versi, la versione intermedia è composta da 20,000 versi e la più breve da 8,000. L’essenza di tutte queste versioni del prajnaparamita sutra è costituita dal Sutra del Cuore della Saggezza, il cui contenuto è pertanto molto ricco. L’estrema sintesi del contenuto del prjanaparamita sutra è il mantra in esso riportato: tadyata gate gate pragate parasamgate bodhi svaha.

Il Sutra del Cuore della Saggezza è generalmente considerato un sutra maha-yana, ma poiché hina-yana e maha-yana sono termini utilizzati a fini comparativi che possono dare luogo a confusione, oggi useremo il termine bodhisattva-yana, sinonimo di maha-yana.

Da molto tempo avevo intenzione di tenere un discorso su questo sutra e spero che quando avremo finito di studiarlo, potremo praticare sulla base del suo contenuto.

Per comprendere meglio l’essenza di questo sutra è importante iniziare spiegando che cosa s’intende per sentiero nel buddhismo.
La parola yana significa veicolo o sentiero. Esiste il veicolo del bodhisattva, per secondo viene il veicolo dei pratyekabuddha o buddha solitari e per terzo il veicolo degli shravaka o ascoltatori. Questi sono i tre tipi di seguaci di Buddha, ognuno dei quali pratica il proprio sentiero in modo diverso.
Lo scopo del bodhisattva è raggiungere lo stato di pieno risveglio, lo stato di Buddha. Lo scopo degli altri due praticanti è l’ottenimento della liberazione, il Nirvana o moksha, la liberazione individuale. Ed infatti, quando questi due ultimi sentieri vengono considerati come uno solo, questo viene spesso chiamato il sentiero della liberazione individuale, mentre il veicolo del bodhisattva spesso viene tradotto in inglese come veicolo universale.

La differenza tra il veicolo del bodhisattva e quelli della liberazione individuale risiede nella motivazione, che per il primo è la bodhicitta, mentre per gli altri due è la rinuncia. Quindi, rifacendoci ai “Tre Aspetti Principali del Sentiero’’ di Jey Tzongkhapa, possiamo vedere come la rinuncia sia la motivazione alla base dei due veicoli, la bodhicitta sia alla base del veicolo del Bodhisattva, mentre il terzo aspetto, la saggezza che realizza la realtà ultima dei fenomeni, è necessario a tutti e tre.
Per riuscire a portare a compimento ognuno di questi tre veicoli, bisogna seguire i cinque sentieri. Questo è un altro argomento che volevo spiegare da molto tempo, ma che finora non sono mai riuscito ad affrontare.

I quindici sentieri sono un argomento molto importante nello studio della filosofia buddista: i primi cinque sono i sentieri del bodhisattva, seguono i cinque sentieri dei pratyekabuddha, e poi i cinque sentieri del veicolo degli shravaka. In tutto sono quindici, dunque. In tibetano si dice Lam Nga Sum Con Nga, che significa per tre volte cinque sentieri: Lam è sentiero, Nga significa cinque, Sum vuol dire tre, Con Nga quindici: “i quindici sentieri del cinque per tre”.

Il primo sentiero è il sentiero dell’accumulazione, il secondo sentiero è quello della preparazione, il terzo è quello del vedere o della visione, il quarto è quello della meditazione e il quinto è quello della fine dell’apprendimento. Questi cinque sentieri hanno lo stesso nome per tutti e tre i veicoli di cui abbiamo parlato. Tra i sentieri, i primi quattro sono le cause, mentre il quinto è il risultato, in quanto essi rappresentano la tappe da percorrere per raggiungere il risultato che ognuno dei tre veicoli si propone.

Come si procede lungo i cinque sentieri? Bisogna praticare due cose: il metodo e la saggezza. Il metodo è sempre un mezzo intelligente. Nella pratica del bodhisattva, il mezzo intelligente è rappresentato dalla bodhicitta. Quindi per raggiungere lo scopo del veicolo del bodhisattva, che è lo stato di Buddha, il pieno risveglio, occorre utilizzare come strumento intelligente la bodhicitta. Abbiamo inoltre la saggezza, cioè il terzo dei “Tre Aspetti Principali del Sentiero”. Riguardo agli altri due veicoli lo strumento da usare è la rinuncia, che è il mezzo intelligente per raggiungere il moksha, il Nirvana, la liberazione individuale. Anche in questo caso è necessaria la saggezza.

Che differenza c’è tra il veicolo degli ascoltatori e quello dei buddha solitari, dal momento che entrambi hanno la rinuncia quale strumento e la loro saggezza è simile? La differenza risiede proprio nella saggezza che di cui si servono per affrontare il loro sentiero. Gli ascoltatori hanno un modo molto più conciso, molto più breve per realizzarla; mentre i praticanti solitari hanno una prospettiva molto più ampia sulla saggezza. Ed è proprio per questa diversità che i praticanti del sentiero solitario tendono a raggiungere il loro obbiettivo molto più velocemente dei praticanti del sentiero degli ascoltatori.
Vi è anche un’altra differenza: gli ascoltatori amano essere in presenza del Buddha inteso come figura storica, mentre i praticanti solitari preferiscono non essere in presenza di nessun Buddha. Quando appare un Buddha appaiono i praticanti del sentiero dell’ascoltatore, quando il Buddha scompare, scompaiono anche loro e in questo momento cominciano ad apparire i praticanti del sentiero solitario. È interessante ricordare come nel momento in cui il Buddha iniziò ad impartire gli insegnamenti a Varanasi, facendo girare per la prima volta la ruota del Dharma, tutti i praticanti solitari, che erano già lì prima della sua apparizione, cominciarono a scomparire. La leggenda dice che scomparvero cominciando a volare e mentre volavano si “autocremarono”, fiammeggiando nel cielo. Possiamo dunque osservare come vi siano vari tipi di praticanti e vari modi per avvicinarsi al Dharma e alla pratica.

Gli ascoltatori non praticano il bodhisattva da soli, ma ascoltano questo veicolo dal Buddha e lo trasmettono agli altri, anche se loro stessi non lo praticano; per questo sono chiamati ascoltatori. I praticanti solitari, invece, vogliono praticare da soli, senza un Buddha, senza avere intorno una comunità di praticanti. Essi hanno una particolare missione, che è quella di recare beneficio agli esseri che si trovano in quei luoghi in cui non sono presenti Buddha, né Bodhisattva, né ascoltatori. I pratyekabuddha hanno la capacità di trasmettere il Dharma senza parlare, senza avere nessun tipo di contatto con le persone: la loro missione è quella di recare beneficio agli altri esseri tramite la loro pratica solitaria. Molti dicono: “Ma se tu stai solo su un monte a praticare, come puoi essere di beneficio a quelli che stanno in città?”. Questo, però, non è un ragionamento giusto, perché quando una persona pratica, la sua bontà si trasmette automaticamente agli altri, come un’energia che si diffonde automaticamente nell’ambiente circostante e quindi giunge anche alle persone che ne fanno parte. Qui in occidente invece si dice: “Marciamo per la pace, combattiamo per la pace!” e si va a manifestare per la pace pieni di rabbia ed astio, pensando che questa sia una azione molto efficace. Ma se non abbiamo la pace dentro di noi come possiamo cercare di creare la pace? Questo è il primo shock che ho avuto quando sono venuto nella società occidentale: qui ci sono tante persone amanti della pace, piene di rabbia! Lo si capisce chiaramente partecipando alle loro conferenze. La non violenza è compassione, quindi una persona che medita sui monti magari è molto meno violenta di una persona che fa una manifestazione in città. In occidente andare a meditare sui monti sarebbe molto facile perché si hanno le pensioni: uno scende dal monte una volta al mese, va alla posta a ritirare la pensione e poi torna tra i monti: è comodo, no?

A Dharamsala vi sono praticanti che vivono sulle montagne, come eremiti, e vengono assistiti dall’ufficio del Dalai Lama. Ogni mese scendono dai monti per prendere i soldi, poiché c’è un fondo speciale per queste persone e si possono fare offerte specifiche per loro. Molto spesso, però, capita che arrivino persone a Dharamsala dicendo di voler andare in eremitaggio e si precipitino subito presso questo ufficio, ma si vede che hanno soprattutto bisogno di soldi. In realtà, si dovrebbe andare senza pensare ai soldi che l’ufficio dà, prendere l’acqua e andare a fare l’eremita là, altrimenti non ha senso: bisogna seguire l’esempio di Milarepa. A Dharamsala c’è un po’ di confusione intorno agli eremiti. D’altronde non c’è soluzione, perché è normale che in tempi moderni si verifichi questo genere di cose. Qui però c’è la fortuna di avere direttamente la pensione, senza andarla a chiedere a qualche ufficio per eremiti, e quindi bisognerebbe fare un piano per diventare praticanti solitari subito dopo l’età pensionabile.

A Mundgod, nel mio monastero, c’era solo un monaco Geshe che faceva questo tipo di vita. Era un Geshe che d’estate stava in monastero, ma d’inverno trascorreva tutto il suo tempo su una montagna vicino al monastero e scendeva di tanto in tanto al villaggio tibetano a chiedere la carità, ma quando è morto nessuno l’ha sostituito. In Tibet in passato era più facile fare queste cose rispetto ad oggi, ma la situazione moderna dell’India e del Tibet è molto complicata perché non c’è né una pensione, né delle terre libere dove andare. Bisogna andare in un ufficio apposito per diventare un eremita!

Quindi abbiamo parlato dei tre tipi di veicoli e dei cinque sentieri che caratterizzano ogni veicolo. Ognuno di questi cinque sentieri può essere praticato, a seconda del veicolo, in due modi: il metodo e la saggezza. Abbiamo specificato quale sia il metodo da utilizzare e quanta la saggezza necessaria per ogni veicolo. Questo sutra, in particolare, spiega il metodo per la pratica del Bodhisattva e dunque spiega i cinque sentieri del Bodhisattva. La motivazione che sta alla base di questo sutra è la bodhicitta e il tema principale affrontato in questo sutra è la saggezza, riferita al sentiero del bodhisattva. Ed è per questo che spesso questo sutra viene detto Bodhisattva-yana sutra o maha-yana sutra.



Madre di tutti gli Illuminati


Il titolo è in sanscrito: Bhagavati Prajna Paramita Hridaya; in tibetano: Chom Den De Ma She Rab Kyi Pa Rol Tu Chin Pe Nying Po; in italiano: Il cuore della Bhagavati, la Perfezione della Saggezza o il sutra dell’essenza della saggezza. Chom Den De significa bagavan, Buddha o essere illuminato che ha eliminato tutti gli ostacoli e ottenuto tutte le qualità. Chom vuol dire colui che ha eliminato ogni confusione, che ha distrutto tutti gli ostacoli e le oscurazioni mentali; Den che ha ottenuto tutte le qualità ; De che è andato al di là di tutte le confusioni e della sofferenza. Non so esattamente come ciò corrisponda al sanscrito baghavan, perchè in tibetano Chom ha un significato, Den un altro, De un altro ancora. Insieme queste tre parole danno la definizione dello stato di Buddha.
Ma significa madre, la madre di Chom Den De, del risvegliato e cioè la Perfezione della Saggezza. Quindi la perfezione della saggezza è la madre dello stato del pieno risveglio. Questo sutra è l’essenza, il cuore della perfezione della saggezza, di cui ci dà i punti essenziali. Il che significa che chiunque voglia raggiungere lo stato di perfetta realizzazione, ovvero d’Illuminazione, deve attraversare il processo di perfezionamento della saggezza. È interessante notare come si è soliti dire: “chi vuole distruggere tutti i problemi, gli ostacoli, chi vuole ottenere tutte le qualità, chi vuole essere libero dalle sofferenze, questo deve ottenere la realizzazione della saggezza”, per questo la saggezza viene chiamata madre. Tuttavia la madre da sola non è sufficiente per causare l’Illuminazione. Il padre è il metodo, lo strumento intelligente, cioè la bodhicitta.

Metaforicamente, quando si parla in termini filosofici all’interno del veicolo del bodhisattva, il padre è la bodhicitta e la madre è la saggezza ed è così anche nelle immagini tantriche, in cui vi è sempre una figura femminile (la saggezza) ed una maschile (la bodhicitta). L’unione di queste due realizzazioni produce la beatitudine dell’Illuminazione, cioè Chom Den De, lo stato di eliminazione degli ostacoli, di ottenimento delle qualità e lo stato di libertà.

Quando parliamo di queste cose, percepiamo spontaneamente l’Illuminazione come qualcosa di lontano, concepiamo una forte distanza da essa e ci sentiamo separati da questo stato, sebbene protesi verso di esso. Ma questo è un modo sbagliato per affrontare il concetto. Infatti Chom Den De sono tre differenti qualità che non devono essere considerate estranee alla nostra mente. Non dobbiamo considerarle come degli stati che possiamo raggiungere solo dopo un lunghissimo percorso, come un qualcosa di distante da noi. Intendo dire che ci si può avvicinare al percorso spirituale in due modi: uno è pensare che siamo dei viaggiatori che devono andare da un posto all’altro, l’altro è pensare che non siamo dei viaggiatori, ma stiamo solamente purificando la nostra mente, in cui vi è una sorta di equilibrio, ci sono delle parti negative e delle parti positive e non si sta cercano di passare da uno stato negativo ad uno positivo o viceversa, è lo stesso luogo, lo stesso momento, è qui, ora.

Ora passiamo alla perfezione della saggezza, Phar Chin. Perfezione significa saggezza che va al di là. Ma chi o cosa è andato al di là? Ciò che è andato al di là è la vera natura della mente, la sua realtà ultima, cioè la vacuità della mente stessa. Quindi la vacuità della mente è l’essenza della perfezione della saggezza. Tale essenza non è riferita alla mente in generale, ma a quella che va dalla mente di tutti gli esseri comuni alla mente dei Buddha. L’essenza della perfezione della saggezza ha ora due significati: uno si riferisce al sutra, lo strumento attraverso cui si cerca di spiegare l’essenza della perfezione della saggezza, e l’altro è la natura ultima della mente, vacuità della mente, reale natura della mente. Di conseguenza, quando leggiamo un discorso sulla madre del Vittorioso, l’essenza della perfezione della saggezza, non dobbiamo pensare al sutra, ma la natura della nostra mente. Il titolo possiede dunque un significato molto speciale.

Dov’è la madre adesso? La madre è dentro di noi, la natura ultima della mente è la madre stessa, la madre dei bhagavati. Quindi lo strumento che possiamo utilizzare per raggiungere pienamente il totale risveglio è la natura della nostra stessa mente. Ma come possiamo farle assumere questo ruolo di madre? Attraverso la purificazione della nostra mente: purificare significa permettere alla vera natura della mente di manifestarsi. C’è un profondo significato in questo. L’unica cosa che dobbiamo fare è lasciar apparire la vera natura della mente, senza complicazioni come andare all’ufficio per eremiti, salire sulla montagna a fare il ritiro e scendere ogni mese a prendere i soldi... quando guardiamo le cose, la prima cosa da guardare è la vera natura della nostra mente. Quando meditiamo la prima cosa che dobbiamo cercare di vedere è la vera natura della nostra mente. Quando parliamo, il posto da cui provengono le nostre parole, dovrebbe essere la vera natura della nostra mente e noi dovremmo parlare alla natura ultima della mente di chi ci ascolta. Anche questa è una questione di consapevolezza, di presenza mentale. È l’essenza di ciò che Buddha ha insegnato. Ma non è un qualcosa che il Buddha ha creato, è qualcosa di universale, che è sempre stato qui. Si tratta di qualcosa da scoprire per potersi liberare da tutte le confusioni.

Questo è un punto importante perché mostra come il titolo racchiuda in sé tutto il contenuto del testo. Dobbiamo ricordarci sempre che l’essenza della perfezione della saggezza è la natura della mente, che a sua volta è la madre di coloro che hanno superato gli ostacoli, hanno ottenuto le qualità positive, sono liberi dalle sofferenze.


Percezione profonda

Cominciamo il sutra:

Così una volta udii: Il Bhagavan dimorava a Rajgriha, presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di Arhat ed un gran numero di Bodhisattva, ed a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato “percezione profonda”.

