Saturday 23 November 2013

I DODICI ANELLI dell’ORIGINE INTERDIPENDENTE








I DODICI ANELLI dell’ORIGINE INTERDIPENDENTE






Geshe Gedun Tharchin









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Importanza della Solitudine
La verità delle Due Verità
L’Io e il Mio
Natura dell’Origine Interdipendente
I Dodici Anelli dell’Origine Interdipendente
Non-dualismo 
















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Importanza della Solitudine


Sono veramente lieto di essere con voi per condurre nel weekend un corso di Dharma; è bello ritrovare ancora una volta gli amici con cui lavorare sul Dharma cercando di focalizzarne l’essenza profonda.
Milarepa era un grandissimo meditatore, pienamente concentrato sull’essenza della pratica non si perdeva in futilità, e così deve essere la pratica del Dharma, particolarmente oggi in cui pare non esserci mai tempo per nulla. E’ necessario non disperdersi in inutili sovrastrutture ed avere un approccio diretto, centrato. Per realizzare questo obiettivo Milarepa aveva scelto di isolarsi dal contesto sociale, dalle distrazioni, da ogni attività non necessaria, dalla fama e dagli onori, lasciando tutto alle spalle per perseguire la pura essenza; ecco il punto focale della pratica del Dharma: isolarsi da ciò che non è necessario dedicandosi all’essenziale, vivere la solitudine. In occidente il concetto di solitudine è associato ad un senso di abbandono, fisico e morale, di triste indifferenza, ma nel contesto del Dharma la solitudine è una condizione indispensabile per raggiungere una reale crescita e realizzazione umana.
Le due interpretazioni del concetto di solitudine sono profondamente differenti; nel contesto sociale ordinario, la solitudine è realmente uno stato di abbandono, di isolamento, mentre nel Dharma significa che mente e corpo hanno la capacità di esistere in solitudine, la necessità di essere soli per raggiungere la realizzazione. L’isolamento fisico diviene sostegno all’isolamento mentale. Spesso nei testi buddhisti troviamo questa raccomandazione: “Quando hai compreso i principi degli insegnamenti devi cercare rifugio e sostegno nella solitudine e nell’isolamento fisico e mentale in modo da poterli realizzare”. L’isolamento è la condizione che intensifica la pratica spirituale, la pratica del Dharma .
Secondo la visione buddhista, lo stare in solitudine è essere nella condizione ottimale che dà forza e potere alla pratica. L’individuo che si trova in solitudine scopre i propri limiti, li vede con chiarezza. Ognuno di noi può misurare la propria debolezza, o la propria forza, confrontando il bisogno di essere con gli altri, di condividerne la vita e la necessità di rimanere in solitudine. Stare soli è molto più difficile e raro di quanto si pensi, se anche apparentemente lo siamo perché non c’è nessun altro nella stanza, non riusciamo a spegnere il cellulare, a staccare il computer, a non accendere il televisore, opponiamo a un vero isolamento dal mondo una forte resistenza, ciò dimostra quanto dipendiamo dagli altri. Quando il cellulare non funzione o non riusciamo a collegarci con internet ed aprire l’e-mail siamo sopraffatti da un senso di smarrimento, ci sentiamo completamente perduti; questa è la misura della nostra debolezza.
Ai tempi di Milarepa, non esistevano né il cellulare né internet e, abbandonato il villaggio, ci si ritrovava fisicamente nell’assoluta solitudine delle montagne, un ottimo sostegno per la solitudine mentale. Oggi, però non esiste luogo al mondo in cui ritrovare l’isolamento fisico, Anche nel più sperduto angolo del pianeta ci seguiranno telefono, radio, computer, quindi la nostra solitudine è solo un’illusione. La solitudine è più difficilmente realizzabile per un praticante moderno che deve perseguire lo spirito con cui i mistici del passato la vivevano, ma non deve imitarne pedestremente le modalità.
Oggi si deve trovare la solitudine ovunque, anche nella propria stanza, è sufficiente non accendere il televisore, spegnere il cellulare, non connettersi con internet. In un ambiente silenzioso e confortevole è possibile rilassarsi e serenamente addentrarsi nella meditazione in vera solitudine.
All’inizio questo tipo di isolamento può apparire difficile e duro, ma poco alla volta si scopre la gradevolezza, il piacere e la gioia della solitudine. Allo stesso modo quando si riprende il contatto con il mondo esterno si gusta con letizia la compagnia degli altri, l’essere insieme in cammino sullo stesso sentiero. L’essenza del Dharma è ovunque, si tratta semplicemente di imparare a coglierla.
Con il termine “meditazione”, “mente solitaria” definiamo la “mente che medita”, che si isola dai pensieri, dalle parole, dalle attività inutili. L’ isolamento del corpo, l’abbandono delle attività inutili, la ricerca della mente solitaria, non sono in contraddizione con la vita, con la tecnologia moderna, ma al contrario ne favoriscono l’ottimale utilizzazione, si impara a utilizzare il necessario e nulla più. Il corretto uso di quanto offre il mondo valorizza la complementarietà naturalmente esistente tra le qualità spirituali e materiali, non esiste conflitto tra i due aspetti, è la “via di mezzo”, la linea sottile della non contraddizione.
Nirvana e Samsara, due fenomeni, apparentemente contradditori, incontrano il loro punto di coesione, di non contraddizione nella linea sottile della via di mezzo. Anche tra la tecnologia più recente e l’antica saggezza esiste questa connessione, la non contraddizione, si tratta di trovare il punto di equilibrio, di incontro. La via di mezzo permette di vedere con chiarezza in ogni fenomeno la connessione, l’interdipendenza, la realtà interdipendente. Tutto esiste in maniera interdipendente. La realtà dell’interdipendenza indica la via di mezzo.
Per comprendere profondamente la realtà dell’interdipendenza di tutti i fenomeni è necessario avere la visione corretta della connessione esistente tra loro. La nostra stessa esistenza è dipendente da un’infinita quantità di fattori che a loro volta dipendono da altri. Tutti questi fattori possono essere buoni, cattivi o neutrali, indifferenti, ma sono tutti ugualmente necessari all’esistenza della vita, e se non sappiamo accoglierli con armonia, trovando il giusto equilibrio tra loro, saremo oppressi da pesante disagio e sofferenza.
La chiave per rapportarsi ad essi in armonia è la via di mezzo, la vera sorgente della pace e della felicità. La realizzazione della realtà dell’interdipendenza di tutti i fenomeni è chiamata “Dharma”. Non esistono fenomeni che non dipendano da altri, è impossibile trovare fenomeni indipendenti, e questa realtà è detta “via di mezzo”, o “verità assoluta”, “verità ultima”.



