Thursday 8 January 2015

Accumulazione di Meriti e Saggezza








Accumulazione 
di Meriti e Saggezza





Geshe Gedun Tharchin
Ritiri Assisi 2004

  










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INDICE


Parte Prima - luglio 2004

Accumulo di Meriti e di Saggezza nella pratica del Dharma
Inizio e Significato dei Ritiri
La Chiarezza della Mente
Dibattito
Gli Otto Versi di Trasformazione della mente
Accumulazione di Saggezza
Triplici Aspetti - (nuova spiegazione)

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Parte Seconda - ottobre 2004 

Accumulo di Meriti e Pratica nelle sei Perfezioni
Accumulazioni di Meriti e le sei Perfezioni
Bajan preghiera e pratica 
I tre Aspetti del sentiero e il Vangelo 
Come eliminare la sofferenza, Bodhicaryavatara
Come superare la sofferenza

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Parte Terza - Dicembre 2004

Dharma e tecniche di Meditazione

Benvenuto
Introduzione alla meditazione Shiné di calma dimorante
Tutto è Dharma
Dharmakaya
Natura e interdipendenza di tutti i fenomeni
Lakh Tong - meditazione di visione profonda
Karma, Bakti e Gyani Yoga,
Sutra del Cuore, madre di tutti i Buddha (prima parte)
Sutra del Cuore, madre di tutti i Buddha (seconda parte)
I tre Principi Theravada, sofferenza, impermanenza, non-io 
Dedica