Un’altra versione riporta “comunità di monaci” ma si intende gli Arhat, tra cui vi erano gli ascoltatori. Poi vi erano i Bodhisattva e altri. Se ‘’comunità di monaci” si riferisce ai bikkhu, allora bikkhu significherebbe non-bodhisattva oppure bodhisattva significa non-bikkhu. Questo concetto potrebbe causare dei fraintendimenti, facendo sembrare i bodhisattva e i bikkhu come due categorie che si escludono l’una l’altra. Invece, qui il sangha, i bodhisattva e gli arhat potrebbero tutti essere in forma di bikkhu.
Per percezione profonda s’intende meditazione sulla vacuità.

In quello stesso tempo, l’arya Avalokiteshvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.

Da qui inizia un altro capitolo.

Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, e gli disse: “Come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza?”.
Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo; dovrebbero vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.

Il capitolo finisce qui. All’inizio si dice in quale occasione è avvenuta questa discussione. Cominciamo da “Una volta ho sentito così, Così una volta udii:”, poiché anche questa frase è considerata parte del sutra. Questa frase, pur facendo parte del sutra, non è stata pronunciata direttamente da Buddha.

Il Sutra del Cuore non è incluso nel canone pali, nel buddismo theravada, poichè non rientra negli avvenimenti ordinari, ma fa parte degli insegnamenti mistici: nonostante vi sia scritto che Buddha andò sulla montagna dell’avvoltoio e vi tenne un discorso, in realtà tutto ciò non è avvenuto in senso comune, non se ne ha la certezza. Non si è sicuri del fatto che questo discorso sia storicamente avvenuto nelle circostanze riportate e perciò questo insegnamento viene considerato appartenente alla categoria di quelli mistici o misteriosi.

In occidente quando si parla di mistico, si pensa subito a qualcosa di speciale, di superiore rispetto al resto. Qualcuno pensa che il testo sia stato composto da Ananda, l’assistente del Buddha, ma non se ne può essere sicuri. Potrebbe essere stato il Bodhisattva Avalokiteshvara, dal momento che i maha-yana sutra o bodhisattvayana sutra sono stati composti dal Bodhisattva Avalokiteshavra, dal Bodhisattva Maitreya, dal bodhisattva Manjushri, ecc. Secondo i sutra del maha-yana il Buddha storico avrebbe avuto otto discepoli più vicini a lui, che erano appunto gli otto bodhisattva, i quali, in un secondo momento, avrebbero composto i sutra del maha-yana, di cui sono gli autori. Questi otto Bodhisattva sono: il Bodhisattva Manjushri, il Bodhisattva Vajrapani, il Bodhisattva Avalokitesvara, il Bodhisattva Ksitigarbha, il Bodhisattva Sarvanivaranaviskambini, il Bodhisattva Akasagarba, il Bodhisattva Maitreya, il Bodhisattva Samantabadra. Generalmente tutti i sutra sono stati scritti dai tre discepoli principali, realmente esistiti sul piano storico: Ananda, Mahakasappa, Njevarkor (in tibetano). Invece, come abbiamo detto, i sutra del maha-yana non hanno un riscontro storico e gli autori, gli otto bodhisattva, non sono registrati da nessuna fonte storica e anche questo fatto è una sorta di mistero; probabilmente furono discepoli monaci, forse apparsi come ascoltatori. Può darsi che il Buddha, in virtù delle loro capacità misteriose, possa aver impartito loro questi insegnamenti maha-yana.

Poi c’è un’altra questione, riguardante il Bodhisattva Avalokitesvara, che si è soliti immaginare come la figura con quattro braccia, undici teste, o come quella con 1000 braccia e 1000 occhi. In realtà non bisogna identificare il bodhisattva Avalokitesvara del sutra né con questa né con quella figura, giacché deve essere apparso sotto forma di monaco. Era un ascoltatore, perché i monaci dovrebbero sempre avere l’apparenza esterna di ascoltatori, e dentro, magari, possono essere bodhisattva. Questo insegnamento segreto è il risultato di una speciale comunicazione fra un discepolo, dalla forma esterna di monaco ma interiormente Bodhisattva, e il Buddha. Così possiamo dire che questo insegnamento proviene veramente dal Buddha.

Andare a fondo nel sutra del cuore è qualcosa di molto complicato, tant’è vero che vi sono tantissimi commentari su di esso. Quando recitiamo il sutra del cuore, possiamo visualizzare come si sviluppa questa storia, come avviene il discorso, il contesto, così da avere anche una pratica di visualizzazione.


Il sentiero dell’accumulazione


La domanda di Shariputra riceve come risposta: i cinque aggregati sono vacui, non hanno un’esistenza intrinseca. Questo è il primo passo per praticare la meditazione sulla saggezza. Fino a questo punto, ‘’dovrebbero vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca’’, si descrive come praticare il primo dei cinque sentieri del bodhisattva-yana. Quando si parla della pratica del bodhisattva, bisogna sottolineare che deve essere sempre basata sulla motivazione di bodhicitta. Basandoci su questa motivazione, la bodhicitta, dovremmo meditare sui cinque aggregati, che sono i costituenti che ci fanno esistere, che fanno sì che il nostro io esista, che noi stessi esistiamo.

I cinque aggregati sono: la forma, la sensazione, la percezione, i fattori composti, la coscienza. È facile dire che sono vacui, ma poi quando si va a vedere che cosa sono questi cinque aggregati si sconfina nel terreno dell’Abhidharma. Questi cinque aggregati sono uno dei modi per classificare gli elementi che formano tutto ciò che è esistente. Quando si parla di forma non s’intende solamente la forma in senso comune e il colore, ma anche altri attributi. Le sensazioni si identificano con le emozioni, quelle positive come quelle negative, di cui tutti noi facciamo esperienza. Il discernimento è un fattore mentale, è la capacità di giudicare le cose giuste e sbagliate. Quella degli elementi composti è una categoria che include tutto il resto dei fenomeni non facente parte degli altri quattro aggregati: tutti i fattori mentali diversi dal secondo e terzo aggregato. Il secondo e terzo aggregato sono dei fattori mentali che sono stati specificati, mentre tutti gli altri rientrano in questo quarto aggregato degli elementi composti. Il quinto aggregato, il più importante, è la mente, è la coscienza.

Gli esseri umani non hanno nulla che non possa essere ricondotto a questi cinque aggregati. Se andiamo ad osservare questi cinque aggregati, possiamo vedere come in essi non vi sia nulla di realmente esistente. Ed è un modo, questo, per vedere come tutti i fenomeni siano vacui, privi una loro esistenza autonoma.

Quando guardiamo qualcosa con gli occhi vediamo forme, colori. Possiamo vedere un bel pizzetto. Ma quando guardiamo dal profondo della meditazione non c’è pizzetto. Dovremmo imparare a vedere le cose sia dal punto di vista convenzionale, sia dal punto di vista della realtà ultima. Se tagliamo via il pizzetto, ci ritroviamo con un po’ di peli in mano, e ci chiediamo: “Che cos’è questo?”. È un pizzetto o no? Non è più un pizzetto, vero? Quindi c’è qualcosa che va al di là di ciò che percepiamo al livello convenzionale. Guardare attraverso gli occhi della profonda meditazione significa vedere le cose in modo estremamente dettagliato.
Fino a questo punto si parla della maniera per praticare il primo dei sentieri, quello dell’accumulazione. Il sentiero dell’accumulazione ha tre passaggi diversi e anche tre tipi di pratiche mentali diverse: la prima pratica è quella delle quattro contemplazioni vicine; la seconda è quella dei quattro completi abbandoni; la terza è costituita dalle quattro concentrazioni. Queste tre pratiche devono essere eseguite in quest’ordine perché l’una porta a quella successiva. Generalmente nel mondo occidentale si parla di vipassana, che viene sviluppata attraverso sati o consapevolezza. Questa pratica si basa sul Satipatana sutra, che dà le istruzioni per la pratica delle quattro contemplazioni vicine. Spiegare il sutra del cuore è spiegare l’intero buddismo, perché la pratica completa di vipassana, tutto il Satipatana sutra, arriva solamente allo stadio delle quattro contemplazioni vicine. In seguito, bisogna spiegare i quattro completi abbandoni e le quattro concentrazioni, così da aver finito di parlare del primo sentiero, quello dell’accumulazione.

Le quattro contemplazioni, corrispondenti alle quattro pratiche di consapevolezza indicate nel Satipatana sutra, sono: la contemplazione sul corpo, sulle sensazioni, sulla mente o coscienza, su tutti gli altri fenomeni.
Finite queste pratiche, si passa ai quattro completi abbandoni che coincidono principalmente con la perseveranza entusiastica, lo sforzo gioioso, che riguarda lo sviluppo di nuove virtù. Dapprima si abbandona la pigrizia per sviluppare la perseveranza entusiastica che ci porta a generare nuove virtù. La seconda perseveranza riguarda l’incremento delle virtù che si possiedono già. Poi bisogna abbandonare la pigrizia che ci fa porre in essere nuove azioni non virtuose e quella che, in modo simile, non ci fa sviluppare azioni virtuose che abbiamo generato. Questi sono i quattro abbandoni.
In terzo luogo vi sono le quattro concentrazioni: la concentrazione sull’aspirazione, la concentrazione sulla perseveranza entusiastica, la concentrazione sul pensiero, poi quella sull’analisi. Queste concentrazioni vengono tutte attuate con l’aiuto della profonda visione e le sei perfezioni sono la sintesi di tutte le pratiche.

Il sutra della saggezza, fino al punto in cui si parla dell’assenza di esistenza intrinseca nei cinque aggregati, corrisponde dunque al primo dei cinque sentieri del pratica del bodhisattva, cioè il sentiero dell’accumulazione.
Basandoci sulla bodhicitta, dobbiamo poi sviluppare le tre pratiche: quella delle quattro contemplazioni vicine, quella dei quattro abbandoni completi, quella delle quattro concentrazioni. Quest’ultima è anche conosciuta con il nome di “quattro gambe miracolose”.

Per questo bisogna studiare l’Abidharma (Abidharmakosa di Vasubhandu e Abidharmasamuccha di Asangha), conoscere i cinque aggregati, la Madhyamaka (essenzialmente di Nagarjuna e Chandrakirti), la vacuità, il Prajnaparamita (principalmente l’Abhisamayalamkara di Maitreya) che ci spiega in dettaglio come procedere in queste quattro pratiche. In questo modo quando leggeremo “i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca” potremo praticare tutte queste cose per sviluppare la bodhicitta, per suscitare la quale è molto utile il Bodhicaryavatara di Shantideva, così come molti altri testi che descrivono la bodhicitta.
Spiegare il sutra del cuore è qualcosa di molto complicato, ma al contempo molto bello.






II Parte(14 Dicembre 2003)



Dharma semplice


La mente virtuosa o l’attitudine virtuosa che sorge nel nostro cuore è rara ed è come un fulmine, un lampo nella notte; dovremmo considerare il nostro incontro di Dharma come un’occasione importante per riscaldare il nostro cuore. Dedicare se stessi a questa attività è un gesto significativo.

Generalmente noi collochiamo questo tipo di attività all’ultimo posto nella lista delle cose che abbiamo in programma da fare. È per questo che questa pratica viene svolta solitamente di domenica, il giorno in cui facciamo le cose che sono rimaste per ultime nella nostra lista! Ma lo svolgimento di questa attività di domenica non è intenzionale, è piuttosto dovuto alle condizioni che ci circondano, non è motivato solo dalla decisione del singolo, ma anche basato sulla struttura sociale. A livello sociale, infatti, la pratica spirituale, la pratica del Dharma, è giudicata superflua, poco importante, spesso manca del tutto. Dipende dall’individuo organizzare il proprio tempo in modo tale da farvi rientrare anche tali eventi. È interessante notare come la domenica sia il giorno in cui il governo lascia liberi per poter andare a messa.

Quando ero in Nepal il giorno di festa era il sabato e il venerdì era festa per mezza giornata. Il venerdì pomeriggio, a scuola, facevano dei gruppi di dieci bambini ciascuno, ad ogni gruppo veniva data una saponetta e nel pomeriggio si andava al fiume, dove bisognava lottare per riuscire a prendere questa saponetta con cui potersi lavare. Quindi il venerdì era il giorno dedicato alla cura del corpo, mentre il sabato era un giorno di festa vera e propria, per rilassarsi e svagarsi. Ogni sabato mia madre mi dava 50 paisa, l’equivalente di cinquanta centesimi ed io, non so perché, andavo dal mio villaggio all’aeroporto. Tornando mi fermavo ad un ristorante nepalese dove con questi soldi mi prendevo un po’ di tè e un piccolo dolcetto. Quando invece sono andato nel monastero, in India, il giorno di riposo era il lunedì. Penso che in India il giorno festivo sia generalmente la domenica, mentre nella nostra zona era il lunedì, perché a Mundgod il lunedì era il giorno di mercato, durante il quale da tutti i posti circostanti venivano i contadini a vendere le verdure. Quando ero al monastero il lunedì era un giorno molto prezioso.

Quando sono venuto qui in occidente ho trovato la domenica quale giorno festivo, anche se per me è festa tutti i giorni! Domenica perché è la giornata in cui i cristiani vanno a messa. Dunque le vacanze dipendono dalle diverse situazioni, dalle usanze del posto. Non so perché in Nepal il giorno festivo sia il sabato, ma forse è perché nel calendario tibetano la domenica è il primo giorno della settimana, mentre l’ultimo, secondo il calendario lunare, è il sabato. Anche gli ebrei hanno il sabato come giorno festivo.

I tibetani vanno al monastero in occasioni speciali: il novilunio , quando la luna è a metà, il plenilunio. Solitamente sono importanti per la pratica del dharma, per la meditazione, il primo giorno del mese, il 15 del mese e l’ultimo giorno, cioè il 30. Tali giorni sono significativi perché si ritiene che al cambiare della luna corrispondano dei cambiamenti nel nostro mondo interiore, dei momenti in cui vi sono maggiori opportunità per espandere le nostre realizzazioni, la nostra sapienza. Per chi pratica il puja per Tara è fondamentale l’ottavo giorno del mese, per chi pratica il puja per Padmasambawa il decimo giorno, per chi pratica il puja per Jey Tsongkhapa il venticinquesimo. Poi ve ne sono molti altri, è una cosa molto simile ai santi nel calendario occidentale. Ma per tutti sono importanti il primo, il quindicesimo e l’ultimo giorno mensile e ciò è valido per i tutti praticanti spirituali, di qualsiasi fede religiosa.

Mia madre è molto devota ed è molto brava nel seguire tutti questi impegni, ha un’ottima consapevolezza, una buona perseveranza entusiastica, una buona compassione, una buona pazienza, una buona concentrazione, forse non un’ottima saggezza. Ma ritengo che sia molto più importante avere una saggezza sufficiente e possedere una buona compassione, una buona pazienza, piuttosto che avere una grande saggezza, ma poca compassione, poca pazienza. Mio padre è una persona molto intelligente, impara tutto subito, però, non possiede tantissima pazienza e ha poca perseveranza entusiastica. Quindi la pratica dei miei genitori è un po’ diversa: mio padre pratica piu’ di mattina, finché non arriva la colazione in tavola; mentre aspetta che mia madre abbia finito di preparare la colazione fa puja e meditazione, ma una volta fatta colazione se ne va. Ovviamente sto scherzando un po’ sui miei genitori!

Mia madre dal momento in cui apre gli occhi la mattina fino a quando li chiude la sera, continua a praticare la meditazione, a fare offerte, preghiere, a prescindere da qualsiasi cosa stia facendo, durante qualsiasi attività continua a portare avanti la pratica. Questa è secondo me una pratica di livello veramente alto.

Una buona pratica non significa stare seduti in posizione meditativa con un’espressione concentrata sul volto, si tratta di continuare la pratica durante ogni momento della nostra vita, durante ogni attività intrapresa. Per questo si dice che la saggezza è una buona cosa, ma la pazienza e la perseveranza sono più importanti per portare avanti la pratica spirituale. Una saggezza sufficiente è abbastanza.