La verità delle due Verità


Comprendendo che tutte le cose sono interdipendenti, che non vi è nulla di autonomo e indipendente osserviamo la verità relativa dei fenomeni per giungere visione della non esistenza intrinseca di nessun fenomeno, la verità ultima. Questo è ciò che nel Dharma è definito “la verità delle due verità”.
Il Buddha ha detto che coloro che vedono l’interdipendenza di tutte le cose vedono il Dharma, e coloro che vedono il Dharma vedono il Buddha. Coloro che vedono come tutto sia dipendente da altro, osservano la verità relativa giungendo al Dharma ultimo che osserva che nulla esiste in modo indipendente, che tutto manca di esistenza propria, sostanziale intrinseca, osserva la verità ultima, la Vacuità.
La comprensione della verità convenzionale, o verità relativa, è la via che conduce alla comprensione della verità ultima o assoluta, la Vacuità, e colui che vede la verità ultima vede il Buddha. Al tempo del Buddha i suoi discepoli potevano vederlo, ascoltarlo, era fisicamente percepibile, eppure egli non intendeva questa visione affermando: “vedrete il Buddha”, si riferiva invece alla possibilità di “vedere le due verità”, perché in esse ognuno può ottenere lo stato di Buddha.
Il concetto di interdipendenza è fondamentale e deve essere applicato a tutti gli aspetti ella vita, da quelli più grossolani ai più sottili, fino alla realizzazione della buddhità. La ricerca della verità ultima produce un’importante realizzazione, perché permette di scoprire che, se tutto è interdipendente, anche gli aspetti della vita da noi percepiti come positivi, negativi o neutri, in realtà appartengono alla stessa natura quindi sono uguali, li possiamo accogliere con accettazione serena senza discriminazioni, comprendiamo finalmente che non è possibile rifiutare uno e accettare l’altro, perché sono interdipendenti.
Risulta evidente come non si possano eliminare le negatività dalla vita volendo contemporaneamente salvarne gli aspetti positivi, è impossibile perché entrambi i fenomeni sono reciprocamente interdipendenti, dobbiamo invece ricercare nella vita ordinaria e quotidiana il loro punto di coesione, l’equilibrio che diviene la vera sconfitta di tutte le negatività dell’esistenza. Questo è il potere mistico della verità della Vacuità.
Attraverso l’analisi della realtà interdipendente si scoprono moltissime possibilità di soluzioni ai problemi quotidiani. Credo che questa sia l’indicazione fondamentale, il vero consiglio che il Buddha ha cercato di trasmettere al mondo, ecco perché è così importante imparare a vivere la solitudine sapendo vivere nella società. Entrambi gli aspetti sono necessari all’esistenza, devono essere vissuti con consapevolezza e ciascuno di essi apporterà serenità e gioia.
E’ necessario trovare la connessione, la complementarietà tra questi due aspetti, apparentemente contradditori, analizzarne l’interdipendenza, trovare il punto d’incontro, l’equilibrio. Dobbiamo sempre essere vigili nella consapevolezza che ogni fenomeno dipende da altri fenomeni, dunque tutti i fenomeni sono interdipendenti e nessun fenomeno ha un’esistenza intrinseca, nulla esiste da sé in modo indipendente da altri fenomeni.
Se due automobilisti si scontrano, o due passanti battono la testa uno contro l’altro, chi ha battuto chi? Entrambi si sono fatti male allo stesso modo, chi ha scontrato è stato scontrato e viceversa; una realtà dipende dall’altra. Questo principio deve essere applicato ad ogni fenomeno, ad ogni esperienza, sia di dolore o di gioia, sino all’esperienza stessa dell’io, del sé, della propria persona. Un esempio: dov’è la felicità? in questo luogo? in quest’altro? Dove?
In questi giorni a Roma, sentivo molto caldo, e mi sono posto la domanda: dov’è il caldo? Sulla pelle? Allora se tolgo la pelle sentirò meno caldo? Dov’è? Il caldo c’è, ma se vado a cercarlo non lo trovo da nessuna parte, posso sentirlo, ma non lo vedo, non lo tocco, non lo identifico con nulla di concreto, constato semplicemente che è il risultato dell’interdipendenza di infiniti fenomeni. Io sento caldo, ma un'altra persona lo può percepire in modo assolutamente diverso, anche contrario, perché i fattori si intersecano differenziandosi, quindi, il caldo è vacuo.
Ecco le due verità “relativa” e “assoluta”, l’interdipendenza e la mancanza di indipendenza. Il caldo c’è in quanto condizionato da altro, ma il caldo non condizionato da altro non esiste. Il caldo non ha una realtà propria, perché se così fosse potrei individuarlo, prenderlo e toglierlo di mezzo. La verità relativa è la dipendenza di tutti i fenomeni e la verità assoluta è la non-esistenza di nessun fenomeno in modo indipendente.
Domanda: Quando io soffro, soffro a causa della realtà relativa, non di quella assoluta, quindi, anche se scopro che il caldo è una realtà relativa, non me ne importa nulla, lo soffro ugualmente!
Lama: Certamente, io sono come te e soffro il caldo ugualmente, ma quello che è importante comprendere è la natura del fenomeno, questo è il primo fondamentale passo verso la liberazione dalla sofferenza. Il fenomeno sofferenza non esiste intrinsecamente, è un’illusione. Possiamo quindi scegliere se sperimentare la sofferenza, dukkha, o realizzare la realtà della sofferenza, sono due cose diverse. In entrambi i casi l’esperienza della sofferenza permane, quindi si soffre e in questo non vi è nulla di negativo perché l’esperienza della sofferenza è la condizione della nostra vita, è la condizione dell’esistenza samsarica. Ma osservare consapevolmente la realtà della sofferenza è la realizzazione della sofferenza.
A causa dell’ignoranza, dell’illusione, dell’attaccamento sperimentiamo la sofferenza come sofferenza, ma se la osservassimo senza ignoranza, illusione e attaccamento, l’esperienza della sofferenza non sarebbe sofferenza.
Nella sua natura dukka, la sofferenza, è sofferenza, ma realizzandola con consapevolezza non si trova sofferenza. L’errore è dire “io soffro”, ma se il mio atteggiamento mentale è: “sperimento la sofferenza” o “c’è esperienza della sofferenza”, realizzo la verità della sofferenza.
Domanda: Non so se ho capito, ma a me sembra che spesso ci facciamo condizionare da idee preconcette, culturali e per questo soffriamo di più, è così?
Lama: “io soffro” “sto soffrendo” è la creazione della nostra illusione mentale. Il diverso modo di sperimentare la sofferenza dipende dal livello di realizzazione di ciascuno. Questo è facilmente osservabile nelle persone gravemente ammalate, la loro reazione alla malattia può essere davvero molto diversa in coloro che subiscono l’esperienza della sofferenza e coloro che osservano la realtà della sofferenza. Ripeto, non c’è nulla di sbagliato nell’esistenza della sofferenza, è naturale che essa esista, il punto sostanziale è come la si accoglie.
Per comprendere meglio quanto detto sinora leggiamo alcuni versi tratti al XXIV capitolo della Madhyamakamulakarika di Nagarjuna - “Le Quattro Nobili verità”:
versetto 8°
L’ insegnamento, o Dharma, di Buddha giace su due verità,
la verità convenzionale o relativa e la verità assoluta o realtà ultima”
versetto 9°
Coloro che non comprendono la distinzione tra queste due verità
allora non comprendono l’essenza profonda del Dharma”
versetto 10°
Non comprendendo la realtà relativa
non si può comprendere la realtà ultima
e non comprendendo la realtà ultima
non si può realizzare il Nirvana”
In altre parole, la comprensione della realtà o verità ultima dipende dalla comprensione della realtà convenzionale o relativa, quindi non c’è modo di comprendere la verità ultima se non passando attraverso la verità convenzionale o relativa. La comprensione della realtà ultima o Vacuità non è facile e per questo è necessaria una grande attenzione e prudenza perché vi è il rischio di interpretarla in modo errato con conseguenti gravi problemi, in tibetano si dice “è come cacciare il serpente prendendolo per la coda”.
La realtà convenzionale e la realtà ultima sono complementari, non contraddittorie, e la comprensione dell’una facilita la comprensione dell’altra. Mantenendo questa visione mutuale si giunge alla comprensione del loro reale significato.