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Parte Prima








ACCUMULO DI MERITI e di SAGGEZZA nella PRATICA DEL DHARMA









ASSISI  - Luglio 2004

Inizio e Significato dei Ritiri


Ancora una volta siamo riuniti con nuovi e vecchi amici per trascorrere insieme momenti spirituali, un’ottima occasione per condividere la comunione nello spirito dharmico, più importante degli argomenti che affronteremo. 
Assisi è un luogo così ricco di spiritualità che il solo fatto di essere qui per qualche giorno è già di per sé significativo e questa comunità, per quanto piccola, è davvero bella e speciale, basata sulla semplicità che è la beatitudine più grande. 
Nei due giorni che passeremo insieme lavoreremo per semplificare il nostro atteggiamento interiore e modo di pensare. L’aver scelto di trascorrere questi giorni insieme dimostra che è presente in noi l’attitudine dharmica di una mente semplificata, coinvolta nella pratica del Dharma, e aver raggiunto questo luogo è pratica di Dharma, e gli organizzatori dell’incontro, deciso due mesi fa, stanno praticando il Dharma da due mesi, dunque il ritiro non inizia adesso ma nel momento stesso in cui è stato concepito e ha ricevuto l’adesione dei partecipanti. 
Non è fondamentale la perfetta comprensione di ogni termine filosofico, ma è importante l’accumulazione di buon karma, di meriti di saggezza e compassione e di energia spirituale. 
L’accumulazione si suddivide in due categorie, la prima è l’accumulazione di buon karma, di energia spirituale, è l’accumulazione dei meriti che dipende in una certa misura anche da aspetti materiali. La seconda categoria invece è riferita esclusivamente ad azioni di ordine spirituale. 
Per dare un esempio della prima categoria, l’aspetto materiale, si pensi alla costruzione di templi, di immagini di esseri superiori, alla presentazione delle offerte, al supporto di un praticante o al mantenimento di un servizio di emergenza con disponibilità a prestare soccorso in situazioni drammatiche, assistere ammalati, dare aiuto e beneficare situazioni lontane non fisicamente raggiungibili. Sono infinite le situazioni che ci permettono di accumulare buon karma con azioni concrete, ed è difficile per noi immaginare il risultato di queste azioni anche perché nel mondo contemporaneo accade esattamente il contrario, si è sempre alla ricerca del tornaconto per ogni atto compiuto. Per questo motivo le figure più rappresentative della società hanno forti resistenze e difficoltà a comprendere il significato dell’accumulazione di meriti e la rifuggono decidendo che si tratta solo di follia, eppure finché lo stile di vita si conforma a visioni di mero profitto sarà impossibile sviluppare l’attitudine corretta e la ricchezza spirituale. 
Ciò che intendiamo attuare qui è differente e speciale perché non è soggetto ad una visione meccanicistica, va oltre e la supera, ed è fondamentale comprendere pienamente questo passaggio che ci permette di superare il meccanismo del mondo materialistico, catapultandoci nella spiritualità. 
La spiritualità non è l’insieme di termini filosofici ridondanti ma è la capacità di percepire al nostro interno la fiducia e la sicurezza nell’affrontare ogni situazione, una realtà che può essere costruita solo nel cammino spirituale, e non vi è scappatoia né facile alternativa di ordine materiale. Ciò significa che le qualità spirituali non hanno prezzo perché oltrepassano tutti gli aspetti pesantemente limitanti dell’esistenza immettendoci in un sentiero in grado di liberarci dalla schiavitù del mondo materialistico, un sentiero che ci fa andare oltre, pur lasciandoci a pieno titolo nel samsara. Abbiamo la capacità di essere nel mondo tecnico ma non del mondo, ne siamo pienamente affrancati e questo stesso mondo diviene la condizione che ci permette di praticare il Dharma. Senza questa libertà non saremmo altro che una componente del meccanismo che muove la materialità del mondo. 
La spiritualità è potente e invisibile e per questo nei testi spirituali si afferma che, volendo ipoteticamente osservare l’accumulazione dei meriti sotto un aspetto materiale, non basterebbero tre universi per contenerla, sarebbe come voler contare l’acqua dell’oceano con tazzine da caffè, non è possibile. 
L’accumulazione dei meriti, l’accumulazione delle qualità spirituali, l’accumulazione delle energie dei poteri spirituali sono ottenibili solo tramite la pratica del Dharma nella partecipazione alle attività materiali del mondo, non al di fuori di esse, perché siamo nel mondo, anche se non suoi schiavi. 
La grande accumulazione di meriti realizzerà le nostre aspirazioni spirituali ma, attenzione, perché può succedere che esaudisca anche qualche ambizione negativa in quanto non sempre i nostri desideri sono così chiari e puri e spesso si mischiano con qualcosa non propriamente positivo e così succede che il karma si confonda!...
La realizzazione di risultati materiali dipende dall’accumulazione di meriti e qualità spirituali. Nel mio monastero nel sud dell’India in ogni stanza abitavano circa quattro o cinque monaci, l’acqua, contenuta in un barilotto da cui ci si serviva per ogni esigenza, pulizia personale e bucato, scarseggiava sempre. Il barilotto del mio maestro era particolarmente piccolo eppure lui era sempre molto pulito, non capivo come potesse fare e avevo l’impressione che l’acqua si moltiplicasse grazie alla sua accumulazione di meriti. 
Nell’accumulazione di meriti tutto assume significato, ad esempio più persone posseggono un’identica somma di denaro, ma i risultati per ognuno di loro saranno completamente differenti come conseguenza di una diversa accumulazione dei meriti. Uno stesso cibo presentato a vari commensali risulterà così gradevolissimo e facilmente digeribile a qualcuno mentre altri non riusciranno a servirsene senza star male. In ogni situazione potete constatare queste differenze. Sul terrazzo della casa in cui vivo ci sono piante che mi limito ad annaffiare eppure capita che qualcuna secchi e ne spuntino di nuove, differenti, molto belle e, ammirandole, qualcuno ha osservato che non sono nate spontaneamente ma grazie ai semi trasportati dagli uccellini, certamente, ma io ho risposto che anche questo dipende dal karma perché non tutti gli uccelli portano i semi e non ovunque, cioè non tutto dipende solo da fattori meramente materiali, perché gli stessi aspetti materiali dipendono dall’accumulazione di meriti. E’ chiaro questo concetto? 