Mia madre si ricorda sempre di tutte queste occasioni importanti, senza mai dimenticarne nessuna. Un’altra offerta particolare consiste in alcune lampade che vengono tenute accese giorno e notte, senza interruzione. Non è solo una questione di luce, rappresenta tutta la pratica: la generosità, la pace, la concentrazione, la pazienza, l’offerta da fare la mattina, quella da fare la sera, il mantenere pulito questo luogo speciale.

Come si fa a praticare il Dharma? Qui in occidente a volte si pensa che la pratica consista nel mettersi seduti in un luogo molto bello a meditare, recitando sutra, ascoltando della bella musica, con dell’ottimo cibo. In quel momenti si dice: “Stiamo meditando”. Per un po’ questo è bello, ma la pratica quotidiana deve essere integrata alla nostra vita e ciò è estremamente difficile, ma se ci riusciamo vi sarà una perfetta compenetrazione fra le due entità, la nostra vita quotidiana diventerà la nostra pratica e la nostra pratica diventerà la nostra vita quotidiana, non vi sarà più differenza fra esse.

Questi piccoli rituali come offrire incenso o preparare l’altare hanno a che fare con la pratica delle sei Paramita, l’essenza del Dharma; talvolta però possono divenire pericolosi e a tal proposito vi è la storia di Geshe Ben Kun Je. Costui era un bandito che poi era divenuto un grande yogi e viveva in eremitaggio. Un giorno un suo sostenitore stava per venirlo a trovare e allora preparò un altare molto decorato, vi recò molte offerte per poterglielo mostrare. Poi si mise ad attendere questo sostenitore, ma ad un certo momento si rese conto che quanto aveva preparato era Dharma mondano e perciò uscì, prese della polvere e la gettò sull’altare, rovinando tutte le offerte. Nello stesso momento in cui fece questo gesto nel Sud dell’India vi fu un importante yogi chiamato Fa Dam Pa San Gye, che disse a un suo discepolo: “In questo momento un Geshe ha compreso l’inutilità del Dharma mondano, è riuscito a tirare della polvere sul Dharma mondano”. Questo non è facile, lo stesso Fa Dam Pa San Gye, che era considerato un grande yogi, ne rimase sorpreso. Tale avvenimento costituì un riconoscimento molto importante per questo yogi tibetano Geshe Ben Kun Je. La pratica di Geshe Ben Kun Je era molto semplice, in quanto era stato un bandito e di conseguenza non era molto erudito, non era uno studioso. La sua pratica consisteva nell’osservare la sua mente, tenerla sotto controllo: osservava se ciò che vi si manifestava era positivo o negativo. Quando sorgeva un aspetto positivo nella mente metteva un sassolino bianco, quando sorgeva uno negativo metteva un sassolino nero e trascorreva così tutto il tempo. La sera li contava e vedeva quanti sassolini bianchi vi fossero e quanti neri. All’inizio ce n’erano molti neri e pochi bianchi. Poi, gradualmente, giorno dopo giorno, quelli neri divennero sempre di meno e quelli bianchi sempre di più. Un modo molto pratico.


Ka Dam Pa


Dunque per praticare il Dharma non è necessario conoscere tutti i sutra, i mantra, i tantra, ecc…basta vedere la pratica di mia madre e di Geshe Ben Kun Je. Non si deve pensare di non saper praticare il Dharma perché non si hanno delle grandi conoscenze filosofiche, non si sa abbastanza: praticare il Dharma è qualcosa di naturale, essendo nati come esseri umani si possiedono già tutte le dotazioni necessarie per praticarlo. Questo è un punto fisso ed essenziale che caratterizza la tradizione Ka Dam Pa. Ka significa insegnamento di Buddha, Dam consiglio, quindi la Ka Dam Pa è la tradizione che si basa nel dare in pochi consigli quelli che sono gli insegnamenti del Buddha. Ma oggi Ka Dam non si riferisce solo agli insegnamenti di Buddha, ma a tutti gli insegnamenti di tutte le religioni e tradizioni spirituali di tutto il mondo, a qualsiasi buon consiglio, ad ogni sistema d’istruzione.

Ka Dam Pa è una parola molto significativa, che indica umiltà e armonia, significa in un certo senso “abbassarsi”. La tradizione Ka Dam è basata sugli insegnamenti di Atisha. Il primo Geshe di questa tradizione fu Drom Ton Pa, da cui è scaturita la tradizione basata sugli insegnamenti Lam Rim e Lo Jong. È in questo contesto che è nato anche il termine Geshe, utilizzato per riferirsi con rispetto ai propri amici spirituali, fratelli spirituali. Per questi motivi Ka Dam è un buon termine e indica colui che prende qualsiasi buon consiglio, ovunque, per portare avanti la sua pratica spirituale.

Vi sono tre correnti Ka Dam. La prima è Ka Dam Lam Rim Pa: si tratta di praticanti Ka Dam che si basano soprattutto sui testi o sugli insegnamenti intitolati Lam Rim. Oggi ci sono principalmente otto testi concernenti il Lam Rim, intitolati Lam Rim. Il primo è il testo di Atisha, “La lampada che illumina il sentiero verso l’Illuminazione”; poi vi sono i tre testi Lam Rim scritti da Lama Tsong Khapa, il grande, il medio e il piccolo, intitolato “Frasi di esperienza”; poi vi sono altri commentari fatti da vari Dalai Lama o Panchen Lama e comunque altri testi Lam Rim. Quindi se fossimo Ka Dam che si basano su testi Lam Rim, ci chiameremmo Ka Dam Lam Rim Pa.

Poi abbiamo i Ka Dam Shung Pa Wa, un tipo di praticante Ka Dam che si basa sulle Scritture. Si tratta di un erudito che basa la propria pratica sullo studio di sutra, di commentari, di vari testi tibetani. Tutte le varie Scritture sono sintetizzate in ciò che viene studiato nel monastero, cioè i cinque trattati sul buddismo: Pramana, logica ed epistemologia; Prajnaparamita, la perfezione della saggezza; Madhyamika, la via di mezzo; Abidharma, metafisica o studio dei fenomeni; Vinaya, il codice monastico. Come si vede non c’è il tantra, in quanto per divenire geshe non c’è bisogno di tantra, il tantrismo non è incluso nel curriculum monastico delle università monastiche tibetane, che sono Gan Den, Dre Pung e Se Ra. Se si studiano bene questi cinque trattati, i testi tantra-yana diventano facilmente comprensibili, anche solo attraverso una semplice lettura. Se invece non si ha una profonda conoscenza di questi trattati, di questi argomenti, e si affronta lo studio del cosiddetto più alto tantra, non si capirà niente, ci si limiterà solo a dire: questo ha tre teste, un occhio qua, uno là, ma non si comprenderà nulla del significato, non si capirà l’essenza.

Vi è un detto tibetano: “La ricchezza del Thud (un dolce al formaggio tibetano) risiede nel burro che vi è dentro: senza aggiungervi burro il Thud sarebbe semplicemente un pezzo di formaggio secco. La ricchezza del mantra risiede nel suo fondarsi sul sutra. Senza sutra, il mantra sarebbe semplicemente un suono come Hum Hum Phad Phad”.

Infine, per terzo, abbiamo Ka Dam Men Ngag Pa, cioè colui che fonda la sua pratica solo su insegnamenti, istruzioni orali. Ciò significa che questo tipo di praticante non legge nessun testo, ma solamente ascolta gli insegnamenti del suo maestro e pratica. Come si è detto, Ka Dam è una tradizione che prende origine da Atisha, maestro proveniente dal Bangladesh.

Il discorso fatto sulla tradizione Ka Dam non è un tentativo di creare delle categorie, bensì di mostrare come sia possibile praticare in modi diversi. Mia madre è Ka Dam Men Ngag Pa, perché segue solo gli insegnamenti orali, impara tutte le preghiere da mio padre, memorizzando ogni giorno tre o quattro righe in più. È una cosa molto particolare, che mi ha sorpreso. Quando c’è qualche nuova preghiera, mio padre gliela legge e lei la memorizza ed è poi in grado di ripeterla. Questi praticanti Ka Dam si esercitano tutti in modi diversi, ma la loro pratica è ugualmente valida.

Apprezzo molto la tradizione Ka Dam, il suo approccio semplice ed umile alla pratica del Dharma; i Ka Dam trattano tutti ugualmente e non pensano mai di essere superiori agli altri, il loro stesso nome, Ka Dam, è molto semplice ed indica rispetto verso ogni cosa, verso ogni buon consiglio. Se si guarda ai grandi Geshe del passato di questa tradizione, si può vedere come siano stati dei grandi yogi umili. Questa tradizione è molto adatta alla nostra società occidentale odierna. Non è una tradizione rivolta solo ai monaci ed infatti il primo Geshe era laico ed è stato comunque considerato il fondatore della tradizione Ka Dam, si chiamava Drom Ton Pa e fu discepolo di Atisha.

Non ci sono requisiti particolari per accedere alla pratica di questa tradizione, basta essere persone normali, molto semplici e umili, dedite all’arricchimento della mente. Non vi sono neppure iniziazioni, ritiri, mantra. Proprio per questo l’approccio al Dharma di questa tradizione sorta nel X o XI secolo in Tibet è molto adatto alle caratteristiche della società occidentale. Questa tradizione ispirata dagli insegnamenti di Atisha si è manifestata in una forma di pratica adatta al Tibet di quell’epoca, durante la quale, forse, la società tibetana era molto avanzata.

Bisogna capire cos’è il Dharma e qual’è il modo di praticarlo. Adesso tratteremo il sutra del cuore. Prima abbiamo parlato di come praticare il Dharma in una maniera molto pratica, ad un livello che può essere molto diffuso e popolare. Penso che sia stato importante perché concentrandosi troppo sui sutra o su temi molto complicati si rischia di perdere la vera essenza, il modo di praticare il Dharma nel contesto della nostra esistenza, della nostra situazione. Inoltre l’argomento di questo sutra è analogo a ciò che di cui si è appena discusso, dal momento che affronta il tema di che cos’è il Dharma e come bisogna praticarlo.



Il Sutra del Cuore e il Kalachakra Tantra


Il Sutra del Cuore è un insegnamento che, come si è detto, è stato dato dal Buddha sul Picco degli Avvoltoi, nel nord dell’India, ed è il secondo dei tre giri dati alla ruota del Dharma. Si dice che nello stesso momento in cui stava impartendo l’insegnamento sul Sutra del Cuore, il Buddha fosse anche nel Sud dell’India, dando gli insegnamenti sul Kalachakra Tantra. Questa è una leggenda della tradizione maha-yana or vajra-yana, ma se guardiamo i testi circa la vita e gli insegnamenti del Buddha della tradizione theravada non troviamo questi insegnamenti, i quali appartengono ad una parte della vita del Buddha segreta, misteriosa. Tra i buddisti vi sono molti che non credono a queste cose, ma possono essere tuttavia dei grandi praticanti di Dharma, dei grandi praticanti buddisti. Spesso davanti a questo genere di cose le persone vedono delle contraddizioni nel mondo buddhista che in realtà non sussistono, perché questo è il modo in cui il Buddismo si è sviluppato nel mondo e queste sono state le capacità particolari che il Buddha ha utilizzato per fare in modo che il suo insegnamento potesse recare veramente beneficio a tutte le persone. Il suo scopo non era quello di promuovere la sua filosofia o il suo punto di vista, ma quello di aiutare gli altri. Perciò se in quel tempo vi fosse stato il Cristianesimo o l’Islam, il Buddha avrebbe potuto insegnare la dottrina cristiana o musulmana per recare beneficio agli altri, poiché qualsiasi cosa che è di beneficio agli altri è da considerarsi buona. È un fatto oggettivo, non soggettivo.

Non è facile capire cosa sia il Buddismo. Il Buddismo è la ricerca della liberazione e di conseguenza non significa attaccarsi ad un punto di vista e fissarsi su di esso; la pratica del Buddismo, chiamata Dharma, è volta principalmente a recare beneficio agli altri. Per questo i Bodhisattva possono praticare ed imparare qualsiasi cosa che sia di beneficio agli altri. In alcuni sutra si dice che i Bodhisattva possono imparare tutti i diversi sentieri, possono realizzare tutti questi diversi sentieri, possono praticare tutti questi diversi sentieri per poter aiutare tutte le diverse persone, a seconda delle capacità di comprensione e delle inclinazioni mentali di quest’ultime. Questo è il Buddismo. Non è in contraddizione con le altre religioni ed al suo interno vi sono delle posizioni apparentemente contraddittorie che però collaborano insieme per recare beneficio ad una vasta gamma di persone. Vi è democrazia, unità. C’è da stupirsi se si pensa che nel Buddismo alcuni credono nel Sutra del Cuore, altri credono nel kalachakra, certi in entrambi, etc…

In conclusione, secondo il Buddismo tibetano, che nella società occidentale è conosciuto sotto il nome di vajra-yana, mentre il Buddha stava dando l’insegnamento del Sutra del Cuore sul Picco degli Avvoltoi, stava anche insegnando Kalachakra in Danakataka, nel sud dell’India. È difficile comprendere cosa sia il Dharma e come vada praticato.

E’ importante comprendere come vi siano molte diversità all’interno del Buddismo, ma come tutti pratichino il Dharma; ognuno ha il suo punto di vista, il suo modo di avvicinarsi al Dharma, ma tutti praticano lo stesso Dharma ed è per questo che appartengono al medesimo sentiero spirituale. Se è un modo di recar beneficio a qualcun altro, di portare rispetto a qualcun altro, allora non vi è nulla di male nel recitare il Sutra del Cuore, anche se non dovessi crederci: il punto non è se ci si crede o meno, ma se questo può essere di aiuto agli altri.



Tre tipi di Buddha


Il Sutra del Cuore rientra nei testi importanti del Lam Rim, fa parte degli stadi del sentiero, è basato sui cinque principali stadi del sentiero verso l’Illuminazione. Questi cinque sentieri, come si è detto, sono: il sentiero dell’accumulazione, il sentiero della preparazione, il sentiero della visione, il sentiero della meditazione e il sentiero della fine dell’apprendimento, che è il percorso dell’Illuminazione.

Questo insegnamento è stato trasmesso agli Shravaka e ai Pratyeka-buddha. Si può pertanto dire che non fu impartito solo ai Bodhisattva, che sono i praticanti del grande veicolo, ma anche a praticanti diversi, che seguono il veicolo della liberazione individuale.

Il tema principale di questo sutra è la vacuità, la natura ultima della realtà. Ma il modo in cui la vacuità viene spiegata passa attraverso la spiegazione dei cinque sentieri che portano alla liberazione: i cinque sentieri del praticante bodhisattva, i cinque sentieri degli ascoltatori o shravaka, i cinque sentieri dei praticanti solitari o pratyekabuddha. Ci sono in tutto quindici sentieri diversi, cinque per ciascuno dei tre praticanti.

L’obiettivo che si propongono shravaka e pratyekabuddha è la liberazione individuale, mentre quello dei bodhisattva è l’Illuminazione completa. In entrambi i casi, per raggiungere tale meta è indispensabile la realizzazione della vacuità. Per ognuno di questi tipi di pratiche vi sono un metodo e una saggezza che vengono applicati. Nei primi due casi, cioè nei casi in cui lo scopo finale è la liberazione individuale, il metodo è la rinuncia, mentre nel caso della via del Bodhisattva il metodo è la bodhicitta. Tuttavia, in tutti i tre casi, la saggezza è la stessa: è la saggezza che realizza la natura ultima dei fenomeni. Il metodo comune a questi tre tipi di praticanti esiste ed è la compassione e la gentilezza amorevole, che sono l’altra faccia della rinuncia e sono la manifestazione dinamica di bodhicitta. Quindi, per quanto riguarda il metodo e la saggezza che caratterizza tali sentieri spirituali, possiamo dire che si tratta della stessa nozione, ma applicata a livelli diversi. Per quanto riguarda l’aspetto della saggezza, il sentiero degli shravaka ha una approccio alla saggezza minore, mentre l’approccio dei pratyekabuddha è un approccio intermedio, infine l’approccio dei bodhisattva alla saggezza è del livello più alto. Per quanto riguarda l’aspetto del metodo, la rinuncia, questa è l’applicazione della compassione con dei limiti; da questo punto di vista gli shravaka sono simili ai pratyeka buddha, mentre i bodhisattva possiedono la bodhicitta che è il massimo livello di altruismo, gentilezza amorevole, compassione e rinuncia.