Esistenza della sofferenza o non esistenza della sofferenza: a livello relativo la sofferenza esiste, ma a livello ultimo la sofferenza non esiste, perché quando si va a cercare un oggetto che abbia tutte le caratteristiche della sofferenza non si trova nulla.
versetto 11°
Il fraintendimento della Vacuità
distrugge le persone di poca intelligenza
è come afferrare un serpente per la coda
è come pronunciare una formula magica in modo errato”
versetto 12°
conoscendo quanto sia difficile per il debole comprendere il Dharma
il Buddha nel suo cuore esitò nell’insegnare il Dharma”
La Vacuità è l’essenza del Dharma e proprio per questo è rischioso insegnarla, la sua comprensione può essere davvero difficile. La Vacuità non può essere spiegata soltanto con l’insegnamento e l’esemplificazione letterale, ma è necessario averne una percezione diretta, sperimentarla.
versetto 13°
Vacuità è la realtà ultima
o il modo ultimo di esistenza delle cose.
Se un fenomeno non fosse vacuo non potrebbe esistere”
L’ esistenza del fenomeno dipende dalla Vacuità, dal modo di essere che è Vacuità, ovvero dalla mancanza di sostanzialità, così quando cacciamo un serpente dobbiamo stare molto attenti a non afferrarlo per la coda.
versetto 14°
Per coloro per i quali la Vacuità è possibile
tutto è possibile
per coloro per i quali la Vacuità non è possibile
nulla è possibile”
Chi sostiene che le cose esistono, ma non sono vacue, fa un’affermazione errata.
versetto 15°
Voi imputate i vostri errori a me
mentre siete voi in errore
siete come un cavaliere
che dimentica il cavallo che sta cavalcando”
Quindi se noi attestiamo che le cose esistono ma non sono vacue siamo come quel cavaliere, o come un automobilista che mentre guida afferma che l’auto non c’è perché ha scordato di essere sulla macchina che sta guidando.
Poiché tutte le cose dipendono da cause e condizioni questa stessa dipendenza è il significato della Vacuità. Le cose esistono semplicemente a livello di nome. Prendiamo ad esempio tutti i pezzi che compongono un tavolo, li mettiamo insieme in un certo ordine e avremo ciò che noi definiamo tavolo, ma se li smontiamo non avremo più nulla che possiamo identificare come tavolo. Quindi il tavolo esiste solo a livello di nome, non ha un’esistenza sostanziale propria, dipende dall’assemblamento di tanti pezzi che hanno a loro volta nomi diversi.
Tutte le cose esistono solo a livello di denominazione che, con un termine particolare utilizzato nel Madhyamaka, la via di mezzo, si dice “imputazione”
Questo concetto è spiegato nel versetto 18°
Qualunque cosa sorga nella dipendenza
è detta Vacuità
e questa viene chiamata imputazione del sorgere interdipendente.
Questa è la via di mezzo, la Madhyamaka”
Poiché non esiste nulla che non dipenda da altro, non esiste nulla che non sia vacuo. Le spiegazioni di questi versi sono difficili, esistono varie interpretazioni e scuole, per cui è possibile che si possa creare una certa confusione, ma ciò che è fondamentale comprendere è che qualsiasi tradizione fa capo al testo radice di Nagarjuna, è dunque consigliabile attingere sempre direttamente a questa fonte per poter comprendere tutte le sfumature, gli insegnamenti, le interpretazioni successive.
Il testo di Nagarjuna è pura filosofia, privo di ogni condizionamento culturale, religioso, di razza. E’ filosofia universale, filosofia per l’essere umano.
Nagarjuna risponde con i versi 14° e 15° a coloro che lo contraddicono e che, non riconoscendo il proprio errore, lo attribuiscono allo stesso Nagarjuna:
Per coloro per i quali la Vacuità è possibile, tutto è possibile, per coloro per i quali la Vacuità non è possibile, nulla è possibile”
Voi imputate i vostri errori a me mentre siete voi in errore, siete come un cavaliere che dimentica il cavallo che sta cavalcando”.
Se percepite l’esistenza delle cose come se esse possedessero un’essenza propria, questa percezione è errata perché non tiene conto delle cause e delle condizioni. Secondo questa visione la causa e l’effetto, l’agente e l’azione, le condizioni, il sorgere e il cessare, sono impossibili. Qualunque cosa sorga interdipendentemente è detta essere vacua, è Vacuità. L’essere nell’imputazione interdipendente è essere nella via di mezzo.
La via di mezzo, la Vacuità, l’interdipendenza, la mera imputazione sono sinonimi, indicano la stessa realtà.




L’Io e il Mio


La comprensione del concetto di interdipendenza è essenziale all’assimilazione profonda del significato dei “Dodici anelli dell’origine interdipendente” e ne abiamo spiegazione chiara ed esauriente nel 26° capitolo della Madhyamaka.
Il primo anello dell’origine interdipendente è l’IGNORANZA, che si presenta in duplice aspetto, l’uno è la «non conoscenza» e l’altro è la «conoscenza errata». Durante il sonno si sperimenta l «non conoscenza», non si ha alcuna percezione della realtà quindi non si conosce.
Ma ignoranza più pesante è data dalla «conoscenza errata», che, ad esempio, afferma l’esistenza di un sé sostanziale e la sostanzialità dei fenomeni. Questo tipo di ignoranza si articola in tre categorie:
1. l’ignoranza che riguarda il Sé, l’Io
2. l’ignoranza che riguarda il Mio
3. l’ignoranza che riguarda i fenomeni.
La terza categoria in genere non ci colpisce, non ci influenza particolarmente, ma le prime due, del sé e del mio, ci condizionano moltissimo incatenandoci strettamente alla sofferenza. L’ignoranza del sé è originata per prima, nel testo di Chandra Kirti “Madhyamakavatara” che letteralmente significa “Impegnarsi nella Via di Mezzo”,ne è descritta l’evoluzione:
  • da principio si afferra ciò che chiamiamo “io”;
  • poi sorge l’attrazione verso ciò che chiamiamo “mio”;
  • da entrambi scaturiscono “desiderio e attaccamento” che cominciano a far girare la ruota senza fine dei tre tipi di sofferenza. Con il termine “senza fine”, non si intende l’impossibilità di cessazione, ma significa che come in un cerchio, non c’è punto né di inizio né di fine, si tratta di un moto in continua rotazione.
Avendo perduto la libertà a causa dell’ignoranza, forzatamente si ruota ininterrottamente nel movimento creato dall’io e dal mio. Questa è l’ignoranza fondamentale ed è la radice del Samsara. “Oscurati dall’ignoranza si è mossi dall’azione verso il proprio destino”, cioè verso il circolo vizioso, senza fine, del Samsara.
Il significato del primo anello è l’ignoranza, la percezione errata, il fraintendimento dell’io e del mio; non si comprende che l’io, il sé, è vacuo, è interdipendente, è mera imputazione in quanto esiste solo in dipendenza da cause e condizioni. La natura dell’io è pura Vacuità e comprendendo che questa è la sua vera natura si ha la visione della via di mezzo, la visione della saggezza che si oppone all’ignoranza fondamentale.
Domanda: A me sembra abbastanza facile dimostrare, logicamente, che un tavolo è un nome, quando però si passa all’io la cosa mi pare assai più difficile da accettare. Non ho capito in quale modo l’io possa essere relativo, perché il mio io è l’origine stessa della mia conoscenza. Ogni percezione che ho è il mio stesso io.
Lama: Quando hai una qualsiasi percezione tu dici “io vado” “io ascolto”, ma in realtà, se osservi con attenzione, l’occhio vede, l’orecchio ascolta e né occhio né orecchio sono te, sono una parte di te, ma senza occhi e senza orecchie tu esisti ugualmente. L’io, la persona è composta da sei elementi, di cui quattro comuni e due complessi: lo spazio o vuoto e la coscienza. Tu quindi sei costituito da questi sei elementi; è facile capire che i quattro elementi comuni non possono essere l’io, anche lo spazio non è l’io, ma quando si arriva al sesto elemento, la coscienza, nascono dubbi, ci si identifica totalmente con la coscienza, si dice io sono la coscienza.
Ma cos’è la coscienza? Non è un fenomeno unico, è una molteplicità di fenomeni: ci sono i sensi della mente, i sensi della fisicità, eppure in mezzo a tanta pluralità non c’è nulla che possa essere indicato come io. La coscienza è un flusso in continuo divenire, sono continui e distinti momenti di coscienza. Non vi è nulla di permanente identificabile come io. Tutto è interdipendente, quindi vacuo. La realizzazione della Vacuità, o realizzazione dell’interdipendenza, ci libera dalla concezione errata dell’io.
La prerogativa dell’essere umano è la coscienza, e lo sconfinato significato della vita umana giace nella mente. Mi rendo conto di quanto sia difficile trasmettere questi concetti: la Vacuità, la natura del Buddha, la natura della mente, la rinascita; è più facile avvicinarsi ad essi nella meditazione.
Domanda: Credo che fino a quando si ha un corpo sia davvero difficile assimilare simili nozioni, o si realizza la Vacuità o sarà sempre impossibile coglierla profondamente.
Domanda: E’ giusto quel che diceva il Lama, se non ci si immerge nella meditazione, ma si pretende di raggiungere una conoscenza solo attraverso la logica è impossibile comprendere la Vacuità.
Lama: Allora concludiamo questa giornata con la meditazione.
Per poter tagliare la radice del Samsara, occorre conoscere prima di tutto come inizia e come ci si entra. Per questo è necessario studiare i dodici anelli dell’origine interdipendente che ne indicano con precisione l’inizio, lo sviluppo e il circolo vizioso in cui si rimane intrappolati. Con questa consapevolezza possiamo essere colti da un senso di tristezza e di sconforto, ma altrettanto dovrebbe nascere e crescere in noi il desiderio di uscire da una simile situazione, la volontà di rinuncia al permanere nel Samsara, il desiderio di liberazione.
Riflettere sul processo del Samsara, sulla realtà dell’esservi immersi, ce ne mostra la radice, l’origine. Lo studio dei dodici anelli dell’origine interdipendente indica chiaramente la genesi del Samsara la sua evoluzione, la continua riproduzione di se stesso e le infinite implicazioni e condizionamenti nella nostra vita, offre una visione chiara del processo di causa-effetto prodotto in noi dalle diverse emozioni, a volte di tristezza, a volte di gioia e altre volte neutre.
Studiare con attenzione i dodici anelli dell’origine interdipendente favorisce lo sviluppo della saggezza, unico efficace strumento per sconfiggere il primo e importante anello: l’ignoranza. Riflettendo sulla catena dei dodici anelli, si analizzano tutte le implicazioni che controllano la nostra vita, che ci imprigionano nel circolo vizioso di sofferenza che crea altra sofferenza. Questa presa di coscienza è positiva perché evidenzia la situazione in cui siamo immersi, la natura della nostra sofferenza, indicandoci nel contempo la via della saggezza.
La consapevolezza della natura della sofferenza ha inoltre l’effetto positivo di indurre il forte desiderio, la volontà, di liberazione dal pesante giogo. Il riconoscimento della dinamica di nascita e crescita della sofferenza conduce all’approfondimento del funzionamento dei dodici anelli, offrendo così una visione estremamente chiara della natura e delle conseguenze dell’ ignoranza in un processo cognitivo che condurrà alla conoscenza della Vacuità. Per questo si dice che:
la saggezza della Vacuità taglia le radici dell’ignoranza”.
Lo studio e la meditazione di questo testo è fondamentale, è la strada che porta alla liberazione.