La seconda categoria di accumulazione di buon karma è al di là dell’aspetto materiale, si tratta di attività mentali quali ammirazione e rispetto nei confronti di qualsiasi individuo coinvolto in azioni positive, è abbastanza semplice, ma se non siamo consapevoli della forza spirituale dei nostri pensieri, facilmente ne perderemo il beneficio. L’apprezzamento, l’ammirazione e il rispetto verso chiunque compia azioni positive e nei confronti della stessa azione, unitamente alle pratiche devozionali, sono tutti fattori che contribuiscono al karma positivo, all’accumulazione dei meriti. Ogni pratica devozionale rivolta a grandi esseri, come Gesù o Buddha, permette l’accumulazione delle qualità spirituali perché esprime apprezzamento, ammirazione e rispetto, mentre atteggiamenti opposti provocheranno la drastica diminuzione delle energie spirituali e si caricheranno di forti valenze negative. 
Entrambi i percorsi, quello delle attività materiali e quello delle attività spirituali, sono i due metodi necessari all’accumulazione dei meriti e indicano come praticare il Dharma. 
Ciò vale anche per la meditazione perché, se si pensa che essa consista solo nello sforzo di rimanere immobili, se ne fallisce totalmente lo scopo che invece affonda le sue radici nell’apprezzamento e nelle due modalità di pratica.
Anche la pace mentale sorge essenzialmente dall’accumulazione di meriti. La felicità personale non dipende dai beni materiali ma dal supporto potenziale dell’accumulazione dei meriti. 
In questi giorni cominceremo a praticare nella consapevolezza dell’accumulazione di meriti, rendendo più leggera la nostra mente nella gioia e nella felicità; siamo in un luogo accogliente e bello e abbiamo anche un cuoco speciale, così c’è già un’accumulazione spontanea delle buone qualità, vi pare? Ci sono domande?
Domanda: L’apprezzamento di tutto ciò che fanno gli altri dà a noi benefici e meriti, però quando un evento positivo è conseguente ad un inganno dobbiamo apprezzare chi lo ha ottenuto in questo modo?
Lama:       Non è possibile che nasca qualcosa di positivo da un inganno.
Intervento: Con il termine “positivo” forse lei si riferiva ad un desiderio materiale appagato, ad esempio entrare in possesso di un oggetto desiderato, come trovare le chiavi di un auto e impossessarsene, ha avuto fortuna e ne gode.
Lama:     Non c’è nulla di positivo o di negativo, tutto dipende dall’atteggiamento che la persona ha assunto nell’accaduto e di come si è comportata di conseguenza, se utilizzasse quest’auto per aiutare qualcuno ci sarebbe qualcosa di positivo, ma se se appropriasse solo per scopi meramente egoistici creerebbe una doppia negatività in cui non c’è nulla di positivo. Ciò che appare buono non sempre lo è, Bin Laden bombardando le torri gemelle era probabilmente soddisfatto del successo raggiunto, ma è evidente che non vi sia stato nulla di positivo in quest’azione. 
Domanda: Forse il mio karma confuso non ha permesso che mi facessi capire subito.
Lama:    Forse devi procedere per accumulare più meriti (scherzoso). Anche la difficoltà della comprensione di realtà come la bodhicitta e la vacuità non deve spaventarci e costituire un motivo di sforzo, dobbiamo semplicemente concentrarci ed impegnarci ad accumulare meriti così da avvicinarci sempre di più a realtà che oggi appaiono confuse. 
Per far crescere una pianta non occorre tirarla con forza, la si farebbe definitivamente morire, è invece necessario prendersene cura con visione ampia, concimarla, smuovere la terra, annaffiarla. Allo stesso modo la comprensione della bodhicitta, della vacuità, della compassione non possono essere forzate, esse crescono lentamente in noi se le concimiamo e coltiviamo con pazienza. Dobbiamo accumulare meriti attraverso l’apprezzamento, l’ammirazione e il rispetto, per questo le pratiche devozionali sono così potenti ed efficaci, un ottimo metodo per accumulare meriti. 
Con un approccio esclusivamente intellettuale, anche se leggessimo migliaia di libri, non si riusciremmo mai ad ottenere la realizzazione della vacuità, essa avverrà esclusivamente e naturalmente attraverso l’accumulazione di meriti. 
Nella cultura tibetana questa pratica è comune e ogni volta che sorge un problema, una malattia o si hanno difficoltà nel compiere un’azione positiva, si riconosce immediatamente la dipendenza di tutti gli ostacoli dall’accumulazione di meriti. 
Il concetto di accumulazione dei meriti è invece sconosciuto nella società occidentale, esclusivamente concentrata sull’aspetto chimico e meccanico del mondo. Al contrario la società tibetana ignora totalmente i cambiamenti materiali, gli strumenti che potrebbero migliorare le condizioni di vita. Entrambe le posizioni sono parziali e limitate, ed è bene essere in una via di mezzo, né totalmente tibetani, né totalmente occidentali, ma trovare il giusto equilibrio tra le diverse situazioni.
Ci ritroveremo domani mattina alle 6 per la meditazione, seguirà alle 9,30 l’insegnamento e poi, dopo una breve pausa, spiegherete voi qualcosa a me, ci sarà cioè una discussione che ricorda un aspetto molto importante della vita monastica tibetana: “il dibattito”, in cui qualcuno afferma una tesi che qualcun altro deve controbattere con adeguate motivazioni. Nei nostri monasteri si dice che se tutti sono d’accordo non si tratta di un gruppo di studiosi, perché gli studiosi devono sempre avere una visione critica, un punto di vista diverso da quello di un altro e difendere la propria posizione con amore e compassione, mai con aggressività e rabbia, perché tutto deve essere fondato nella compassione e in questo modo ogni cosa è Dharma.
Particolarmente in un ritiro tutto deve basarsi sulla compassione così che ogni attività sia guidata da un atteggiamento dharmico. 