Ora abbiamo una chiara comprensione di quali sono i due aspetti complementari che possono permettere ai tre tipi di praticanti diversi di raggiungere (o) la liberazione individuale o l’Illuminazione completa. Questa è una premessa fondamentale per riuscire a seguire in maniera corretta il commento del testo.

È importante capire i cinque aspetti del sentiero che conduce alla liberazione individuale o all’Illuminazione per poterli inserire nel discorso sul metodo e la saggezza.

Il percorso dell’accumulazione non è facile. Il modo per misurare quanto ci siamo addentrati nel sentiero dell’accumulazione è il livello di pura rinuncia che abbiamo raggiunto. Nel caso del sentiero del bodhisattva un modo per svilupparla è quello di cercare di sviluppare bodhicitta. Quando abbiamo sviluppato una pura rinuncia, ma non bodhicitta, allora siamo entrati nel sentiero shravaka o pratyeka. A volte è possibile sviluppare bodhicitta e far sorgere spontaneamente anche la rinuncia. In questo caso si entra direttamente nel percorso del bodhisattva.

Per poter entrare in uno di questi sentieri, sia che si tratti di quello degli shravaka sia di quello degli pratyekabuddha o dei bodhisattva, non c’è bisogno di aver sviluppato la vacuità, né di averla realizzata.

Il sentiero dell’accumulazione è dunque lo sviluppo della pura rinuncia e bodhicitta, non è necessario, per poterlo percorrere, aver ottenuto la realizzazione della vacuità. Il sentiero dell’accumulazione è il momento in cui si studia la vacuità mediante studio e letture.

Vi sono tre fasi nello studio, nello sviluppo, nella realizzazione della vacuità: la fase dell’ascolto degli insegnamenti; la contemplazione; la meditazione. Quindi la realizzazione, la comprensione della vacuità ha tre stadi: il primo è accumulare, ascoltare, studiare, comprendere cosa è la vacuità. In questo momento sono importanti le prime due fasi dell’apprendimento, cioè l’ascolto o lo studio e la contemplazione, la riflessione. Pertanto, il sentiero dell’accumulazione è il momento in cui vengono poste in essere queste prime due fasi dell’apprendimento. Come viene indicato nel testo, la prima parte del percorso dell’accumulazione, dopo aver sviluppato la rinuncia e la bodhicitta, consiste nell’iniziare ad ascoltare gli insegnamenti sulla vacuità e a riflettere sul significato di tale concetto.

Questo discorso corrisponde alle righe nel Sutra del Cuore in cui viene formulata la domanda: “Come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza?” che concerne il modo in cui sviluppare questi due aspetti del sentiero verso la liberazione individuale o l’Illuminazione.

Poi viene la risposta: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”.

Riflettere su quest’ultima frase, cioè sul fatto che i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”, fa parte del sentiero dell’accumulazione.


Il sentiero della preparazione

La seconda parte della risposta indica il modo in cui si può riflettere su questa prima frase, secondo quattro modalità diverse. Si entra maggiormente nel dettaglio su come riflettere circa la vacuità dei cinque aggregati. Si dice che il tuo corpo è vacuo e la vacuità è il tuo corpo, il tuo corpo non è altro che la vacuità e la vacuità non è altro che il tuo corpo o : “La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza.”

Questi quattro modi diversi di riflettere sulla vacuità appartengono al sentiero della preparazione. Quando si legge questo testo non si avverte immediatamente la distinzione in cinque fasi diverse, perché si parla sempre di vacuità, il testo è relativamente breve, non si vedono molte differenze, sembra che si rimanga sempre su uno stesso discorso. Invece con l’aiuto di queste cinque fasi possiamo percepire come sia progressivo il modo che il testo ha di proporre, di consigliare la pratica di avvicinamento a tale realizzazione.

Quando leggiamo la prima frase, che dice che i cinque aggregati sono vacui, questo è un modo breve, sintetico per avvicinarsi alla vacuità, specialmente con riferimento alla vacuità del sé. Dire che i cinque aggregati sono vacui è un modo molto sintetico di definire la vacuità degli aggregati ed è un modo molto conciso di presentare la riflessione su di essi.

Quando si leggono queste righe la profondità della comprensione raggiunge solo il livello dello studio, della riflessione, non raggiunge il livello della meditazione. Dopo la prima fase di accumulazione, in cui si studia, si impara, si comprende cos’è la vacuità, si raggiunge il secondo gradino, quando si dice : La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità”. In questo momento si va più in profondità nell’osservazione della vacuità della forma e questo significa che siamo entrati nel livello della meditazione. A questo punto si entra nel sentiero della preparazione.

Come si passa ora dal percorso dell’accumulazione al percorso della preparazione? Questo passaggio è determinato solamente dal livello di realizzazione della vacuità raggiunto. All’inizio si ha una visione strettamente intellettuale di cosa sia la vacuità, poi attraverso una meditazione si comincia a vedere questa vacuità, si comincia a realizzarla, non ad alto livello, poiché questa realizzazione è ancora piena di punti d’ombra, di cose non chiare, ma comunque si inizia a percepire cosa sia la vacuità. Solo attraverso la meditazione si può pervenire alla realizzazione, la meditazione samatha (che è la meditazione su un unico punto) e vipassana (che è l’analisi della vacuità). Attraverso l’unione di samatha e vipassana si può raggiungere la realizzazione della vacuità.

Una volta ottenuta tale realizzazione, si raggiunge il sentiero della preparazione. Per cosa ci stiamo preparando? Ci stiamo preparando a vedere la vacuità, ci stiamo preparando al sentiero della visione, intesa come un vedere in maniera intuitiva, chiara, diretta. Dunque il percorso della preparazione dura fino al momento in cui si percepirà spontaneamente, direttamente la vacuità.
Adesso abbiamo visto chiaramente quali siano le caratteristiche del sentiero dell’accumulazione, del percorso della preparazione e del percorso della visione.

Il percorso dell’accumulazione ha tre fasi: una iniziale, una intermedia ed una avanzata. Nella prima fase dovremmo praticare le quattro consapevolezze vicine: consapevolezza del corpo, consapevolezza delle sensazioni, consapevolezza della mente, consapevolezza degli aspetti positivi e negativi dei fenomeni. Questo è il modo per preparare una solida base per l’arrivo di tutte le realizzazioni future.
Per poter praticare bene queste quattro consapevolezze è necessario basarsi sulle Quattro Nobili Verità, che sono fondamentali.
Come seconda parte del sentiero dell’accumulazione dovremmo praticare le quattro perseveranze.
In terzo luogo ci sono le quattro concentrazioni.

Quindi è molto importante lo sviluppo della consapevolezza, della perseveranza, della concentrazione, che sono fondamentali per espandere le nostre realizzazioni nel futuro. Inoltre queste tre cose ci danno una forza dinamica che ci permetterà di far sviluppare il sentiero della preparazione per poter capire, realizzare la vacuità.

Nel percorso dell’accumulazione vi è però un altro aspetto riguardante il metodo, la bodhicitta. Lo sviluppo di bodhicitta è reso attraverso tre metafore: bodhicitta come il terreno, bodhicitta come l’oro, bodhicitta come la luna(, la luna) del primo giorno. Tali esempi rappresentano l’incrementarsi di bodhicitta durante il sentiero dell’accumulazione.

Bodhicitta come terreno rappresenta la bodhicitta che fornisce una valida base per l’incremento della realizzazione. In questo primo momento, però, la bodhicitta potrebbe anche decrescere, diminuire.

Quando si raggiunge, invece, il secondo livello, cioè la bodhicitta come l’oro, significa che ormai la bodhicitta non cambia più, non può più diminuire (in quanto l’oro è inalterabile).

Il terzo livello, la bodhicitta come la luna del primo giorno, significa che da questo momento la bodhicitta aumenterà sempre, proprio come la luna del primo giorno che cresce sempre.

Per riassumere: nel sentiero dell’accumulazione, con riferimento al percorso del bodhisattva, quando si acquisisce la bodhicitta come il terreno, questo è il momento in cui entriamo nel percorso maha-yana del bodhisattva. Per aumentare questa bodhicitta vi è la pratica delle quattro consapevolezze che sviluppa la bodhicitta facendola divenire bodhicitta simile all’oro; in seguito, la pratica delle quattro perseveranze la espande ulteriormente, facendola diventare bodhicitta come la luna del primo giorno; infine la pratica delle quattro concentrazioni l’espande al punto tale da raggiungere il sentiero della preparazione, in cui la bodhicitta è come il calore.

Questo rafforzamento di bodhicitta attraverso le tre quadruplici pratiche è ciò che ci permette di avere una comprensione sempre più approfondita della vacuità. La meditazione sulla vacuità, pratica che è simultanea a quella delle tre quadruplici pratiche, ci aiuta a passare dal sentiero dell’accumulazione a quello della preparazione e automaticamente a generare una bodhicitta che è come il calore.

Quindi l’ottenimento della bodhicitta come il calore, la realizzazione della vacuità e l’entrata nel sentiero della preparazione avvengono nello stesso momento, simultaneamente.








III Parte

(14 Marzo 2004)


Lo Jong

Stiamo tentando di sviluppare una comprensione approfondita sul Sutra del Cuore, per poter capire la realtà ultima o verità ultima dei fenomeni esistenti.
Lo strumento da utilizzare per tale comprensione è il Dharma, che è un termine molto conosciuto, molto diffuso oggigiorno, utilizzato sia all’interno del Buddismo sia all’interno della pratica Induista e che viene usato anche in altre tradizioni religiose per indicare una soluzione ai problemi quotidiani.

All’interno della filosofia buddista il Dharma indica la natura ultima dei fenomeni, denominata vacuità. Con riferimento al Dharma si parla anche di Nirvana, intendendo per questo la vacuità della mente che è riuscita ad arrivare la di là di ogni sofferenza. Quindi il Dharma e il Nirvana sono strettamente collegati.

Il motivo per cui possiamo sviluppare il Dharma e il Nirvana risiede unicamente nella nostra mente. La mente possiede la caratteristica innata di sentire spontaneamente un senso di Io, di Mio. Se non vi fosse questa naturale tendenza a sviluppare un’idea di Io e di Mio, allora non sorgerebbe nessun problema, nessuna sofferenza. La filosofia buddista propone un approccio basato sull’osservazione di questa tendenza umana a concepire l’esistenza di un Io e di un Mio: l’oggetto base della pratica è lo studio dei motivi che ci spingono a seguire la tendenza a percepire un’idea di Io e di Mio.

Nella pratica del Lo Jong, che unisce tutti gli insegnamenti sul Lo Jong, si dice nel primo verso che bisogna dare la colpa di tutti i problemi ad una sola cosa: l’attaccamento al sé. Dal momento che abbiamo questa naturale tendenza a credere in un Io, iniziamo ad attaccarci a questa figura e pensiamo “Io devo essere felice, Io devo essere contento, etc…”. L’oggetto di quest’attaccamento è appunto l’Io, unito all’idea di Mio. Risolvere i problemi non significa risolverli uno per uno, perché ciò sarebbe impossibile, non basterebbe la nostra vita intera, dal momento che i problemi sono migliaia. Per questo alcune persone intelligenti consigliano di tagliare l’origine dei problemi, di sradicare il fondamento dei problemi, in modo tale che non possano germogliare i suoi rami e frutti. La radice di tutti i problemi è appunto l’attaccamento al sé. Per riuscire a liberarcene, bisogna innanzitutto andare alla ricerca e analizzare quello che noi chiamiamo Io. Non è sufficiente sviluppare questa riflessione solo ad un livello mentale, occorre, al contrario, pensare profondamente, analizzare intensamente questo tema.

L’attaccamento all’Io si suddivide in due livelli: l’attaccamento al sé che deriva dall’aver sentito teorie su questo Io; l’attaccamento al sé che deriva dall’attaccamento istintivo, naturale all’Io.

Noi stiamo tentando di eliminare non l’attaccamento al sé frutto di teorie sull’Io, ma stiamo tentando eliminare l’attaccamento all’Io fondamentale, spontaneo. È curioso notare come sia molto difficile studiare, apprendere delle cose positive, mentre non dobbiamo fare assolutamente niente per sviluppare questo attaccamento all’Io, che possediamo già come componente innata del nostro essere. Bisogna sforzarsi molto per ottenere la capacità meditativa, la concentrazione, la compassione, ma per avere questo attaccamento all’Io non dobbiamo fare proprio nulla. È un buon segno o no? È interessante: sia la compassione, la gentilezza amorevole, sia l’attaccamento all’io sono ambedue emozioni mentali; ma mentre l’attaccamento all’Io si manifesta spontaneamente, in ogni circostanza, la compassione, per quanto cercata, si manifesta poche volte. Inoltre tutto ciò che richiede sforzo per essere sviluppato, cioè le buone qualità, porta felicità.

Quando si parla di vacuità non è importante chiedersi se tutti i fenomeni sono vacui o no. La cosa importante è chiedersi se l’oggetto dell’attaccamento al sé, l’Io, è vacuo o no, se esiste realmente nella maniera in cui lo percepiamo, in cui ci appare spontaneamente. Questo attaccamento non fa altro che portarci problemi, quindi bisogna impegnarsi nel capire perché comporta così tanti problemi. Generalmente tentiamo di risolvere i problemi senza mai chiederci qual è la causa di questi problemi. Se non sappiamo cos’è che ci procura problemi e continuiamo a tentare di risolvere i problemi, non vi riusciremo mai, perché la causa dei problemi resta. La conoscenza, la comprensione della vacuità è così importante perché riguarda la radice della sofferenza, di tutti i problemi. Tutte le altre cose sono metodi per risolvere i problemi, ma se non eliminiamo la loro causa, continueranno ad esserci continuamente.

Il riconoscimento dell’Io, del sé è fondamentale nel mondo buddista.
Il primo passo da fare in questa ricerca circa la natura dell’Io è osservare l’Io così come ci appare spontaneamente per via della nostra innata tendenza.
È importante conoscere l’Io ed è importante non attaccarsi all’Io. Perché quando ci attacchiamo all’Io non ci attacchiamo all’Io vero, bensì a qualcos’altro. L’Io che compare agli occhi dell’attaccamento è completamente diverso dall’Io che appare agli occhi della saggezza. Riuscire a vedere il vero Io è la causa che sta alla base dell’eliminazione di tutti i problemi derivanti da una sua errata percezione. Attaccarsi all’Io impedisce di vedere il vero Io. Quando parliamo di vacuità dell’Io non parliamo di eliminazione dell’Io, parliamo del riconoscimento del vero Io, della sua realtà ultima, e solo nel momento in cui saremo in grado di riconoscere il vero Io inizieremo a provare dei veri benefici. Per questo motivo la vacuità dell’Io è la realtà ultima dell’Io. Vedere la vacuità dell’Io significa conoscere l’Io perfettamente, vedere come siamo veramente. Negli altri momenti noi pensiamo di fare qualcosa per noi stessi, ma in realtà non sappiamo neppure cosa siamo veramente ed è per questo che finiamo sempre per creare difficoltà, problemi, sofferenze; il punto è che in realtà si ignora il proprio vero io e ci si attacca a qualcosa di diverso dal proprio vero Io. Invece riconoscere il nostro vero sé ci permette di trovare i modi per portare aiuto e benefici a noi stessi. L’Io è l’oggetto della spontanea attitudine d’attaccarsi all’Io ed è un Io sbagliato. La vacuità dell’io, l’assenza di sé, dell’Io stesso è il vero Io. L’Io è vacuità, la vacuità è l’Io, l’Io non è altro che vacuità, la vacuità non è altro che l’Io: basandoci su questa riflessione inizieremo a vedere cos’è il vero Io. Prima di fare ciò, però, dobbiamo procedere in un altro tipo di meditazione che consiste nel cercare l’Io nei cinque aggregati: dobbiamo considerare i cinque aggregati costituenti di ciò che chiamiamo Io o sé come a loro volta privi di un’esistenza intrinseca, autonoma.