Natura dell’Origine Interdipendente


Nel testo si parla di “coproduzione condizionata”significato del processo di causa effetto, sintetizzato in tre punti:
  1. “se c’è questo, c’è quello”;
  2. “dalla nascita di questo, nasce quello”;
  3. “condizionati dalla nescienza (ignoranza) si riproducono i coefficienti (karma)”.
Questi tre fattori compongono e completano le condizioni determinanti il risultato e dimostrano esaurientemente la natura dell’interdipendenza. Esaminiamoli uno alla volta:
  1. Il primo, “Se c’è questo, c’è quello”, indica che se non c’è una causa nemmeno ci sarà un risultato. Al contrario, con cause e condizioni si avrà un risultato, senza cause e condizioni no, quindi nessun risultato può prodursi in mancanza di cause e condizioni, nulla esiste in assenza di cause e condizioni.
  2. Il secondo, “dalla nascita di questo, nasce quello”, significa che ciò che è entrato in esistenza lo ha fatto in virtù di una causa e che questa causa non può essere permanente. Non è possibile che qualche cosa venga in esistenza senza causa e questa causa è impermanente perché una causa permanente non può dare alcun risultato. Nessun risultato può essere prodotto da una causa permanente.
  3. Il terzo, “condizionati dalla nescienza (ignoranza) si riproducono i coefficienti (karma)”, indica che ciascun risultato deriva da una causa che gli corrisponde; tra risultato e causa deve esserci corrispondenza che definisce la formazione karmica, è l’impulso karmico. L’ignoranza (causa) e la formazione karmica (risultato) si connettono tra loro, il loro legame rientra nel processo di Dukkha, di formazione della sofferenza.
Così, come il seme di riso non può che far gerrmogliare la piantina di riso e il seme di mais la piantina di mais, ogni risultato corrisponde alla causa che lo ha determinato. Soffermandoci sull’esempio della piantina di riso sappiamo che essa non può essere prodotta senza causa, non può essere prodotta da una causa permanente, e non può essere prodotta da una causa diversa, come un seme di mais. Se la piantina di riso potesse svilupparsi senza causa, non sarebbe necessario piantare il seme di riso, il riso sarebbe eternamente presente, senza bisogno di alcun intervento.
I tre elementi della relazione di “causa - effetto”, o, “causa - risultato”, sono essenziali alla comprensione di ogni tipo di fenomeno. Le emozioni, felicità, infelicità e atteggiamento neutrale, rientrano nella relazione di causa - effetto, in tutti e tre gli aspetti.
La percezione di una sensazione di felicità è il risultato di una causa che non può che essere impermanente. Quindi la sensazione di felicità è un effetto che corrisponde alla sua causa, ovviamente positiva, perché se fosse negativa l’effetto generato sarebbe da noi percepito come infelicità. Comprendendo questo meccanismo di causa - effetto siamo in grado di capire il processo dell’origine dipendente, o del sorgere interdipendente detto anche “originazione” interdipendente.
L’origine dipendente indica ciò che si determina in dipendenza da altro, è il risultato, l’effetto di una causa. Si inizia così un processo a catena, per cui una causa produce un effetto che a sua volta diviene causa per un altro effetto e così via. La sequenza senza fine ha avuto inizio. Con il prodursi dell’effetto, la causa che lo ha determinato cessa, non è più causa, quindi la causa è sempre e solo impermanente.
Il processo di causa effetto può essere generato in due modi, il primo è detto “susseguente” e il secondo “di contemporaneità”. Il processo appena descritto è susseguente, ma è possibile che un effetto avvenga solo per l’insieme di cause che debbono sussistere contemporaneamente, si ha così un fenomeno di “contemporaneità”. (Per chiarire il concetto il Lama percuote con il batacchio la campana che immediatamente emette un prolungato e profondo suono) Noi abbiamo udito l’effetto suono, che però è stato determinato da un’insieme di cause concomitanti: la campana, il batacchio, la mano che lo ha preso e l’incontro di questo con il bordo della campana. Senza l’esistenza della contemporaneità di tutte queste cause non si sarebbe potuto generare il suono, nessuna causa singola sarebbe in grado di ottenere il risultato voluto.
Se riflettiamo sull’origine interdipendente, riconosciamo che tutto accade per una causa impermanente che ne ha determinato l’effetto il quale, a sua volta, è causa impermanente di altro effetto, e così via. C’è sempre corrispondenza tra causa - effetto, causa - risultato. Comprendere questo meccanismo significa avere una chiara visione, una realizzazione, dell’esperienza che si sta vivendo, momento per momento.
In questo modo portiamo l’esperienza nel palmo della mano, ne abbiamo consapevole osservazione che diventa chiave del cambiamento. Volendo cambiare l’esperienza sappiamo di avere gli strumenti per farlo, come farlo, se invece non desideriamo cambiare possiamo permanervi, senza modificare nulla. Se voglio essere felice so cosa devo fare, se desidero rimanere nell’infelicità sono altrettanto libero. E’ un aspetto interessante del Buddhismo, il Buddha non ha mai detto: “devi essere felice, devi stare bene”, ma: “puoi essere felice, puoi stare bene, se tu lo vuoi. Per stare bene la via è questa, per rimanere nell’infelicità è quest’altra”. Ognuno sceglie il proprio sentiero. Quindi se anche le nostre scelte sono sbagliate, possiamo osservare l’errore con pace, cambiare le cause e quindi modificarne gli effetti, ciò evita il prodursi di sterili quanto dannosi sensi di colpa che non farebbero che causare altri effetti negativi.
Per godere di questa libertà è però necessario penetrare profondamente nel reale significato dell’origine interdipendente.
Nel testo della Madhiamikamulakarika, “Lode a Manjusrhi l’eternamente giovane” si cita:
La coproduzione condizionata,
pacificazione di ogni spiegamento del pensiero discorsivo,
benigna, senza arresto, senza nascita, senza annientamento, senza eternità, senza unità,
senza molteplicità, senza venuta, senza andata.
Colui che svegliato, l’ha insegnata,
io lo saluto,
Lui, il migliore dei parlatori”
Le prime righe “La coproduzione condizionata, pacificazione di ogni spiegamento del pensiero discorsivo” illustrano la cultura tibetana in cui la conoscenza dell’origine interdipendente diviene pacificazione di ogni realtà, perdono senso concetti dualistici e fuorvianti quali: “buono - cattivo”, “bello - brutto”, “andare - venire”, “piacevole - spiacevole” e nel testo sono descritte le otto qualità della pacificazione: “benigna, senza arresto, senza nascita, senza annientamento, senza eternità, senza unità, senza molteplicità, senza venuta, senza andata.
La comprensione dell’interdipendenza porta alla pacificazione di tutte le sovrastrutture mentali che creano divisione e con mente non dualistica si è in grado giungere alla vera libertà.
In questo verso è praticamente sintetizzato il senso dell’intero testo ed è basilare.
Generalmente nell’editoria moderna il sommario è stampato in coda al libro invece nel passato era d’obbligo presentare prima la sintesi dell’argomento da trattare.
I filosofi greci Aristotele e Platone hanno particolarmente affinità con concetto Buddhista di impermanenza. La filosofia greca è interessante, non impone conclusioni ma induce a riflettere sulle questioni, al ragionamento, e la conclusione ognuno la deve trovare da sé.
Il verso iniziale della Madhiamaka Mula karita è essenziale perché indica con estrema chiarezza come la comprensione dell’origine interdipendente conduca alla cessazione delle dualistiche costruzioni mentali e quindi alla vera liberazione. Per questo motivo si dice che l’insegnamento dell’origine interdipendente è il fulcro, il re, di tutti gli insegnamenti.
I maestri tibetani hanno analizzato e interpretato questo testo, sviscerandone ogni possibile sfumatura, da cui sono nati i numerosi “sottotesti”; ma a coloro che non appartengono a questa cultura io consiglio vivamente di riferirsi sempre direttamente al testo originale di Nagarjuna, perché è l’unica garanzia per evitare grossolani fraintendimenti atti ad aumentare la confusione.
E’ importante avere molta cura nella scelta dei testi di Dharma, alcuni originali scritti da illustri maestri sono certamente più difficili, altri invece più facili, quasi fossero libri per bambini, si limitano spesso ad un’infarinatura superficiale ed è pericoloso abituarsi a questo tipo di approccio perché diventa sempre più arduo addentrarsi con mente recettiva nel cuore dei testi più complessi ma più esaurienti. Il testo radice, originale, privo delle interpretazioni delle differenti scuole formate in momenti successivi, in un solo verso può contenere il significato più profondo e completo.
In Tibet lo studio del Buddhismo è cresciuto in un processo di logica sempre più raffinata, ogni parola analizzata sottilmente permette un’elaborazione analitica, dettagliata, specifica e profonda di ogni argomento. Ma questa dialettica risulta di difficilissima comprensione per coloro che non vivono nel contesto culturale delle università monastiche tibetane.
In India nell’Università di Nalanda ai tempi di Nagarjuna questa modalità di analisi non esisteva, si preferiva un sistema di logica più diretto e accessibile a tutti. In considerazione di questo molti studiosi buddhisti hanno abbandonato i testi tibetani riferendosi unicamente a testi indiani che, oggi, sono sicuramente più adeguati al contesto culturale e al tipo di logica degli studiosi occidentali.
Domanda: Nessuna causa può essere permanente, quindi anche l’effetto è impermanente, però la mente è eterna, quindi permanente, e genera un effetto permanente che sono i fenomeni, allora è impermanente solo il modo di percepire i fenomeni?
Lama: La mente non è affatto permanente, è totalmente impermanente, tu pensi che la mente non cambi?
Domanda: Ma la mente esiste eternamente nella sua capacità di creare ed è ciò che crea che, divenendo ciclicamente causa effetto, è impermanente...
Domanda: Vorrei aggiungere qualcosa a questa domanda; noi occidentali siamo forse fuorviati dal concetto di un’anima individuale e immortale, così come il fenomeno delle consapevoli rinascite dei Bodhisattva, e allora è veramente difficile comprendere l’impermanenza della mente
Lama: Nel tantra chiamato “il Nome di Manjushri” si legge:
Il Buddha non ha inizio e non ha fine.
Il primo Buddha non ha causa”
Il Buddha non ha inizio e non ha fine significa che la mente non ha inizio e non ha fine. Il Buddha non ha causa significa che la natura del Buddha non è causata, è nella natura della mente essere Buddha. Però ciò non vuol dire che la mente sia permanente. Il flusso continuo della mente viene da tempo senza inizio, ma la mente di adesso non c’era ieri e non ci sarà domani. La mente di adesso finisce qui, è effetto della mente di ieri e causa della mente di domani. E’ sempre la propria mente, ma non è la stessa di prima e non può essere la stessa che verrà dopo.
La mente di adesso è venuta in esistenza a causa di fattori impermanenti precedenti con i quali vi è corrispondenza. Un libro non può diventare mente perché non vi è alcuna corrispondenza tra causa - effetto, non c’è relazione corrispondente.