La Chiarezza della Mente


Esistono due termini tibetani tradotti rispettivamente con “Accumulazione di Meriti” e “Accumulazione di Saggezza”, entrambi condividono il concetto di “accumulazione” ed esaminando il primo abbiamo approfondito i due percorsi necessari alla sua realizzazione, uno relativo all’aspetto materiale e l’altro alle attività spirituali. Il frutto immediato dell’accumulazione dei meriti è l’energia spirituale che aiuta e supporta nel compimento delle aspirazioni positive. Abbiamo anche detto che, se l’aspetto dell’accumulazione dei meriti potesse essere mostrato fisicamente, non riusciremmo a trovare abbastanza spazio per contenerlo talmente è vasto. Il beneficio dell’accumulazione dei meriti consiste nella pace, nella gioia mentale, che sono mere esperienze, sensazioni.
E’ essenziale comprendere questo concetto, sapere cosa stiamo cercando nella vita quotidiana e come ottenerlo. In realtà il nostro desiderio è rivolto a un’esperienza della mente e, nel momento stesso in cui ne prendiamo coscienza, è comunque difficile individuarne la forma fisica corrispondente. 
Abbiamo l’impressione, apparentemente obiettiva, che una mente agente attraversi un’esperienza ma, se la esaminiamo in profondità, non troviamo alcuna separazione e differenza tra ciò che agisce e ciò che è agito. La stessa mente è la mera esperienza di un sentimento della mente che è senza forma, è un concetto metafisico, nel senso che va al di là del fisico. Il nostro desiderio istintivo è diretto a una realtà metafisica, senza forma, non collocabile in alcun luogo. Gioia, tranquillità, felicità non sono correlate a nulla di fisicamente raggiungibile, sono semplicemente tranquillità mentale. 
La calma mentale non è edificabile come un palazzo, è semplicemente un qualcosa che deve essere mantenuto calmo; come l’acqua che, non agitata, è statica, calma, tranquilla, trasparente e riflette luci e colori, se però la si scuote affiorano tutte le impurità depositate sul fondo e diventa opaca, sporca, inquinata e inutilizzabile.
La nostra mente, per quanto senza forma, è paragonabile all’acqua che non deve essere agitata ma mantenuta nella sua naturale tranquillità e freschezza, ne ha la stessa natura chiara, pura e fresca in grado di riflettere la luce. 
La meditazione, le pratiche spirituali, sono gli strumenti che ci permettono di realizzare i nostri naturali desideri, e ciò non avviene tramite una faticosa e complessa costruzione, ma semplicemente attraverso il mantenimento della tranquillità della mente, della sua chiarezza. 
La stessa capacità di mantenere la mente nella chiarezza è un’esperienza di gioia che, analizzata attentamente, mostra come non vi sia differenza alcuna tra chi esperisce e chi è esperito. Lasciare l’acqua ferma permette il riflesso di ogni immagine, allo stesso modo mantenere la mente ferma, calma, è saggezza, perché nella sua purezza tutto può essere riflesso come in uno specchio pulito. Non succede che le cose entrino nello specchio o che questi vada a prendersele ma, semplicemente, le riflette così come sono perché questa è la sua natura e la mente è esattamente così, quando è chiara riflette perfettamente ciò che ha dinanzi e questa chiarezza è la consapevolezza di ciò che è riflesso. 
Lo scorso venerdi sono stato invitato da un gruppo Zen di Roma, desideroso di ampliare la conoscenza delle pratiche tibetane, e uno dei partecipanti che aveva frequentato per un certo periodo i miei insegnamenti e che ama particolarmente perdersi in infinite elucubrazioni cerebrali, mi ha tempestato per tutto il tempo con domande complesse e contorte. Io ho risposto che nella società contemporanea così istruita, capace di leggere e scrivere, c’è sempre qualcuno che inizia a scrivere una bella storia che qualcun altro leggerà; la commistione tra i due fa si che si crei un mondo immaginario di idee e concetti che si rincorrono in una dimensione fantastica priva di ogni contatto con il mondo reale. In questo modo la gente si convince che la vita spirituale sia quella descritta nei libri e non quella vissuta tutti i giorni, ma i libri appartengono sempre a un passato, è come vedere un film sugli antichi romani e pensare che quella fosse veramente la realtà, ma ciò non è assolutamente vero, si tratta sempre di una rielaborazione soggettiva. La stessa