Quando parliamo di Io, quando usiamo la parola Io, non ci chiediamo mai di che cosa sia fatto questo Io, dove si trovi, in cosa consista. In realtà non è nulla di differente dai cinque aggregati che ci costituiscono. L’Io è composto, formato dai cinque aggregati. Ma se andiamo ad analizzare ciascuno di questi costituenti, non possiamo dire che uno di essi costituisca l’Io. Esaminando infatti ognuno di questi cinque aggregati, come ad esempio la forma, ci verrà da chiederci che cosa sia la forma stessa. Si pensa che la forma sia qualcosa di concreto, di esistente, ma quando cominciamo ad osservarla attentamente, ad analizzarla non la vediamo più nella stessa maniera in cui la percepivamo prima: la forma sparirà. Similmente anche le sensazioni, come “mi sento male, soffro, sono felice”, una volta analizzate, spariscono, non esistono più nel modo in cui le percepivamo. Non si tratta solo di sensazioni negative come la sofferenza; anche se analizziamo la felicità ci rendiamo conto di quanto questa sia in realtà diversa da come siamo soliti intenderla, diversa da come ci appare. Possiamo considerare in questo modo anche le discriminazioni (cioè la capacità di suddividere, di distinguere le persone e le cose) e ci accorgeremo di quanto sia distante la nostra abituale percezione di esse in confronto alla loro reale natura. Questo vale anche per il quarto dei cinque aggregati, vale a dire gli elementi di formazione, cioè gli altri fattori mentali oltre la discriminazione. Quando analizziamo questi elementi di formazione vediamo come la loro reale natura sia diversa dall’idea che ne abbiamo istintivamente, spontaneamente. Arriviamo dunque al quinto dei cinque costituenti, cioè la coscienza, anche detta mente principale. Solitamente nella storia degli uomini nella società, i filosofi, gli spirituali identificano l’Io con questa mente principale. Ma se osserviamo questa stessa mente principale non troviamo nulla. Quindi che senso c’è nel dire che questa mente, questa coscienza sia l’Io, se non vi è nulla di essa che riusciamo a fermare di essa, non vi è nulla di stabile in essa? Quindi se analizziamo uno per uno i cinque aggregati vedremo come tutti, uno per uno, scompariranno e di conseguenza anche l’Io, formato da tali aggregati, scomparirà. Ed è per questo motivo che si dice che l’Io è vacuo. Però l’Io è ancora esistente, quando procediamo con questa analisi l’Io non è scomparso. Quando stiamo analizzando, osservando l’Io, questo scomparirà, ma in realtà avremo trovato il vero Io. Proprio nel momento in cui l’Io scompare durante l’analisi, quando non troviamo più quell’Io che credevamo essere qualcosa di concreto, troviamo il vero Io.

L’Io non è altro che la vacuità. L’Io che non possiede esistenza inerente ed autonoma è il vero Io. Non c’è differenza quindi tra l’Io fondamentale ed ultimo e l’Io che vediamo scomparire durante l’analisi. L’Io non è altro che vacuità e la vacuità non è altro che l’Io. Il primo passo da compiere nell’analisi della realtà ultima del sé è osservare i cinque aggregati che costituiscono il sé; il secondo passo è il quadruplice ragionamento.




Lam Rim


Il Sutra del Cuore si caratterizza appunto per una proposta di analisi della vacuità attraverso una serie di diversi processi.
Brevemente, per osservare la vacuità dell’Io, si parte dall’analisi dei cinque aggregati costituenti il sé. In un secondo momento si analizza ogni singolo aggregato applicando i quattro ragionamenti nell’osservazione della vacuità di ciascun aggregato. Questo è un modo più dettagliato per osservare i cinque aggregati rispetto a quello più generico che si utilizzava nella fase precedente. Il quadruplice ragionamento consiste appunto nell’enunciato “La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità”, che oltre che alla forma, può essere applicato anche agli altri aggregati (“Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza”.)

Il Sutra del Cuore è un testo molto importante del Lam Rim, in quanto illustra gli stadi che caratterizzano il percorso che conduce all’Illuminazione basandosi sui cinque sentieri: il primo è quello dell’accumulazione, poi vi è quello della preparazione, della visione profonda, della meditazione, poi l’ultimo che non è propriamente un sentiero, ma è lo stato d’Illuminazione. Il Sutra del Cuore spiega, definendoli, questi cinque percorsi che conducono all’Illuminazione, sebbene ad un’osservazione diretta e superficiale sembra che parli sempre di vacuità e che si limiti a mostrare le varie fasi che occorrono per poterla realizzare e per poter percorrere i cinque sentieri. Quando si parla di analizzare l’Io tramite l’analisi dei cinque aggregati ci si riferisce al primo sentiero, che è quello dell’accumulazione. Il quadruplice ragionamento applicato ai cinque aggregati rappresenta invece un’analisi più approfondita e caratterizza il sentiero della preparazione.

Questo modo di intendere la lettura del testo si riferisce solo all’aspetto della Saggezza, ma esiste un altro aspetto, un altro sentiero, che è quello del Metodo, cioè la bodhicitta. Per bodhicitta intendiamo una forma di compassione molto avanzata che dovrebbe essere sviluppata attraverso l’ottenimento di varie realizzazioni.

Il percorso dell’accumulazione si divide in tre fasi: iniziale, intermedia e finale. Nella fase iniziale bisogna praticare le quattro contemplazioni vicine; nella fase intermedia bisogna raggiungere la realizzazione dei quattro abbandoni; nell’ultima fase bisogna sviluppare le quattro concentrazioni, dette anche le “quattro gambe miracolose”. Questo significa che nella prima fase si sviluppa una grande consapevolezza, nella seconda fase una grande perseveranza, nella terza una grande capacità di concentrazione. Quest’ultima consente di poter ricevere sempre insegnamenti di Dharma e di ricordare tutti gli insegnamenti di Dharma ascoltati in tutte le vite precedenti. Si ottiene anche la capacità di comunicare direttamente con gli esseri illuminati, e la capacità di parlare con le statue e con le immagini e con la loro vera natura, il tutto come risultato dei poteri miracolosi delle quattro concentrazioni. Da qui si passa al sentiero della preparazione che, dal punto di vista del Metodo, possiede quattro fasi: la prima è la saggezza del calore, perché la saggezza della vacuità ci fa sentire il calore dell’Illuminazione. Proprio questo ci fa capire che siamo passati dal sentiero dell’accumulazione a quello della preparazione. Durante il sentiero dell’accumulazione si realizza la vacuità senza averne avuto una diretta percezione e non si ha una visione della vacuità chiara come quella che si ha durante il sentiero della preparazione. Nel sentiero dell’accumulazione la realizzazione della vacuità è basata soprattutto su un livello intellettuale: si realizza la vacuità ma non attraverso l’esperienza, solo mediante il ragionamento. Nel primo momento si ha una conoscenza intellettuale della vacuità, poi si ha una realizzazione della vacuità basata l’esperienza, tramite l’unione di Samatha e Vipassana, cioè calma mentale e speciale visione interiore. Quindi non si ha ancora una percezione diretta della vacuità, ma una realizzazione basata sull’esperienza, quindi sulla meditazione che ci dà una comprensione anche emotiva di ciò che è la vacuità stessa. Questo è il punto che ci indica il fatto che abbiamo raggiunto il sentiero della preparazione. Questa è chiamata la saggezza del calore, si inizia a sentire il calore dell’Illuminazione.

Poi viene il picco. In questo caso si sviluppa una forza capace di contrastare le forze negative opposte. Si dice picco perché per raggiungere il picco della montagna bisogna impegnare molto sforzo, una volta raggiunto il picco non c’è più bisogno di sforzo e quindi si riesce senza sforzo a fare esperienza della vacuità.

La terza fase è la saggezza della perseveranza. In questa fase si raggiunge una tale saggezza della vacuità da far scaturire una grande pazienza. Questa è la linea di confine oltre la quale vi è lo stato in cui è impossibile ritornare indietro nei reami inferiori.

La quarta fase è la fase del Dharma supremo, cioè la realizzazione più alta a livello mondano.


Il sentiero della visione

Le cose si dividono in esistenti e non esistenti. Un esempio classico di cosa non esistente sono i peli di una tartaruga: le cose che sono inesistenti, che proprio non esistono, non possono neppure essere vacue. Quindi la vacuità non deve essere cercata in ciò che non esiste, ma deve essere trovata in ciò che esiste. Proprio perché quel fenomeno esiste, quel fenomeno ha una natura vacua. Proprio per via della sua natura vacua, quel fenomeno esiste. I peli della tartaruga non esistono e quindi non sono vacui. Esempi di cose che non esistono sono i fiori nel cielo, i già citati peli della tartaruga, il corno del coniglio, ecc… non si può meditare sulla vacuità dei peli della tartaruga.

Mentre si percorrono questi quattro sentieri volti alla realizzazione della vacuità occorre, parallelamente, realizzare i cinque poteri o cinque forze. Il primo di questi poteri è il potere della fede; poi il potere della perseveranza; il potere della consapevolezza; il potere della concentrazione; il potere della saggezza o realizzazione della realtà ultima. Il potere della fede significa potere della convinzione; la fede non è rivolta ai Buddha, ma alle quattro nobili verità ed alla legge di causa-effetto. Infatti nel sentiero dell’accumulazione, nella fase di sviluppo delle quattro contemplazioni, tale sviluppo si basa strettamente sulle quattro nobili verità. Le quattro contemplazioni aventi come oggetto le quattro nobili verità, danno una grande comprensione di esse. Nella pratica degli abbandoni, che segue la pratica delle contemplazioni, le prime due delle nobili verità vengono abbandonate e si cerca di raggiungere le ultime due nobili verità. La concentrazione è la grande forza che ci spinge nel percorso di abbandono e di ottenimento. Quando arriviamo al sentiero della preparazione otteniamo una ferma convinzione nelle quattro nobili verità e nella legge di causa-effetto. Come risultato di aver percorso il sentiero di accumulazione si otterrà il primo dei cinque poteri, cioè il potere della fede. Il secondo potere, quello della perseveranza ci dà la forza per portare avanti la pratica per raggiungere l’Illuminazione, affrontando qualsiasi difficoltà. Il terzo potere è il potere della consapevolezza che ci permette di vedere la forma esistente delle quattro nobili verità, ci dà una grande comprensione di esse, le cui caratteristiche sono sedici, quattro per ogni verità. Il potere della concentrazione è l’unione delle due pratiche meditative fondamentali, Shi Né e Lhak Thong, altrimenti note come Samatha e Vipassana. Il quinto potere, il potere della saggezza, è il potere di riuscire ad esaminare la natura vacua delle quattro nobili verità. Si dice che l’acquisizione di questi cinque poteri avvenga nel corso delle prime due fasi del sentiero della preparazione, cioè la saggezza come il calore e il picco.

Le cinque forze sono le stesse dei cinque poteri, ma si manifestano nella fase post-meditativa, nel periodo successivo alla meditazione. Nelle fasi successive alle prime due del percorso della preparazione questi poteri diventano forze, nel senso che non c’è possibilità che possano manifestarsi forze opposte neppure nella fase post-meditativa. I cinque poteri e le cinque forze sono il risultato di un’analisi approfondita della vacuità ottenuta tramite l’unione di Shi Nè e Lhak Thong. Parallelamente a queste pratiche vi è lo sviluppo di bodhicitta. Come menzionato precedentemente, la bodhicitta coltivata durante il percorso della preparazione viene definita come calore, fuoco.

Come tutti gli altri fenomeni, anche questi percorsi, dell’accumulazione e della preparazione, non sono indipendenti, non sono autonomi né dotati di un’esistenza inerente, ma esistono in quanto tutte queste caratteristiche vengono combinate e poste in essere.

Questo è tutto ciò che c’è da dire sul sentiero della preparazione. In questo sentiero la realizzazione della vacuità è il risultato della meditazione, si tratta di una realizzazione basata principalmente sull’esperienza fatta nel corso della meditazione, scaturita dall’unione di concentrazione su un singolo punto o calmo dimorare e l’analisi di speciale visione interiore. È appunto chiamato sentiero di preparazione perché ci prepara per il sentiero della visione.
Il percorso della visione profonda è caratterizzato dal fatto che in questo stadio si può percepire la vacuità in modo diretto.

Abbiamo visto che in un primo momento, nel sentiero dell’accumulazione, la realizzazione della vacuità è affidata maggiormente ad un’analisi, un’osservazione intellettuale; poi, nel sentiero della preparazione, la realizzazione della vacuità è basata principalmente sull’esperienza della meditazione, ma permangono ancora delle oscurazioni. Esse consistono nelle immagini che ci creiamo della vacuità stessa e costituiscono un ostacolo alla percezione diretta della vacuità. In questo sentiero, quando meditiamo sulla vacuità, andiamo a meditare su un’immagine che abbiamo di essa. È come se prendessimo molte informazioni su una data persona senza però averla mai vista, poi ne vedessimo la foto senza tuttavia vedere la persona direttamente. Anzi, ogni volta che penseremo a questa persona avremo in mente l’immagine che abbiamo visto in foto e questa è un’illusione: quella persona non è sempre così come è nella foto, che ne rappresenta solo un aspetto. Poi quando vedremo la persona direttamente, ne avremo un’idea molto più chiara e ci accorgeremo di quanto sia differente dall’immagine che ce ne eravamo fatti. Similmente la realizzazione della vacuità possiede un percorso simile: prima cerchiamo di conoscere la vacuità solo attraverso le informazioni che riusciamo ad averne; poi l’osserviamo in una foto tramite la meditazione e l’idea che abbiamo della vacuità diventa molto più chiara dell’idea che ne avevamo attraverso le sole informazioni; quando, infine, riusciamo a vedere direttamente la vacuità, allora è molto diversa.

In questo caso non stiamo parlando di qualcosa di diverso dal nostro sé, parliamo del nostro vero sé. Il problema è infatti che non conosciamo chiaramente il nostro sé. Non abbiamo neppure delle informazioni chiare su di esso, non abbiamo ancora visto le foto del sé, non l’abbiamo incontrato direttamente. Vaghiamo con un’idea del sé molto diversa da ciò che esso è veramente, questo è un problema di tutti noi esseri samsarici. Il sé non è diverso dall’assenza di sé: riconoscere l’assenza del sé significa conoscere veramente il sé.

L’interdipendenza non è qualcosa di semplice da percepire, dal momento che possiede due livelli, uno grossolano ed uno sottile. Il livello grossolano dovrebbe essere realizzato prima della realizzazione della vacuità, mentre l’interdipendenza a livello sottile viene realizzata solo dopo la realizzazione della vacuità, perché per via della vacuità un fenomeno è interdipendente ed esiste. L’esistenza convenzionale è determinata dalla conoscenza della vacuità: questa è la sottile esistenza convenzionale, che è la sottile natura interdipendente. Quindi la sottile esistenza convenzionale deriva dalla comprensione della vacuità e la comprensione del livello grossolano dell’interdipendenza dovrebbe essere la ragione per realizzare la vacuità.

Tutto viene dalla vacuità. Dalla realizzazione della vacuità derivano tutte le esistenze, funzioni convenzionali. Come un pesce nell’acqua: il pesce si muove ma l’acqua no. La vacuità è sempre qui presente, ma l’esistenza convenzionale si muove senza problemi. Non c’è contraddizione.





IV Parte

(9 Maggio 2004)



Dare un senso al tempo

Prima di tutto, dobbiamo ricordarci che dovremmo tentare di dare un senso al tempo che stiamo trascorrendo. Questo è il pricipale obbiettivo del nostro incontro. Il senso che conferiamo al tempo dipende dal modo in cui lo trascorriamo. È sempre bello passare del tempo con amici spirituali, perché il semplice stare loro conferisce senso al tempo, influenzandoci positivamente ed aiutandoci ad essere più contemplativi. Spesso si parla di consapevolezza, presenza mentale ed un altro modo per definirla è tempo contemplativo. Finché trascorriamo un tempo di tipo contemplativo, caratterizzato cioè da consapevolezza e presenza mentale, diamo significato a questo tempo. Ci sono molti modi per essere contemplativi, uno dei quali è dedicarsi al Sutra del Cuore, come ci accingiamo a fare adesso.