Così i Bodhisattva rinascono continuamente, ma non sono mai la stessa persona. Bodhisattva è ciò che definisce la qualità della mente, non identifica l’individuo.
Osserviamo la vita umana: si va a scuola, si lavora e poi si va in pensione. Ma il bambino non è il pensionato, l’impiegato non è il pensionato. A livello convenzionale sono la stessa persona perché hanno lo stesso nome, ma in realtà questo avviene solo a livello convenzionale e di nome. Le persone che entrano in relazione con noi ci identificano in base a quel nome, ma noi mutiamo, non siamo la persona di ieri e nemmeno quella di domani, anche se causa - effetto determinano una continua correlazione tra loro.



I Dodici Anelli dell’Origine Interdipendente


Il capitolo 26° del testo Mula karika della Madyamaka di Nagarjuna, analizza i dodici anelli dell’origine interdipendente e inizia affermando che nell’ignoranza si formano i tre tipi di karma responsabili del passaggio degli esseri nelle vite future. Ricorderete che esiste l’ignoranza che determina il karma, legge di causa effetto, e l’ignoranza rivolta alla realtà ultima. L’ignoranza di causa effetto impedisce di vedere che ogni azione - mentale, verbale, o fisica - produce il relativo effetto e, dunque, l’accumulo di più azioni negative potrà determinare la rinascita in esistenze inferiori.
L’ignoranza della realtà ultima si presenta in due aspetti:
1. Nel primo la persona ignora la realtà ultima, ma conosce la legge di causa effetto, e quindi attua azioni virtuose che determinano una rinascita nel reame umano;
2. Nel secondo la persona ignora la realtà ultima, conosce la legge di causa effetto, ma attua azioni neutre, dovute alla dimensione della concentrazione mentale e questo determina la rinascita nei reami dei Deva, teoricamente più alti ma che in realtà non sono affatto più elevati rispetto all’esperienza umana. I tre reami:
  1. reame basso
  2. reame umano
  3. reame dei Deva
secondo un tipo di rappresentazione sarebbero ubicati in un luogo ideale, però, tra le moltissime interpretazioni, probabilmente la più vera li colloca a livello dell’esperienza che ognuno vive.
I tre tipi di karma, positivo, negativo e neutro, sono creati da corpo, parola e mente, quindi il termine “tre” ricorrente nel testo, è riferito sia ai tre tipi di karma che ai tre modi di produzione di karma. L’ignoranza determina karma negativo, positivo o neutro. Ogni azione genera il karma attraverso il corpo, la parola, la mente e diviene impronta mentale. Tra questi il modo più potente nella strutturazione del Karma avviene attraverso la mente, ma cos’è l’azione mentale? il karma prodotto dalla mente? E’ l’attitudine mentale, ogni pensiero che sorge ne è accompagnato e, in dipendenza da essa, può essere positivo, negativo o neutro. Se l’attitudine è positiva lo sarà anche il pensiero e produrrà karma positivo. E’ l’attitudine che dirige il destino del pensiero, non è tanto importante ciò che facciamo, diciamo o pensiamo, quanto l’attitudine che accompagna tutte queste azioni.
La pratica del Dharma comporta dunque la consapevolezza dell’inevitabile necessità di cambiare attitudine, di assumere sempre un’attitudine corretta, è ciò a cui ci si riferisce parlando di addestramento mentale. La psicologia buddhista ribadisce che ogni pensiero è accompagnato da cinque fattori onnipresenti:
1. sensazione;
2. discriminazione, o, mente discriminante;
3. attitudine;
4. contatto con l’oggetto;
5. riflessione, ragionamento, osservazione.
Tra essi il fattore determinante nella produzione del karma mentale, positivo, negativo o neutro, è l’attitudine, elemento decisivo allo sviluppo delle rinascite future.
L’attitudine ha il potere di influenzare le azioni mentali, fisiche e verbali.
Le azioni mentali, fisiche e verbali lasciano impronte nella mente, la influenzano, determinando le predisposizioni karmiche. Questo è il secondo anello dell’interdipendenza.
Il terzo anello è quello della coscienza, già impregnata dalle impronte karmiche, le predisposizioni.
Dall’ignoranza scaturisce il karma; quindi si formano le tre azioni - mentali, fisiche e verbali - che lasciano un’impronta nella coscienza principale (terzo anello). L’impronta impressa nella coscienza dalle azioni è come un seme che ha il potere di far germogliare la rinascita.
Secondo verso:
La coscienza, che è determinata dalle azioni karmiche,
la coscienza che è condizionata dalle impronte karmiche,
è lanciata verso diversi destini”
Questi tre anelli: ignoranza, formazioni karmiche e coscienza, sono l’uno susseguente all’altro.
Il quarto - Nome e Forma - è costituito dai cinque aggregati e si sviluppa nel momento in cui la coscienza entra nella vita successiva. La forma corrisponde all’aggregato della forma e il nome agli altri quattro: delle sensazioni, della discriminazione, della coscienza e delle azioni che contengono tutto il resto dei fenomeni.
E’ necessario studiare i cinque aggregati secondo tutti gli aspetti approfonditi nei trattati dell’ Abhidharma (Dharma superiore), del Pramana (mezzo valido di coscienza) e della Madhyamika (Dottrina della Via di mezzo), per ottenerne una completa comprensione.
  • Nell’ Abhidharma la spiegazione dei cinque aggregati è scientifica, approfondisce l’aspetto fisico e metafisico.
  • Nel Pramana si affronta l’aspetto metafisico e psicologico.
  • Nella Madyamaka prevale la spiegazione della realtà ultima dei cinque aggregati.
Il quinto anello - “delle sorgenti sensoriali” - tratta delle sei forme che, percepite dai sensi, diventano sensazioni:
1. colore e forma oggetto della vista
2. suono oggetto dell’ udito
3. odore oggetto dell’ olfatto
4. sapore oggetto del gusto
5. tatto oggetto del toccare
6. coscienza oggetto del dharma
Quando nome e forma, i cinque aggregati, cominciano a costruirsi si presentano come oggetto percepibile dai sensi.
Il sesto anello è il contatto. Lo sviluppo di nome e forma crea le sorgenti sensoriali dalla cui dipendenza nascerà il contatto. Il contato si costituisce in dipendenza dal senso, dall’oggetto e dalla coscienza immediatamente precedente. Queste sono le tre condizioni che determinano il contatto.
Le tre condizioni che permettono la funzionalità del senso della vista ad esempio sono date dall’organo sensoriale - l’occhio, dall’oggetto della vista - colore e forma e dalla coscienza che è immediatamente precedente al verificarsi del contatto. Le tre condizioni, insieme, costituiscono il contatto.
Riassumendo: Nome e Forma sono il primo stadio della nascita, poi si sviluppa lo stadio della percezione dei sensi e, quando i cinque aggregati sono percepibili si è a livello delle sensazioni sensoriali (5° anello). Dall’incontro dell’oggetto dei sensi con i sensi che lo percepiscono, congiuntamente alla coscienza immediatamente precedente, si ha il contatto (6° anello). Dal contatto sorge la sensazione (7° anello), che può produrre un effetto di diverso tipo: piacevole, spiacevole e neutro, le differenti sensazioni danno origine ad attaccamento, avversione e stato neutrale. Una sensazione piacevole sarà causa del sorgere di attaccamento e una sensazione spiacevole del sorgere di avversione.
Attaccamento, desiderio, bramosia sono fattori mentali che possono determinarsi nei confronti di qualsiasi oggetto, è la risposta mentale alla piacevolezza.
Dall’attaccamento sorge la bramosia della sensazione piacevole, che si presenta in quattro aspetti diversi:
1. la bramosia dell’ oggetto dei sensi;