illusione è creata nei film sul Tibet, “Sette anni in Tibet”, “Kundun” e altri, sono belle storie, modi di immaginare la realtà che però è radicalmente differente. Il tipo di approccio ai libri è simile alla rappresentazione dei film. La spiritualità effettiva non corrisponde a questa costruzione fantastica è semplicemente lasciare la mente nella sua tranquillità. Di fronte a questa mia risposta l’amico intellettuale si è trovato senza domande ma gli altri, che conoscono quanto sia contorto il suo cervello, continuavano a stuzzicarlo, “che ti succede? non hai più nulla da obiettare?” e lui rispose che, di fronte a tanta semplicità, aveva esaurito ogni possibile argomentazione.
La nostra gioia è mantenere la mente nel modo più semplice possibile, consapevoli che non c’è differenza tra la mente e l’esperienza e lasciar dimorare la mente nella pace, tranquillità, calma e gioia è in sé stessa esperienza di felicità gioia pace perché nessuna esperienza di felicità gioia e tranquillità è provocata da agenti esterni.
Esistono più spiegazioni sui modi di meditare e spesso in relazione alla calma mentale possono essere motivo di confusione, ma ciò che dobbiamo tener sempre presente è che la pratica spirituale risponde ad una nostra capacità naturale; ci sono persone non istruite, analfabete, eppure capaci di una pratica spirituale completa. Anche le definizioni più ridondanti e ammirate quali la Chiara Luce, Rigpa, Dzogchen, Mahamudra, che appaiono così complesse, in realtà si risolvono nella semplice azione di mantenere la mente nel suo stato di semplicità e di calma. Sviluppare la capacità naturale dell’essere umano è un buon modo per raggiungere l’oggetto del nostro desiderio naturale, perché tutti, istintivamente, desideriamo cose buone come la tranquillità e la pace. 
Ogni essere umano ha di base una buona natura e la possibilità di realizzare gli obiettivi senza doversi sforzare nella costruzione di elaborati edifici, semplicemente si tratta di permanere nello stato mentale tranquillo, calmo e rilassato.
Per meditare non è necessario rinchiudersi in stanze buie, in questo caso si rischierebbe solo di addormentarsi, è altrettanto inutile elucubrare fantastiche localizzazioni della mente, se pensate che sia nella testa secondo la visione occidentale, o in mezzo al petto secondo quella tibetana, non ha nessuna importanza, perché disturbare la buona natura della mente, distruggerne la naturale bellezza? Agire in questo modo significa contrastare i desideri istintivi, è frutto dell’ignoranza.
La consapevolezza dell’ignoranza è una sfida, deve essere motivo di impegno, di sforzo affinché impariamo a superarla, e la meditazione è un valido aiuto in questo compito. Le istruzioni relative alla meditazione, alle posizioni da assumere, all’oggetto, possono esserci utili o no, l’importante è permanere nella calma mentale, lasciare la mente nella sua natura, e l’accumulazione dei meriti è un ottimo supporto che si realizza a livello metafisico, spirituale, perché il nostro oggetto è un’esperienza meramente metafisica. E’ chiaro?
Risposta: Si, ma non è facile.
Lama: L’accumulazione dei meriti avviene anche attraverso attività sul piano della fisicità, nel caso di accumulazione di meriti frutto di un’azione materiale, essa durerà fintanto che durerà la produzione materiale che l’ha determinata ed è di supporto alla calma e spiritualità mentale.
Domanda: La postura durante la meditazione è così importante per l’accumulazione dei meriti?
Lama: Dipende dalla motivazione. Forse è meglio fare altri esempi su come operi l’accumulazione dei meriti e di come siano in correlazione con il nostro desiderio istintivo altrimenti, come spesso accade, ci ritroveremo ad inseguire qualcosa che non è ciò che realmente desideriamo. E’ chiaro che l’obiettivo del nostro desiderio istintivo sia metafisico, spirituale, senza forma e ciò significa che lo si può raggiungere solo attraverso un’accumulazione metafisica, così l’accumulazione dei meriti, come l’accumulazione della saggezza, è una realtà che può essere accumulata, ma non secondo modalità materiali come se si trattasse della costruzione di un edificio. Non c’è differenza tra la mente e ciò che apparentemente esperisce; mantenere la mente in uno stato di calma è mantenere la mente in uno stato di gioia.