Per cominciare questo genere di incontri è utile lo sviluppo di una motivazione appropriata. La motivazione che dovremmo sviluppare per queste pratiche consiste in un atteggiamento diverso da quello abituale. Nella nostra vita di tutti i giorni tendiamo spontaneamente a porre l’Io prima degli altri: ogni cosa per me, e il mio, l’Io vengono sempre per primi. Anche quando non crediamo che l’Io sia più importante degli altri, vi è questa costante inclinazione naturale, spontanea a pensare che la cosa più importante sia l’Io. Tutto ciò deriva dall’abitudine di considerare l’Io sempre al primo posto. Questa nostra tendenza, questa spinta naturale a mettere il nostro Io davanti a tutto è la causa prima della nostra stanchezza, della nostra confusione; infatti questa tendenza non è qualcosa di vero, ma è qualcosa che contraddice la realtà: in verità l’Io non è più importante di tutto il resto degli esseri. Quindi noi abbiamo questa abitudine che va contro le leggi naturali causando emozioni conflittuali all’interno di noi stessi e ciò comporta stanchezza e prostrazioni non necessarie. Per trovare una soluzione a questi conflitti interiori esistono diversi metodi, il primo dei quali è l’atteggiamento altruistico. Poi viene il concetto di assenza di sé, perché noi non solo mettiamo il sé sempre al primo posto, ma abbiamo anche una concezione errata, una comprensione inesatta, un’idea sbagliata del Sé. Quindi abbiamo due modi per gestire l’Io, il sé: da un lato lo sviluppo della compassione, della gentilezza amorevole, dell’altruismo, dall’altro lato una corretta visione dell’Io. Per sviluppare la motivazione dobbiamo usare il primo metodo che è l’altruismo, poi dobbiamo usare il secondo metodo, cioè la retta visione del sé, esposta nel Sutra del Cuore. La nostra motivazione non consiste nell’ottenere dei poteri straordinari per noi stessi, ma nel dedicare noi stessi al bene degli altri. Dedicare noi stessi significa che l’Io si cura degli altri prima che di se stesso, si trova qui non perché è importante ma per poter recare un qualche beneficio agli altri esseri. Se facciamo anche la più piccola buona cosa con la motivazione di recare beneficio agli altri piuttosto che pensando solo a noi stessi questa avrà una grande forza. Questa dovrebbe essere la motivazione con cui vivere il nostro incontro: generalmente mi occupo del mio Io giorno e notte, e questo mi causa grande stanchezza e prostrazioni, ma oggi abbandono questa attitudine, sono libero da questo dominatore. Finora mi sono sempre preoccupato del mio Io: ogni cosa a me, ogni cosa per me, ma in realtà questo Io come lo immaginiamo non è vero, è qualcosa di diverso dalla realtà.

Non è facile mantenere un atteggiamento altruistico, richiede forza, sforzo entusiastico, perché solitamente noi ci atteniamo ad una attitudine totalmente diversa da quella che stiamo cerchiamo di sviluppare. Naturalmente soffriamo, essendo schiavi di questa abitudine mentale, l’attaccamento al sé, che non significa semplicemente prendersi cura di sé, ma significa porre il proprio sé al primo posto rispetto a tutti gli altri e percepirlo in maniera totalmente errata, molto diversa da come è realmente. Inoltre pensiamo che il nostro Io dovrebbe essere in un dato modo e se poi qualcosa cambia rispetto all’idea di come dovremmo essere, diveniamo molto agitati, molto depressi, pensando “adesso sto diventando meno importante, ecc…”. Solitamente tutto ciò non ci appare molto chiaramente, ma anzi ci risulta piuttosto nascosto; ma in certi momenti, come quando siamo molto felici o molto depressi, questa presenza dell’Io ci diviene manifesta. Tuttavia, se in questi momenti in cui l’Io appare più evidente cerchiamo di individuarlo, di afferrarlo, non troviamo nulla. Generalmente non stiamo ad analizzare dove sia questo Io, ma semplicemente sentiamo che siamo felici o che siamo depressi o che ci sta succedendo questo o quello e ciò comporta momenti di felicità o depressione… la semplicità è molto connessa al concetto di porre l’Io in una posizione di mezzo: non dovremmo porlo all’ultimo posto, ma non è neppure tanto importante da stare al primo. Dovremmo essere in grado di essere soddisfatti nello stare nel mezzo perché questo porta tranquillità e un modo di vivere rilassato. Anche questo è altruismo, non altruismo totale, ma comunque altruismo: porre l’Io in una posizione mediana comporta più serenità e pace. Solitamente abbiamo molti disturbi ed emozioni conflittuali all’interno di noi stessi perché ci preoccupiamo sempre di porre il nostro Io al primo posto e questo è impossibile ed è la causa di tutte queste emozioni conflittuali che causano dolori, sofferenze, insoddisfazioni.

Sviluppare un’attitudine altruistica significa capovolgere il nostro atteggiamento abituale e non è una pratica facile. Ma è molto meglio sforzarsi nell’acquisirla, perché ci porterà comunque ad essere più rilassati di quanto non lo siamo nella nostra posizione abituale, nel nostro cattivo atteggiamento usuale. Praticare significa capovolgere il nostro atteggiamento abituale, perché continuare a mantenere tale atteggiamento significa stare nel samsara, mentre assumere un’attitudine altruistica è come stare nella terra pura, nel paradiso o comunque vogliamo chiamarlo. A volte abbiamo problemi, confusioni, difficoltà, situazioni problematiche nella nostra mente e cosa facciamo allora? Continuiamo a mantenere il nostro atteggiamento usuale pensando: “Io soffro, i miei problemi, non ce la faccio, ecc…” : l’Io e il mio sono sempre presenti e quindi i problemi non saranno mai risolti; l’unica soluzione sono allora gli antidepressivi: un giorno se ne prende uno, il giorno dopo si raddoppia fino ad arrivare a prendere l’intera scatola… in quel momento, invece, bisogna riflettere e comprendere che l’origine di tutti questi conflitti è l’esagerato attaccamento all’Io e bisogna decidere semplicemente di capovolgere questo atteggiamento e sono sicuro che poi sarete molto rilassati. Invece di stare legati a questo Io bisogna liberarsi, affrancarsi da esso. L’altruismo non è qualcosa di teorico ma è qualcosa di pratico: semplicemente capovolgere il nostro atteggiamento abituale; all’inizio è difficile, ma provando lentamente diventa sempre più facile. Se abbiamo un dolore, anche se cambiamo atteggiamento il dolore resta, ma perlomeno ci sentiamo alleggeriti dal dolore stesso, più rilassati. Anzi possiamo trasformare il dolore in un mezzo per sviluppare qualche realizzazione o aumentare il nostro accumulo di meriti, insomma possiamo ottenere molti benefici da questo dolore. Assumere un atteggiamento altruistico non è un trucco per poter sfuggire dalla sofferenza, ma è un modo per avvicinarsi alla realtà delle cose. Avvicinarsi a questo stato di cose comporta automaticamente il sorgere di una felicità duratura. Questo è un modo molto pratico di presentare l’altruismo, che possiamo chiamare anche compassione, amore o come preferiamo.

La compassione, l’amore, la gentilezza amorevole, l’altruismo non costituiscono una soluzione completa ai nostri problemi. C’è un altro passo che deve essere fatto: quello della saggezza che ci permette di tagliare la radice di tutta la confusione. L’altruismo, pur dinanzi a situazioni di dolore, ci aiuta a non soffrire, anzi a trasformare queste situazioni in un mezzo per sviluppare delle realizzazioni. Quindi è evidente l’immenso beneficio che l’altruismo reca. Per non avere ulteriori problemi e confusione dobbiamo sviluppare la saggezza. Mentre l’altruismo è l’atteggiamento che ci spinge a prenderci cura degli altri più di noi stessi, la saggezza o visione speciale ci porta ad una realizzazione che va oltre il considerare gli altri più importanti di noi.

Per quanto riguarda la saggezza, anche se consideriamo gli altri più importanti di noi, questa si occupa dell’Io, di come questo esiste, di come esistono gli altri, di come esistono tutte le cose. Finché non abbiamo una chiara conoscenza di questa nozione, cioè di come esiste l’Io, gli altri e ogni cosa, non possiamo avvicinarci all’eliminazione della sofferenza, della confusione. Per questo abbiamo bisogno del Sutra del Cuore della Saggezza, perché questo sutra spiega qual è la verità ultima del sé, degli altri e delle cose. Si dice che per prima cosa bisogna analizzare cosa sia il sé, l’Io. Nella nostra società siamo abituati invece ad analizzare gli altri, le cose, analizziamo qualsiasi cosa, ma non analizziamo noi stessi. Invece la prima cosa da analizzare è il proprio l’Io, la realtà ultima del proprio sé, perché è l’oggetto più semplice da analizzare per comprendere la realtà ultima dei fenomeni. Il concetto di Io, di mio è relativo all’atteggiamento di attaccamento al sé. Questo atteggiamento di attaccamento al sé è volto ad afferrare il sé. Noi abbiamo questo atteggiamento, lo sentiamo, ne facciamo esperienza, permea tutte le nostre azioni, le nostre attività, i nostri movimenti; è sempre preposto a tutte le nostre azioni, i nostri pensieri lo seguono continuamente. Ma come e perché appare questo atteggiamento? Per questo si dice che per prima cosa uno debba riconoscere, identificare questo sé, che è l’oggetto dell’attaccamento al sé. Noi ci attacchiamo sempre al sé, ma prima dovremmo identificare questo sé chiaramente, e finché non lo avremo identificato non ce ne libereremo mai, come se non vedessimo il bersaglio cui dobbiamo sparare. Dunque bisogna comprendere come appare, che caratteristiche ha questo sé che l’attaccamento al sé ci procura. Il motivo per cui abbiamo tutti i problemi è che ci prendiamo cura di un’Io illusorio, lasciando senza cura il vero Io.

Bisogna identificare l’oggetto della negazione, noi dobbiamo negare l’Io che è percepito dall’attaccamento all’Io. Poi dobbiamo trovare l’Io convenzionale, che è una semplice designazione. È molto difficile mantenere una via di mezzo, negando il concetto di Io che viene percepito dall’attaccamento al sé e mantenere un Io convenzionale, funzionale. Il primo Io, quello oggetto dell’atteggiamento di attaccamento al sé, non esiste, quindi stiamo negando qualcosa che non esiste, poiché non potremmo negare ciò che esiste. Da un lato dobbiamo negare questo Io (oggetto dell’attaccamento al sé), dall’altro dobbiamo accettare l’Io convenzionale. Quindi il punto importante è identificare l’oggetto della negazione, non analizzare gli altri, ma analizzare il sé. L’oggetto della negazione, come si è detto, è il sé concepito dall’attaccamento al sé. Come l’attaccamento all’Io percepisce questo Io? Che immagine dell’Io ha? Questo è importante. Dato che questo Io non esiste, non è rintracciabile, dobbiamo capire che immagine ne ha questo attaccamento al sé. Una caratteristica che possiede questa immagine dell’Io è quella di essere indipendente, l’Io sembra essere indipendente dalla testa, dalle braccia, dalle gambe, dal corpo, dalla mente, dalle sensazioni, dalle percezioni. Abbiamo naturalmente l’idea che il nostro Io sia separato dalla testa o da qualsiasi altro elemento. Infatti si dice “la mia testa, la mia mano, il mio libro, la mia mente”, il che significa che la testa, la mano, il libro, la mente sono qualcosa di diverso, di altro, di esterno rispetto all’Io che le possiede. Quindi questo Io appare completamente indipendente dai cinque aggregati. Ma se è indipendente dai cinque aggregati, allora dov’è? Stiamo cercando di individuare l’oggetto della negazione ad un livello intellettuale. Tuttavia non esiste un Io completamente indipendente dai cinque aggregati, completamente estraneo ad essi. Ed ecco come si comprende chiaramente che un Io così come appare all’attaccamento al sé non esiste, in quanto non può sussistere un Io svincolato dai cinque aggregati. Ma noi costantemente e fermamente facciamo tutto per questo Io, che in realtà non esiste! Quindi se c’è un Io deve trovarsi all’interno dei cinque aggregati, non è possibile che si trovi fuori di essi . Ma nel momento in cui andiamo ad analizzare i cinque aggregati, uno per uno, non riusciamo ugualmente a trovarlo. Un esempio classico è il settuplice ragionamento sul carro. Due punti in particolare sono più importanti: il carro non è altro rispetto ai suoi componenti, il carro non è la stessa cosa dei suoi componenti. Se il carro fosse la stessa cosa dei suoi componenti ci sarebbero molti carri, tanti quanti sono i componenti. Ma allo stesso tempo il carro non è altro rispetto ai suoi componenti, perché non possiamo individuarlo all’infuori di essi. Similmente l’Io non è altro rispetto ai suoi aggregati, ma non è neppure la stessa cosa dei suoi aggregati.

Nel Sutra è scritto: “Dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”. Abbiamo analizzato il sé e non solo il sé è vacuo, ma anche i cinque aggregati sono vacui. Poi segue l’analisi dei cinque aggregati, uno per uno, a partire dalla forma. La forma è vacua, priva di un’esistenza intrinseca. La vacuità della forma non è differente dalla forma stessa, il che significa che la vacuità va trovata nella forma stessa. “La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità”. L’esistenza convenzionale della forma non significa che la forma esiste in modo indipendente. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Poi il Sutra prosegue: Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono vacuità - I fenomeni sono vacui nella loro nozione, sono senza caratteristiche che li definiscano, non nascono e non muoiono - essi sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e non sono completi”.

Fino a questo punto sono stati affrontati tre livelli di analisi della vacuità, il che corrisponde a percorrere il primo dei cinque sentieri, quello dell’accumulazione. Segue la quadruplice analisi della vacuità, che è maggiormente approfondita e corrisponde al secondo dei sentieri, quello della preparazione. Poi vi è l’ottuplice analisi della vacuità corrispondente al terzo dei sentieri, il sentiero della visione. Quest’ottuplice analisi è a sua volta suddivisibile in tre categorie di analisi della vacuità, la prima della quali è l’analisi della vacuità come nozione, la seconda è l’analisi della vacuità dei segni, cioè anche le cause sono vacue, la terza è la vacuità dell’aspettativa, l’assenza di desideri, non ci deve essere desiderio dei risultati, in quanto anche questi sono vacui. Quindi secondo la prima categoria ogni fenomeno è vacuo nella sua stessa nozione, per la seconda categoria è vacuo anche relativamente alla cause, secondo la terza anche i risultati del fenomeno sono vacui. Queste tre categorie della vacuità vengono anche dette le tre porte che conducono alla liberazione, il che significa che la prima categoria già include le altre due: dal momento che essa afferma che tutti i fenomeni sono vacui, dunque saranno vacui anche i risultati e le cause. Vengono chiamate le tre porte che conducono alla liberazione perché l’attraversamento di queste porte conduce alla verità ultima e quindi alla liberazione.

La spiegazione dettagliata di ognuna di queste otto vacuità come anche la spiegazione delle cinque vacuità si trova nel libro di Nagarjuna, “Versi sulla saggezza fondamentale”.


Il sentiero della meditazione

Nel Sutra del Cuore si dice:
“Quindi, Shariputra, nella vacuità non c’è forma, né sensazione, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino ad includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento”.

Dal punto di vista della filosofia buddista, qui è descritto il modo in cui vengono suddivisi in categorie i fenomeni: i diciotto elementi sono i sei sensi, le sei coscienze dei sensi e i sei oggetti dei sensi. Poi si parla delle quattro Nobili Verità e dei dodici anelli dell’origine interdipendente, si parla tratta dunque del samsara. In questa parte ci troviamo nel sentiero della meditazione, il quarto dei sentieri. I due sentieri, quello della visione e quello della meditazione vengono divisi in dieci livelli o bumi. L’inizio del primo livello appartiene al sentiero della visione, cui appartengono anche le sedici vedute. Durante il sentiero della meditazione si dovrebbe osservare e meditare, concentrandosi su un solo punto, la vacuità di queste categorie. Queste categorie mostrano l’abilità, la capacità che si ha nel sentiero della meditazione. Infatti, come si può vedere, il sentiero della meditazione possiede la realizzazione della vacuità, così come il sentiero della visione, allo stesso modo anche il sentiero della preparazione e il sentiero dell’accumulazione posseggono la realizzazione della vacuità, ma ogni sentiero ad un livello diverso che dipende dall’abilità, dal grado di esperienza nella realizzazione della vacuità.