2. la bramosia della visione filosofica;
3. la bramosia della moralità, attaccamento allo sforzo, alla sofferenza;
4. la bramosia dell’idea del sé.
Dalla bramosia nasce e si evolve il Samsara, si definisce l’entrare in esistenza sulla base dei cinque aggregati.
Domanda: Questo concetto non è chiaro, è un passaggio difficile.
Lama: E’ vero, ritorniamo alla traduzione inglese del testo: “Abbiamo l’ignoranza, le formazioni karmiche la coscienza, da questi tre fattori sorge nome e forma il cui sviluppo determina il contatto.
Il contatto è quindi frutto del concorso della triade - forma, coscienza e occhio -. Conseguentemente al contatto entra in azione la sensazione affettiva (piacevole, spiacevole o neutra). Condizionata dalla sensazione affettiva si crea la sete, infatti si ha sete perché si è avidi di sensazioni affettive.
L’assetato si appropria dei quattro aspetti della bramosia ed essendoci appropriazione entra in funzione, per l’appropriatore, l’esistenza.
Infatti, se non ci fosse appropriazione ci sarebbe liberazione e non si determinerebbe il ciclo samsarico dell’ esistenza”.
Quindi: dal contatto sorge la sensazione e dalla sensazione nasce la sete, o desiderio. Da questa sete nasce l’avidità ad afferrare, cioè i quattro tipi di bramosia. E’ tutto interdipendente.
Domanda: Non riesco a capire i quattro tipi di bramosia o appropriazione, non ne vedo il senso “bramosia della moralità”,-“attaccamento alla sofferenza”, ma cosa vuol dire?
Lama: La trascrizione dal tibetano a volte è impossibile, si traducono alcuni termini in modo approssimativo che può generare confusione e fraintendimento, tentiamo dunque di schematizzare il processo ripartendo dall’inizio: prima c’è l’ignoranza che determina l’azione karmica e quindi la coscienza. L’ignoranza crea azioni karmiche che lasciano impronte nella coscienza. Questi tre anelli insieme dirigono il destino della persona, la sua futura rinascita.
La coscienza ha due momenti differenti: il primo quando riceve l’impronta karmica e il secondo quando questa matura. La sua maturazione avviene con l’entrare della mente nella vita successiva, cioè con il sorgere di nome e forma, con la formazione dei cinque aggregati, (quarto anello).
Ne consegue il nascere delle percezioni sensoriali, quindi da un livello sottile si passa ad uno più grossolano, all’origine dei sensi, (quinto anello).
I cinque aggregati si sviluppano ulteriormente nella percezione del mondo esterno e i sensi, oltre a percepire l’oggetto esteriore, entrano in connessione con la coscienza e si verifica il contatto, (sesto anello).
Avvenuto il contatto, sorgono le differenti sensazioni - piacevole, spiacevole e neutrale - che intensificano progressivamente la loro potenzialità, sono come un bambino che all’inizio risponde blandamente agli stimoli, crescendo intensifica enormemente le reazioni emotive incrementando progressivamente il proprio coinvolgimento. Ciò determina inevitabilmente la discriminazione tra le sensazioni ed è questo il terreno in cui germoglia l’attaccamento. Quindi il settimo anello è la sensazione e l’ottavo l’attaccamento all’oggetto attraente che dà la sensazione piacevole. L’attaccamento intensificandosi diventa volontà ad afferrare, appropriazione, bramosia, avidità, (nono anello).
Ogni azione è condizionata da questa sete: si impiega la giornata in ufficio per poter possedere ciò che piace, si passeggia per lo stesso motivo, anche le azioni apparentemente positive sono corrotte da questo intento. Perché si è costantemente stanchi? Perché il continuo processo di afferrare, di appropriarsi, è inesauribile, faticoso, richiede sempre maggiore energia.
La bramosia è classificata in quattro tipi. Il primo è la bramosia della visione: “afferro il mio modo di pensare di vedere perché questo mi gratifica, è piacevole; afferro questa filosofia perché è buona e mi procura felicità” Ma l’afferrare una visione della vita, per quanto buona possa essere, è negativo. Anche l’attaccamento al Buddha, al Cristo, al Dalai Lama, o allo stesso Dio, è un afferrare e come tale negativo, si trasforma in mente fanatica e il fanatismo è l’opposto della liberazione, non porta al Nirvana, è causa di Samsara.
L’attaccamento alla filosofia, all’etica, a un codice morale, allo sforzo, alla sofferenza, all’io o sé, è un errore nella sua stessa essenza.
Non è l’oggetto dell’attaccamento in discussione, l’oggetto può essere il più puro e sacro, può essere buono o cattivo, questo è assolutamente ininfluente, l’errore è nell’attaccamento in sé, nella bramosia.
In questa sala siamo circondati da Tanka e statue molto belle, sono oggetti sacri ma sarebbe sbagliato esserne attaccati. A meno che non si sia già particolarmente avanzati nel cammino di liberazione dall’attaccamento è meglio non possedere troppi oggetti preziosi. Quando ero in monastero in India preferivo adornare la stanza solo con fotografie, era un modo per evitare questa trappola. Anni fa, sempre in India, durante un viaggio acquistai una statua del Buddha che, come tutte le statue tibetane, necessitava di ricevere una lunga preparazione, doveva essere riempita, consacrata, dipinta, però non me ne preoccupai e misi la statua sull’altare così com’era. Tempo dopo, monaci di passaggio esperti nella preparazione delle statue durante una cerimonia fecero tutto il lavoro. Ciò che doveva avvenire è avvenuto nel momento giusto, naturalmente, senza forzature e affanno. Bisogna lasciare che le cose accadano come e quando devono, senza caricarsi di emozioni negative quali ansia e frustrazione perché le cose non vanno come avremmo voluto.
La liberazione dall’attaccamento comporta una grande gioia. Ora quella statua è rimasta in quel monastero, forse nella stessa stanza e forse no, non ha nessuna importanza, d’altronde il Buddha non è mio o tuo, è di tutti. L’attaccamento al Buddha, al Cristo o a Dio è l’afferrare peggiore, il più pericoloso per tutti, anche per i principianti. Non vi sto dando delle regole ma, insieme, stiamo analizzando il testo nel tentativo di comprenderne ogni importante aspetto.
Tutta la nostra vita è un contatto da cui scaturiscono le sensazioni che determinano l’attaccamento il quale, a sua volta, diviene bramosia articolata nelle quattro tipologie che sono causa di Samsara in cui si svolge tutta la nostra esistenza e che saranno determinanti nella definizione della prossima rinascita, del prossimo ciclo samsarico.
Il decimo anello è il divenire, l’esistere dovuto all’afferrare che causa i cinque aggregati. Il divenire è il livello del karma che entra in maturazione a causa dell’attaccamento e della bramosia.
Il secondo anello è l’azione che pianta il seme karmico, il decimo anello è quel seme che, fertilizzato da attaccamento e bramosia, matura in quel karma. Quindi, l’aspetto che germoglia dal secondo anello è il divenire (decimo anello) che porta alla rinascita, (undicesimo anello). Il karma maturato dal quarto anello, Nome e Forma, determina il tipo di rinascita. Poiché dalla nascita derivano necessariamente morte e vecchiaia si ha il dodicesimo anello.
Ho sintetizzato una possibile spiegazione, di base, della dinamica dei dodici anelli, ma se ne possono dare altre osservate da più angolature e approfondite.
Proseguiamo con la lettura del testo:
Essendoci l’appropriazione entra in funzione per l’appropriatore l’esistenza, infatti se fosse esente da appropriazione si libererebbe e non ci sarebbe esistenza.
L’esistenza è costituita dai cinque aggregati.
Dall’esistenza procede la nascita.
Vecchiezza, morte, dolore, tristezza, lamentazioni, afflizioni, tormenti, tutto questo proviene dalla nascita.
In tal modo nasce quest’unica massa di dolore.
L’ignorante perciò, non altri, coeffettua i coefficienti, radici di trasformazione.
L’ignorante dunque, è l’agente,
non il saggio che vede la realtà.
La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti.
L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione condizionata.
L’arresto di ogni fattore precedente impedisce che il fattore conseguente entri in azione.
Quest’unica massa di dolore viene così correttamente arrestata.”
E’ di immenso beneficio studiare questo argomento comparando il testo di Nagarjuna, al 26° capitolo della “Madhiamaka Karika” con il Sutra originale del Buddha, il “Paticcasamuppada Sutra”.
Se la radice del samsara è nel secondo anello, delle formazioni karmiche, il saggio non produce azioni karmiche perché ne osserva l’interdipendenza. La distinzione tra saggio e ignorante indica proprio questa capacità di vedere, o meno, il sorgere dipendente dei fenomeni, l’interdipendenza.
Il saggio che ha una chiara idea di come si costruisce il samsara attraverso i dodici anelli, ha anche una chiara visione di come esso possa cessare, sempre attraverso i dodici anelli, semplicemente invertendone i fattori:
  1. meditare sull’interdipendenza porta alla cessazione dell’ignoranza;
  2. col cessare dell’ignoranza cessano le formazioni karmiche;
  3. col cessare delle formazioni karmiche cessa la coscienza determinata da esse;
  4. cessando la coscienza determinata dalle formazioni karmiche cessano nome e forma, gli aggregati;
  5. cessando gli aggregati cessano le percezioni basate sugli stessi;
  6. cessando le percezioni cessa il contatto;
  7. cessando il contatto cessa la sensazione;
  8. cessando la sensazione cessa l’attaccamento;
  9. cessando l’attaccamento cessa l’afferrare, la bramosia;
  10. cessando la bramosia cessa il divenire, il maturare delle cause irrigate da bramosia e attaccamento;
  11. cessando il divenire, l’entrare in esistenza sulla base del karma, cessa la rinascita;
  12. cessando la rinascita cessano vecchiaia e morte e quindi tutte le sofferenze del samsara.
Questi sono i due possibili movimenti dei dodici anelli dell’interdipendenza, quello del sorgere del Samsara e quello del suo cessare, ed è opportuno meditare su entrambi perché seguendo questo metodo analitico si ottiene una visione chiara del significato di interdipendenza.
Il testo di Nagarjuna continua:
La formazione karmica è l’origine del Samsara.
Vedendo questo, il Saggio, non produce karma,
poiché il saggio riconosce la realtà dell’origine dipendente e la realtà della Vacuità”.
La causa della cessazione dell’ignoranza è la comprensione dell’interdipendenza. Con il cessare dell’ignoranza cessa la formazione karmica”. Meditare sull’origine interdipendente causa la cessazione dell’ignoranza. Perciò arrestato l’uno si arresta l’atro.
Gli ultimi due versi:
La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti:
L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione condizionata.”
Di questi versi si hanno trascrizioni diverse tra loro, proviamo a rileggerli dall’inizio comparando il testo tibetano con la traduzione dal sanscrito e la trascrizione in italiano:
1) A causa dell’oscurità dell’ignoranza, si compiono i tre tipi di azioni che depongono le impronte karmiche nella mente che determinano le future rinascite.
1) A causa dell’oscurità dell’ignoranza si causano le vite future. Attraverso il coltivare le tre differenti azioni karmiche si procede verso il destino appropriato.
1) In vista della rinascita, l’essere offuscato di nescienza effettua dei coefficienti di tre specie e per mezzo di questi atti va verso il suo destino.
2) Le impronte karmiche determinano la trasmigrazione della coscienza che, trovata la sua destinazione, sviluppa nome e forma.
2) La coscienza condizionata dall’azione karmica entrerà in differenti reami. Entrata la coscienza, si sviluppano nome e forma.
2) la coscienza condizionata da questi coefficienti penetra in questo destino e, penetrata la coscienza, si infonde nome e forma.
3) Quando nome e forma si sono sviluppati emergono i sei sensi. Sulla base dei sensi avviene il contatto.
3) Da nome e forma vengono in esistenza le sei sorgenti dei sensi. Dalle sei sorgenti sorge il contatto.
3) Infusi nome e forma si producono i sei domini della coscienza. Apparsi i sei domini entra in azione il contatto.
4) Come la vista sorge in dipendenza dell’occhio, della forma e dell’attenzione, così la coscienza sorge in dipendenza di nome e forma.
5) Il raggruppamento di occhio, forma e coscienza è il contatto. Dal contatto sorge la sensazione.
4) e 5) Il contatto sorge da nome e forma e consapevolezza, pertanto in dipendenza da nome e forma c’è sorgere di coscienza. Dal raggruppamento dei tre: nome, forma e coscienza, avviene il contatto. Dal contatto viene in esistenza la sensazione.
4) e 5) L’occhio entra in azione condizionato da nome e forma, e, nome e forma sono condizionati dalla coscienza. Il contatto è appunto il frutto del concorso della triade forma - coscienza e occhio. In seguito al contatto entra in azione la sensazione affettiva.
6) Dalla sensazione nasce il desiderio. Dal desiderio sorge l’afferrare nei suoi quattro aspetti: oggetti dei sensi, visione, moralità, idea del sé.
6) Condizionata dalla sensazione affettiva, la sete; e infatti uno ha sete perché avido di sensazioni affettive. L’assetato si appropria delle quattro appropriazioni.
7) Dall’afferrare sorge il divenire dell’afferrante. Senza l’afferrare non c’è il divenire. Con la realizzazione del non afferrare si ottiene la liberazione. Di conseguenza non c’è divenire, entrare nell’esistenza.
7) Essendoci l’appropriazione, entra in funzione, per l’appropriatore, l’esistenza. Infatti, se fosse esente di appropriazione, si libererebbe e non ci sarebbe esistenza.
8) Entrare nell’esistenza è la formazione dei cinque aggregati. Entrare nell’esistenza è nascere.
9) A causa della nascita ci sono vecchiaia, morte, tormenti, lamenti e pene, infelicità ansietà. A causa della nascita si è sempre in uno stato di continua sofferenza.
8) - 9) L’esistenza è costituita dai cinque aggregati. Dall’esistenza procede la nascita. Vecchiezza, morte, dolore tristezza, lamentazioni, afflizioni, tormenti, tutto questo proviene dalla nascita. In tal modo nasce quest’unica massa dolore.
10) L’azione è la radice dell’esistenza ciclica. Per questo il saggio non crea impronte karmiche. Gli sciocchi, invece al contrario del saggio, che vede la realtà, creano impronte karmiche.
10) L’ignorante perciò, non altri, coeffettua i coefficienti, radici della trasmigrazione. L’ignorante, dunque è l’agente, non il saggio, che vede la realtà.
11) Con il cessare dell’ignoranza anche a produzione delle impronte karmiche cessa. La cessazione dell’ignoranza avviene per mezzo della meditazione della saggezza.
11) La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti. L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione condizionata.
12) Cessando il precedente, il successivo non accade. Allo steso modo cessa tutta la sofferenza.
12) L’arresto di ogni fattore precedente impedisce che il fattore conseguente entri in azione. Quest’unica massa di dolore viene così correttamente arrestata.