Prima, l’affermazione che tutti i fenomeni sono vacui offre una visione panoramica della vacuità: si tratta sempre della stessa vacuità ma in modi diversi. Poi, la realizzazione della vacuità diventa più dettagliata, perché si ha più familiarità con la vacuità e si è più esperti. È come la luna crescente che illumina sempre lo stesso mondo e le stesse cose, ma l’aumentare dell’intensità del suo chiarore rende più evidenti gli elementi del modo che illumina.

Il libro di Nagarjuna è composto da ventisei capitoli, ognuno dei quali esamina la vacuità di una diversa categoria di fenomeni. Ad esempio, il capitolo XXIV analizza la vacuità delle quattro nobili verità, il capitolo XXVI analizza la vacuità dei dodici anelli dell’origine interdipendente, il capitolo XVIII analizza la vacuità dell’Io, il capitolo XIV la vacuità delle correlazione, il capitolo III la vacuità dei sensi, il capitolo IV la vacuità degli aggregati, il V la vacuità dei diciotto elementi. L’analisi approfondita della vacuità, prendendo in considerazione le diverse categorie dei fenomeni, è rintracciabile quindi nei “Versi sulla saggezza fondamentale” di Nagarjuna.

Per quanto riguarda i dieci livelli di cui si stava parlando, dalla parte centrale del primo livello fino al decimo livello, tutto questo appartiene al sentiero della meditazione. I dieci livelli sono descritti molto dettagliatamente nel Madhyamakavatara di Chandrakirti.

Continuando con il Sutra: “Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza”. I Bodhisattva non hanno nulla da ottenere e nulla da raggiungere, pertanto permangono nella meditazione sulla natura della perfezione della saggezza. Si dice che in questo passo venga indicata la meditazione sui dieci livelli, che conducono direttamente allo stato d’Illuminazione. Questa è la meditazione come vajra, è lo stato dell’osservazione singola concentrata sulla vacuità, simile allo stato d’Illuminazione: si è dunque liberi da tutti i pensieri concettuali.



Stato di Buddha

Quando si dice: “Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana.”, si fa riferimento al quinto sentiero, il sentiero della cessazione dell’apprendimento, che coincide con lo stato di Buddha. Abbiamo pertanto cinque sentieri: il sentiero dell’accumulazione, il sentiero della preparazione, il sentiero della visione, il sentiero della meditazione e il sentiero della cessazione dell’apprendimento. Le caratteristiche di questi sentieri vengono descritti nel Prajnaparamita-sutra.

Vi è un famoso testo di Maitreya chiamato Abhisamayalamkara, “L’ornamento della chiara realizzazione” che si focalizza sulla descrizione dei cinque sentieri. I dieci livelli sono descritti in modo approfondito nel testo di Chandrakirti, Madhyamakavatara, “Introduzione alla via di mezzo”. L’esame della vacuità, della natura ultima di ogni categoria dei fenomeni si trova nei Mulamdhyamakakarika, “Versi sulla saggezza fondamentale” di Nagarjuna.

Fino a questo punto del Sutra del Cuore, si dice che la spiegazione della vacuità è fatta per coloro che posseggono un livello di intelligenza inferiore, coloro che hanno meno facoltà intellettive. Dal punto in cui si dice: “Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insorpassabile, perfetta illuminazione basandosi su questa profonda perfezione della saggezza.” il testo si rivolge a coloro che hanno un’intelligenza maggiore: “Quindi, si dovrebbe sapere che il mantra della perfezione della saggezza - il mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a ciò che non ha uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze - è vero perché non è ingannevole. Si proclama il mantra delle perfezione della saggezza:
TADYATHA GATÉ GATÉ PARAGATÉ PARASAMGATÉ BODHI SVAHA
Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda perfezione della saggezza”.

Qui si dice “tadyata”, ma in realtà quando si recita il mantra “tadyata” viene sostituito da “om”, in quanto “tadyata” indica l’insegnamento e viene utilizzato quando ci si rivolge ad altri. “Gate” indica il primo sentiero, il secondo “gate” indica il secondo sentiero, “paragate” indica il terzo sentiero, “parasamgate” indica il quarto sentiero, “bodhi” il quinto sentiero. “Svaha” è un modo per stabilizzare il mantra, ossia attraverso la pratica dei cinque sentieri si riesce a stabilizzare fermamente nel proprio flusso mentale lo stato d’Illuminazione. Questo è il significato del mantra. Letteralmente, “gate” significa andare, “paragate” significa andare oltre, “parasamgate” significa andare completamente oltre, “bodhi” è lo stato di Illuminazione.
Giungiamo ora alla conclusione del Sutra:

Quindi, il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente.
Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata se ne rallegreranno”.

Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli umani, degli asura e dei gandharava, tutti gioirono e lodarono ciò che il Bhagavan aveva detto.”

Questo sutra maha-yana sull’essenza della perfezione della saggezza, è stato tradotto dal maestro indiano Vimala Mitra insieme al traduttore tibetano bikshu Rin Chen De. E’ stato poi ricontrollato e standardizzato dai maestri traduttori ed editori Ge Lo e Nam Kha, tra gli altri.

Possiamo concludere qui la difficile spiegazione sul Sutra del Cuore. È un Sutra incredibilmente ricco, anche se è breve da recitare. Adesso alcuni punti importanti saranno più chiari.

Nel Buddismo tibetano il Sutra del Cuore è considerato un testo da recitare quotidianamente. Non si tratta solo di recitarlo, ma anche di meditarvi sopra. Si dice anche che abbia un grande potere nell’eliminare gli ostacoli.

Ma il punto non è recitare il Sutra, ma meditare sulla vacuità. Spesso il Sutra è manipolato, interpretato ad un livello superficiale e la gente pensa che il testo non funzioni, ma questo non è vero, il Sutra funziona veramente così come è descritto e il mantra possiede molto potere, ma se uno davvero lo vuole praticare rettamente, in modo appropriato, deve meditare sul contenuto, su cos’è la vacuità ed allora la forza sprigionata dal Sutra ha molti poteri e può fronteggiare qualsiasi ostacolo!






V Parte

Meditazione sul “Sutra del Cuore”


Oggi meditiamo sul “Sutra del Cuore”, come?
Il contenuto del Sutra del Cuore è l’espressione della visione profonda di Avalokitesvara. Praticando questa meditazione dunque dobbiamo rappresentarci nell’immagine di Avalokitesvara e, grazie all’ispirazione, la forza, di questa profonda visione meditativa, esprimeremo le nostre realizzazioni.
E’ un Sutra completo nel quale meditiamo e nel contempo stiamo dando l’insegnamento in esso contenuto. Dunque lo studio del testo non è semplice lettura di versi, ma è l’espressione della nostra profonda realizzazione interiore.
Sebbene la realizzazione della vacuità o l’interdipendenza dei fenomeni non sia ancora chiara, attraverso la visualizzazione di Avalokitesvara iniziamo a piantarne il seme affinché essa possa verificarsi in noi. E’ anche un modo per ricevere una benedizione, è una meditazione che porta in sé moltissimi benefici.

Recitiamo il testo e cerchiamo di meditare in questo modo.

Il centro, la sintesi del Sutra del Cuore, consiste nei cinque sentieri:
    Il sentiero dell’accumulazione;
    Il sentiero della preparazione;
    Il sentiero della visione;
    Il sentiero della familiarizzazione;
    Il quinto, che è il frutto dei sentieri precedenti, è lo stato di colui che non deve più apprendere, cioè lo stato dell’illuminazione.
La sintesi del percorso è espressa dal mantra.
“TADYATHA” indica il modo per meditare sulla vacuità, la realtà ultima, altrimenti detta mancanza di esistenza intrinseca, o “non sé”.
Il primo GATE significa andare, andare nel sentiero dell’accumulazione, laddove si impara e si riflette sul significato della vacuità. Naturalmente anche in esso è implicita la meditazione, ma soprattutto vengono messe in risalto le due caratteristiche dell’apprendere e del riflettere sulla vacuità. E’ il momento in cui si raccolgono le informazioni sulla realtà ultima o vacuità.
Il secondo GATE è riferito al passaggio che avviene quando si posseggono tutte le informazioni relative alla vacuità e alla mancanza di esistenza inerente del sé e dei fenomeni e si comincia a formarne l’immagine, ciò corrisponde al sentiero della preparazione. Avere un’immagine abbastanza chiara di cosa sia la vacuità, la realtà ultima del sé e dei fenomeni, ci permette, incontrandola, di poterla riconoscere.
PARAGATE indica il momento in cui si incontra la realtà ultima, si va nel sentiero della visione, ed è il primo momento in cui si trova, davanti a sé, quella realtà.
Naturalmente venirne a contatto una sola volta non basta bisogna conoscerla meglio e familiarizzarsi con essa, si entra così nel sentiero della familiarizzazione, PARASAMGATE.
Permanendo nella familiarizzazione ci si fonde con quella realtà e ci si trova nel sentiero di buddhità, di chi non ha più nulla da apprendere in quanto egli stesso è diventato quell’essenza, BODHI.
Riassumendo: il primo GATE è andare nel sentiero dell’accumulazione; il secondo GATE è andare nel sentiero della preparazione; PARAGATE è andare oltre, entrare nel sentiero della visione; PARASAMGATE, è andare ancora più in là, entrare nel sentiero della familiarizzazione; BODHI indica la perfezione della familiarizzazione quindi l’approdo allo stato dell’illuminazione.
Questa è la descrizione fondamentale per la meditazione sulla vacuità che agisce in correlazione con i cinque sentieri ed è particolarmente riferita al Bodhisattva, colui che ha già realizzato la bodhicitta ed è entrato nel sentiero mahayana, il sentiero del Bodhisattva appunto.
Colui che ha sviluppato la bodhicitta acquisisce gradualmente la familiarità con la vacuità. Esistono casi di persone che prima realizzano la vacuità e poi la bodhicitta. Ci sono anche coloro che, nella condizione di ascoltatori, realizzano la vacuità e intraprendono il sentiero mahayana sviluppando la bodhicitta. E’ un soggetto bellissimo di cui parlare, non c’è niente altro da fare che meditare ed è magnifico!
Noi ora ci riferiamo ad un individuo che, avendo ottenuto la bodhicitta, sta operando al fine di realizzare la vacuità.
Che cos’è la bodhicitta? E’ l’attitudine mentale che pone come prioritario l’interesse verso gli altri.
La bodhicitta è la combinazione di due differenti aspirazioni:
  1. essere di aiuto a tutti gli esseri senzienti;
  2. ottenere l’illuminazione per poter essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti.
La combinazione di queste due aspirazioni permette la realizzazione della bodhicitta. Quindi, l’aspirazione ad aiutare tutti gli esseri senzienti è la causa; mentre quella di ottenere l’illuminazione per essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti è il risultato.
Lo stato mentale di bodhicitta è il risultato naturale per aver sviluppato la gentilezza amorevole, la grande compassione.
Nel momento in cui si realizza la grande compassione, automaticamente, si realizza la bodhicitta.
La causa diretta della grande compassione è la pura intenzione, (in tibetano Lak Sam), che consiste nella decisione personale di volersi assumere la responsabilità di aiutare tutti gli esseri senzienti. Questo puro atteggiamento consiste nel fare da sé le cose, senza aspettare l’intervento altrui. Anche se si è circondati da molte persone non si pretende la loro partecipazione o sostituzione nell’azione, la responsabilità è totalmente nostra e dobbiamo agire con cuore limpido. Questa è la pura intenzione, particolare per la sua spontaneità, senza calcolo.

E’ un’intenzione magnifica perché avulsa da qualsiasi discussione, corrisponde all’offerta spontanea che non vuole nulla in cambio, che non attende l’intervento di nessuno. E’ esattamente l’opposto della mentalità corrente in cui si tende ad evitare, se possibile, ogni responsabilità, a scaricare sugli altri le incombenze più gravose dandosi giustificazioni pseudo-etiche: “perché lo devo fare proprio io? non mi compete, non è giusto…” Questa è esattamente l’assenza di Lak Sam, la pura attitudine.
Lak Sam è un fenomeno stupendo che deriva dalla grande compassione, ovvero, la bodhicitta sorge dal Lak Sam, dalla pura intenzione che è il frutto naturale della grande compassione.

La grande compassione sottintende la compassione rivolta a tutti gli esseri senzienti, senza nessuna eccezione. Significa prendersi cura degli altri indiscriminatamente ed è il risultato della gentilezza amorevole.

La gentilezza amorevole corrisponde all’atteggiamento che si ha con le persone più care desiderando per loro ogni bene e felicità. La compassione agisce nel desiderio che tutti gli esseri siano separati, allontanati, dalla sofferenza, aspira alla sua eliminazione.
La gentilezza amorevole nasce dall’equanimità, non nel senso di voler rendere tutti gli altri uguali, ma nel considerare gli altri, e se stessi, esattamente uguali. Il nostro desiderio di stare bene, di essere felici, corrisponde perfettamente al desiderio degli altri esseri, ciò che è buono per noi lo è altrettanto per loro. In quest’attitudine mentale possiamo sentire profondamente la sofferenza degli altri, conoscerla, condividerla, perché è la stessa nostra sofferenza.

Equanimità, gentilezza amorevole, grande compassione, pura intenzione speciale e bodhicitta, rappresentano passi distinti che devono essere seguiti, uno dopo l’altro.
Sarebbe magnifico se, tra colleghi, si avesse tutti questa pura intenzione speciale, volendosi assumere il carico e la responsabilità del lavoro e non, come invece accade, tentare di scaricarlo, se appena possibile, sugli altri.
Un atteggiamento privo di volontà entusiastica nell’agire, di pura intenzione, rende tutto difficile, faticoso, interminabile e pesante. Se agissimo con Lak Sam, con la pura intenzione speciale, allora il tempo passerebbe velocemente e felicemente il lavoro sarebbe leggero e saremmo molto amati, esenti dal problema del mobbing.
La via per realizzare il Lak Sam è in ogni caso lunga, anche se non si tratta della “GRANDE compassione”, ma di una “grande compassione” attuabile in questa società. Prima dobbiamo sviluppare la gentilezza amorevole e, prima ancora, l’equanimità. Anche se non riusciremo a sviluppare la bodhicitta la nostra vita quotidiana ne sarebbe in ogni modo notevolmente migliorata, più facile.

La pratica del Dharma, o se preferite l’attuazione di questa filosofia, non è finalizzata all’esibizione di un titolo di “realizzatore di bodhicitta”, ma essenzialmente a rendere il nostro quotidiano, la nostra vita, più semplice.
Anticamente, anche in Italia, si potevano ottenere onori, potere e ricchezze nella carriera ecclesiastica, ma nulla potrebbe essere più negativo per il Dharma, una simile attitudine è l’esatto opposto della spiritualità autentica.

Il Dharma è pratico, riguarda la nostra vita di tutti i giorni, non è l’affermazione di carriere e titoli accademici, evidenzia esclusivamente l’uguaglianza degli esseri umani.
Ieri ero a Udine, proveniente da Vicenza, e un amico mi ha chiesto se a Vicenza c’erano molti buddhisti; io gli ho risposto: “Dimentica i buddhisti e lavora per l’umanità”.
Il Dharma è per l’umanità, i preconcetti per cui i monaci buddhisti dovrebbero rivolgere attenzione ai buddhisti, e i preti cristiani ai cristiani, alimentano stupide divisioni, ignoranza e ristrettezza mentale che produce enormi problemi. Ogni essere umano deve operare per l’umanità.

Non mi ero mai soffermato particolarmente su tale atteggiamento mentale ma, quando questo amico mi ha posto la domanda, ho risposto istintivamente, d’impulso, soffermandomi poi a riflettere: “perché dovrei andare a cercare i buddhisti? Il Dharma è per tutta l’umanità e riguarda l’umanità”.

Praticare l’equanimità, la gentilezza amorevole, la grande compassione, il Lak Sam - la pura intenzione speciale e la bodhicitta, è fondamentale, e, la pura intenzione speciale è il nesso tra la grande compassione e la bodhicitta.