Sarebbe un buon lavoro per tutto il gruppo confrontare le diverse traduzioni e del testo di Mulakarika, cercandone il significato profondo da esprimere in modo comprensibile nel linguaggio più conforme all’era moderna.
Domanda: Le impronte karmiche prodotte prima di diventare saggi, entrano ugualmente in maturazione, oppure no?
Lama: Il saggio è colui che ha acquisito la conoscenza dell’origine interdipendente, ma non necessariamente è già l’Essere nobile, l’Arya, ha solo compreso la giusta direzione.
Domanda...Quindi le sue impronte karmiche continuano a maturare?
Lama: Poiché il saggio non ha attaccamento e bramosia, il karma precedente non può maturare, il processo si blocca naturalmente.




Non-Dualismo


E’ importante ricordare che l’origine dipendente, o originazione interdipendente, significa che le cose sorgono in virtù di cause e condizioni. Niente sorge senza causa, niente sorge con cause permanenti, niente sorge al di fuori della corrispondenza con la propria causa. Qualsiasi accadimento, qualsiasi aspirazione sorge da una causa, una causa impermanente, una causa che gli corrisponde. E’ importante studiare analiticamente e comprendere bene l’origine interdipendente, ma non è assolutamente sufficiente rimanere a questo livello, è necessario che essa venga calata nel quotidiano, in ogni esperienza, in ogni emozione.
Come nascono le emozioni? da dove vengono? come dobbiamo affrontarle? La risposta e la soluzione è una: conoscere l’origine interdipendente. La conoscenza dell’interdipendenza è la liberazione, o cessazione delle fabbricazioni mentali, il raggiungere la pace.
Realizzando la conoscenza dell’interdipendenza si ha una chiara visione della esistenza non dualistica, si supera ogni concetto discriminante, bello - brutto, buono - cattivo, piacevole - spiacevole. L’atteggiamento ignorante che induce a discriminare ogni esperienza è causa del sorgere di attaccamento, bramosia o avversione.
Nella chiara visione non dualistica si osservano i fenomeni nella loro natura, senza discriminazione, a livello ultimo. Ma la visione dei fenomeni a livello ultimo è resa possibile solo dalla piena comprensione del loro livello relativo, l’interdipendenza. Attraverso la comprensione dell’interdipendenza si giunge alla visione della realtà ultima: la Vacuità. La visione della realtà ultima conferma, o afferma, la realtà relativa. Quindi, non-dualismo significa avere la visione delle due verità. Questa è la quintessenza dell’insegnamento del Buddha ed è la quintessenza dell’insegnamento del Dharma.
Con la visione non-duale è automatico e naturale sviluppare la compassione verso tutti gli esseri viventi. Non esistendo più una reale differenza tra chi si tende ad amare e chi a non amare, c’è equanimità. Dall’interdipendenza e dalla Vacuità scaturisce naturalmente l’equanimità verso tutti gli esseri. L’equanimità è fondamentale allo sviluppo della compassione. Non si può avere compassione verso gli esseri se non c’è equanimità. Per questa ragione la comprensione dell’origine interdipendente è ciò che principalmente i praticanti Buddhisti devono realizzare.
Abbiamo visto in questi giorni come i dodici anelli dell’origine interdipendente creino il Samara e come dipendano uno dall’altro. Dall’ignoranza di causa effetto, a catena, si costruisce il Samara e, in modo inverso, dall’estinzione dell’ignoranza se ne ha la cessazione. Abbiamo constatato come dall’ignoranza, a catena, si creino le formazioni karmiche, che a loro volta producono la coscienza, e così via, quindi l’ignoranza è il punto cardine di tutto il processo.
Un’altra forma di ignoranza, descritta nell’ultimo verso, è l’ignoranza che afferma il sé, cioè l’ignoranza riguardo l’io. L’analisi di questi elementi è il bersaglio principale della teoria e della pratica buddhista. Qualsiasi cosa stiamo facendo, meditando, pregando e presentando offerte all’altare, dobbiamo sempre avere ben chiara la visione dell’ignoranza e delle sue conseguenze; se bruciamo incenso poniamoci l’obiettivo di bruciare l’ignoranza, se accendiamo lumini di illuminare la saggezza eliminando l’oscurità dell’ignoranza, se recitiamo un mantra siamo consapevoli, ad ogni sillaba, di voler eliminare l’ignoranza che afferra il sé.
Tutte le altre forme di devozione, pregare una particolare divinità per ottenere ricchezze, salute, fortuna, sono secondarie, anzi possono trasformarsi in superstizioni ed essere negative. Quando si volge la pratica per contrastare l’ignoranza che afferra il sé, tutto il resto viene di conseguenza, la compassione, l’equanimità, la Vacuità e ogni evento succede perché così deve essere senza dovercene preoccupare. Anche i Bodhisattva che hanno un forte desiderio di rinascere per il bene di tutti gli esseri, molto difficilmente potranno realizzarlo, perché sono privi di attaccamento, non hanno bramosia, non maturano più le cause della creazione del Samara.
Contrastare l’ignoranza non vuol dire sacrificarsi, martirizzarsi nella mortificazione dell’io, sopportare a denti stretti le pene degli altri, quasi dovessimo fare esercizi di altruismo, no, nulla di tanto eclatante, è semplicemente lo sviluppo consapevole della saggezza del non sé.
Una persona non è uno dei cinque elementi, non è acqua e nemmeno terra, fuoco, aria o spazio, ma non è nemmeno coscienza, non è nessuno di questi ma l’insieme di tutti. Cos’è l’IO? Non è gli elementi, ma non è nemmeno separato da essi, è l’incontro di tutti gli elementi che formano l’io, così come batacchio, campana e mano, incontrandosi contemporaneamente producono il suono. Ciò significa che l’io è qualcosa di diverso da ciò che noi generalmente afferriamo e concretizziamo.
Questi sono i diversi modi di analizzare un fenomeno: da un lato c’è quello che noi usualmente crediamo essere l’io, e dall’altro le diverse componenti che troviamo nell’analisi. C’è differenza.
Ciò non significa che l’io non esista, significa piuttosto che l’io è diverso da quello che usualmente crediamo sia, ecco un buon oggetto di meditazione, lasciar andare, non afferrare, lasciar andare…..riconoscere l’io vero è vedere il non-io. Quindi, non abbandonare l’io, ma nemmeno afferrarlo. Senza abbandonare, senza afferrare, ecco la via di mezzo. Il non-io è la verità ultima del vero io.
Con queste riflessioni concludiamo l’incontro, grazie.


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