La pura intenzione speciale è offrirsi volontariamente, entusiasticamente, per fare le cose, senza porsi altre domande. (Non è ovviamente simile all’offerta dei politici che sono sempre disponibilissimi per il posto di primo ministro ad esempio!....)
Il Lak Sam si può facilmente riconoscere perché gioca un ruolo assolutamente speciale nella società, permette di facilitare e semplificare ogni realtà.

Aiutare gli altri corrisponde alla pura attitudine che si ha conformemente alla propria capacità. Devono connettersi in ugual misura la forza interiore e la pura motivazione.
Ad esempio, quando si dona del denaro a qualcuno è necessario trattenere quanto serve per sé, se si desse via tutto non resterebbe nulla per la propria sopravvivenza, bisogna dunque trovare il giusto equilibrio. Lo stesso criterio deve essere applicato all’aspetto interiore, si deve aver cura e far crescere le risorse spirituali, perché se non si è in grado di aiutare se stessi non si è nemmeno in grado di aiutare gli altri.

Domanda: Quindi per prima cosa dobbiamo essere compassionevoli con noi stessi?
Risposta: Naturalmente, un essere non illuminato deve prima di tutto essere compassionevole con se stesso, solo così potrà esserlo realmente anche con gli altri.
Domanda: Tu parli di aiuto puro è perfetto; ma nella condizione imperfetta in cui si aiutano gli altri per ottenere meriti, non è come se si prestasse denaro per averne di più? Questa non mi sembra una pura intenzione. L’aiuto agli altri, a livello ordinario, non avviene mai nella pura intenzione, c’è sempre un certo calcolo circa i benefici che se ne ricavano. E’ difficile avere davvero un’intenzione pura.
Risposta: Bisogna provvedere innanzitutto a se stessi, nel momento in cui si ha il sufficiente per la propria vita, tutto quello che resta in sovrappiù lo si deve dare. Trattenere più di quanto si ha bisogno è attaccamento; ma trattenere solo il necessario significa avere un atteggiamento compassionevole nei confronti di se stessi.
Domanda: Può succedere che, per amore verso qualcuno, non si comprendano più i propri limiti, quanto è bene dare e quanto no, con il rischio di cadere nella non compassione per se stessi e ci si trova quindi a soffrire molto, come uscirne?
Risposta: Questa è una sofferenza sbagliata, non necessaria, evitabile. La vita non è facile, ma offre sempre le soluzioni ai problemi e la possibilità di rimanere nell’equilibrio interiore. Non bisogna aspettarsi che le soluzioni nascano da un programmino già pronto, preparato da altri, ma ci si deve impegnare in prima persona, procedere per tentativi, guidati e sostenuti dalla consapevolezza di essere in grado di mantenere l’equilibrio e di risolvere i problemi.
Domanda: Hai detto che quella sofferenza non è necessaria, allora esiste una sofferenza necessaria? E qual è?
Risposta: La sofferenza necessaria è la sofferenza del samsara. Se non ci fosse la sofferenza del samsara non ci sarebbe possibilità di sviluppare la compassione.
Di fronte alle sofferenze non necessarie, invece, non è bene assumere un atteggiamento compassionevole nei confronti di se stessi, anzi bisogna trovare il modo di eliminarle con determinazione e volontà. Se invece vediamo soffrire un’altra persone a causa di una sofferenza non necessaria, dobbiamo aiutarla, per quanto possiamo, e sviluppare compassione nei suoi confronti.

Il senso letterale del “Sutra del Cuore” si articola in un duplice significato: il primo, diretto, ha come oggetto la vacuità, e il secondo, indiretto, si riferisce al Lam Rim, cioè al percorso graduale dei cinque sentieri. E’ essenziale non perdere mai di vista questi due aspetti che ne costituiscono la caratteristica davvero speciale.
Leggendo le parole sulla vacuità è sempre bene riportare alla mente i cinque sentieri: dell’accumulazione, della preparazione, della visione, della familiarizzazione, e di colui che non deve più apprendere.
Il significato del “Sutra del Cuore” è talmente ampio e completo che è quasi impossibile spiegarlo dettagliatamente in un tempo limitato, vi consiglio quindi di ampliarne la conoscenza tramite la lettura dei numerosi commenti, comparandoli tra loro e cogliendo in ognuno l’aspetto particolarmente approfondito.
Io stesso, a Torino, in un seminario sul “Sutra del Cuore” ho affrontato l’argomento in modo diverso rispetto all’insegnamento che ho dato qui in Roma, ed entrambi verranno trascritti, sarà così interessante confrontare i due testi. Anche in futuro darò ulteriori insegnamenti sul “Sutra del Cuore” e, in queste analisi comparate, sarà possibile penetrare sempre più a fondo nella sua comprensione, che non è semplice proprio a causa del suo duplice aspetto.
Il primo livello, quello diretto più apparente, offre modi differenti per potersi accostare alla vacuità, tutte le cose sono vacue, mancanti di esistenza intrinseca. Dunque anche che anche i cinque aggregati sono vuoti, e, procedendo nell’analisi, i diciotto elementi sono vuoti, i dodici anelli dell’origine interdipendente sono vuoti, e sono vuote anche le quattro nobili verità. Questi sono modi differenti di accostarsi alla vacuità che ha diverse classificazioni.
Il livello più apparente e diretto, appena descritto nella sua modalità di approccio alla vacuità, mostra tutta la sua complessità e, indirettamente indica gli stadi che conducono all’illuminazione, ovvero i cinque sentieri.
In un approccio diretto al “Sutra del Cuore” questo aspetto può non essere immediatamente colto, però lo si può comprendere da come sono espressi i modi di accostarsi alla vacuità. E’ evidente quanto sia complesso, e al contempo completo, il “Sutra del Cuore” e ad ogni lettura e riflessione lo possiamo capire un po’ di più.
Per il seminario di Torino avevo preparato una relazione veramente complicata che intendeva porre a confronto il “Sutra del Cuore” con un’opera di Nagarjuna sulla saggezza essenziale, ma, quando ho iniziato a parlare, mi sono reso conto della difficoltà di tale impresa, mia nell’esprimere concetti complessi nel modo più accessibile, e, degli uditori che dovevano avere la capacità di seguire e cogliere tale insegnamento. Al fine di poter trarre il massimo beneficio occorreva la collaborazione di entrambe le parti, ho così realizzato la realtà della natura interdipendente.
Per ottenere un buon risultato è necessaria l’unione di più concause, non dipende soltanto dal maestro, o dagli uditori, o dal luogo, ma dalla collaborazione e cooperazione di tutti questi fattori, ecco perché è fondamentale realizzare la natura interdipendente della realtà.
La vacuità è grandemente importante perché è la verità definitiva, ultima, di tutta la realtà esistente, ma, proprio per questo, nei testi tradizionali buddhisti si consiglia di trattarne l’argomento con estrema cautela e prudenza, perché una cattiva comprensione della vacuità potrebbe indurre a cadere in un estremo e quindi negli inferi.
Qui però siamo pienamente esentati dal rispettare tali avvertenze, non esiste alcun pericolo per noi di cadere nelle visioni estremiste o di avere una realizzazione immediata della vacuità, in quanto, anche se pare una situazione paradossale, occorre essere già ad un buon livello di accumulazione di meriti e di saggezza per essere veramente in pericolo di inganno.
Non siamo a quel livello e dunque ci possiamo considerare liberi dalle avvertenze e parlare di vacuità senza nessun problema; non ci sono rischi, né per il Lama che insegna, né per i discepoli che ascoltano.
Ci troviamo nella magnifica posizione di poter trattare questo argomento in assoluta tranquillità, quando avremo raggiunto un alto livello di comprensione della vacuità allora si, dovremo stare molto attenti ed osservare le avvertenze dei saggi.
E’ bellissimo parlare della vacuità, anche se non la si comprende, perché si comincia ad entrare nell’argomento e la volta successiva si coglierà un aspetto in più e così via, sempre più in là, fino a che non se ne avrà una grande comprensione, (con i rischi relativi).
Tutto ciò che riguarda la nostra vita, tutto ciò che consideriamo molto prezioso, parte da zero e ritorna a zero.
Non dobbiamo pensare di poter vedere subito la vacuità, ci arriveremo attraverso la deduzione, il ragionamento. Nel ripercorrere la propria vita, il passato, il presente e quella che sarà una possibile conclusione, si osserva l’evoluzione naturale di ogni realtà, lo si sperimenta anche nei sentimenti, nelle emozioni, in tutto ciò che ci attraversa.
Il nostro prezioso corpo, articolato e complesso, deriva da qualcosa di infinitamente piccolo, il concepimento. E’ una situazione davvero singolare, quasi buffa, che merita una riflessione, perché, questo prezioso corpo, come ha avuto inizio così finisce, dunque, i cinque aggregati sono vuoti.
La vacuità non significa essere nulla, ma indica che tutto inizia con la vacuità e finisce nella vacuità. E’ molto semplice, dalla grande vacuità tutto viene ed alla grande vacuità tutto torna e, tra questi due momenti, la confusione presente è assolutamente inutile, per questo realizzare la vacuità è essenziale. Il “Sutra del Cuore” racconta questa realtà.
La verità ultima, definitiva è qualcosa di differente dal modo convenzionale con cui ci accostiamo alle cose. E’ possibile realizzare la vacuità soltanto quando esiste la presenza mentale e la visione acuta e lucida di ogni realtà. Senza la presenza mentale e la capacità di guardare le cose nella loro essenza è come se fossimo ciechi, incapaci di vedere la vera natura della realtà.
Quando si osservano le cose nella loro verità ultima non c’è più spazio per l’attaccamento e l’afferrarsi, non solo agli oggetti esterni, ma anche a se stessi. Tutto diviene più semplice, limpido, facile.
Durante la lettura del “Sutra del Cuore” dobbiamo tenere a mente, sempre, almeno questi concetti.
Il “Sutra del Cuore” è un discorso davvero unico.


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Il Sutra del cuore della sagezza



In Sanskrit: Bhagavati Prajna Paramita Hridaya
Il cuore della Bhagavati, la perfezione della saggezza

Così una volta udii:

Il Bhagavan dimorava a Rajgriha, presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di Arhat ed un gran numero di Bodhisattva, ed a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato “percezione profonda”. In quello stesso tempo, l’arya Avalokiteshvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.

Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, e gli disse: “Come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza?”.

Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbero vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.

La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza.
Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono vacuità; essi sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.

Quindi, Shariputra, nella vacuità non c’è forma, né sensazione, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino ad includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.

Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insorpassabile, perfetta illuminazione basandosi su questa profonda perfezione della saggezza.

Quindi, si dovrebbe sapere che il mantra della perfezione della saggezza - il mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a ciò che non ha uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze - è vero perché non è ingannevole. Si proclama il mantra della perfezione della saggezza:

TADYATHA GATÉ GATÉ PARAGATÉ PARASAMGATÉ BODHI SVAHA

Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda perfezione della saggezza”.

Quindi, il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente.
Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata se ne rallegreranno”.

Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli umani, degli asura e dei gandharava, tutti gioirono e lodarono ciò che il Bhagavan aveva detto.




Note:

Bhagavati:
(Sanscrit, Tib. Gyal wai yum) Madre dei Buddha, si riferisce alla perfezione della Saggezza, che è la madre e la causa fondamentale dell’Illuminazione.

Bhagavan:
(Sanscrito, Tib: chom dhen de ) Titolo generalmente attribuito ad un essere illuminato, letteralmente significa “colui che ha completamente illuminato gli ostacoli e possiede tutte le qualità”. Sinonimo di “Tathagata” (Sanscrito) e di “de war sheg pa” (Tibetano) nel senso di “colui che ha raggiunto lo stato di piena calma e piena illuminazione”. In questo brano ci si riferisce al Buddha Sakyamuni.

Rajgriha:
(Sanscrito, Tib. gyal poe khab) Luogo nel quale si erge un palazzo reale.

Picco dell’Avvoltoio:
Montagna con la cima a forma di avvoltoio, il posto nel quale viene impartito il sutra secondo la tradizione. Il Picco dell’Avvoltoio viene identificato popolarmente con una collina vicino a Rajghir, nello stato indiano del Bihar.

Arhat:
(Sanscrito, Tib. dra chom pa) Che ha raggiunto il nirvana. Detto anche Sarvaka o Pratyeka Buddha. Nel testo originale tibetano il termine è bikshu, ma si intende arhat.

Bodhisattva:
(Sanscrito, Tib. jang chub sem pa) Essere che possiede la Bodhicitta.

Assorbimento meditativo:
(Sanscrito, Tib. ting nge zin) Samadhi, una forma di meditazione.

Varietà dei fenomeni:
(Tib., choe kyi nam drang) Le varietà dei fenomeni: i 5 aggregati, le 12 fonti dei sensi, i 18 elementi, i 12 anelli della catena dell'origine interdipendente, le 4 nobili verità, le 4 fiducie, i dieci poteri di Buddha, ecc...

Percezione profonda:
(Tib. zab mo nhang wa) Vedere la vera e profonda realtà ultima dei fenomeni.

Arya:
(Sanscrito, Tib. Phag pei Gang zag) Un essere superiore che ha raggiunto la saggezza della diretta realizzazione della vacuità o che ha seguito il sentiero in uno dei veicoli.

Avalokiteshvara:
(Sanscrito, Tib. chen re zig) Conosciuto come il “Buddha della compassione”.

Bodhisattva mahasattva:
(Sanscrito, Tib. jang chub sem pa sem pa chen po) Bodhisattva di ordine superiore o Bodhisattva che ha conseguito il sentiero dei Bodhisattva o il sentiero mahayana della visione.

Bodhisattva mahasattva arya Avalokiteshvara:
(Sanscrito, Tib. jang chub sem pa sema pa chen po phags pa chen re zig) Si riferisce ad un singolo individuo conosciuto come il Bodhisattva mahasattva arya Avalokiteshvara, diverso dal “Buddha della compassione” Avalokiteshvara. Qui infatti viene identificato come un Bodhisattva sotto le sembianze di un bikshu, Bodhisattva, mahasattva e arya.

La pratica della profonda perfezione della saggezza :
(Tib. she rab kyi pha rol du chin pai zab moi chod pa).


I cinque aggregati:
(Tib. phung po ngha, Skt. skandha) Forme, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e della coscienza.

Vuoti di esistenza intrinseca:
(Tib. ran shin gyi tong pa).

Venerabile bikshu:
(Tib. thse dang dhen pa) Titolo attribuito ad un bikshu dalla mente sveglia ed intelligente.

Shariputra:
Figlio di Sharit, conosciuto come un bikshu dalla mente acuta fra i discepoli di Buddha Sakyamuni.
Figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva:
(Tib. rigs kyi bu vam rigs kyi bumo).

Le tre porte della liberazione:
(Tib. nam thar go sum) La porta della vacuità, la porta del senza-segno e la porta del senza-desiderio.

Le 12 sorgenti dei sensi:
Le sei sorgenti dei sensi e le sei facoltà.

I 18 elementi:
Le sei sorgenti dei sensi, le sei facoltà e le sei coscienze.
I 12 anelli della catena dell'origine interdipendente :
Ignoranza, Azione volontaria, Coscienza, Nome e Forma, Sorgenti dei sensi, Contatto, Sensazioni, Attaccamento, Brama, Concepimento, Nascita, Invecchiamento e Morte.

Le 4 Nobili Verità:
La Verità della sofferenza, la Verità delle cause della sofferenza, la Verità della cessazione e la Verità del sentiero.

I 5 sentieri:
Accumulazione, Preparazione, Visione, Meditazione e Cessazione dell’Apprendimento.

Nirvana:
(Sanscrito, Tib. Nyang De) Stato al di là della sofferenza.

Mantra:
(Sanscrito, Tib. yid kyob) Che protegge la mente.

Tathagata:
(Sanscrito) vedi Bhagavan.

Asura:
(Sanscrito, Tib. Lha ma yin) Semidio – un essere di un regno a metà tra gli uomini e gli dei.

Gandharava:
(Sanscrito, Tib. di zha) esseri informi che si cibano di “odore”