Dibattito


Domanda 1: Circa la meditazione sull’impermanenza, non sarebbe opportuno meditare sulla propria impermanenza, piuttosto che su quella di un oggetto, una candela ad esempio? perché in questo caso ci sarebbe il pericolo di identificare la permanenza del nome con l’oggetto stesso, quando una candele si consuma la si sostituisce con un'altra e poi un’altra e così via, ma il nome “candela” rimane permanente nella nostra concezione, dunque sarebbe meglio meditare su qualcosa il cui nome non sia generico, ad esempio sul sé.
Intervento: Però spesso si ha paura della propria morte e questo può essere un ostacolo, mentre osservare l’impermanenza delle cose naturali ci fa sentire parte della natura, non più soli, ci percepiamo come parte di un tutto.
Replica:  Ritornando al mio esempio, la candela è un oggetto che visibilmente si consuma, non è come il tuo gatto o il tuo cane che, morti, non ci sono più. Tu puoi prendere un altro cane ma non è lo stesso, e per me è più semplice meditare su un oggetto che non possa essere continuamente sostituito come la candela, questo mi confonde. Io ho necessità di distinguere tra il nome generico di un oggetto e un oggetto di meditazione insostituibile; il cane che muore è finito, non puoi sostituirlo, ne prendi un altro ma non  è la stessa cosa.
Intervento: Stai facendo una separazione tra oggetti animati e inanimati.
Replica:  Non è così semplice, è piuttosto una differenza tra oggetti che hanno un sé riconoscibile, come quello specifico del cane, e oggetti generici che non hanno un sé riconoscibile nel senso comune, come appunto la candela.
Intervento: Io penso che ognuno possa scegliere gli esempi più familiari, se per te è meglio meditare su te stesso, penso vada bene così, altri possono concentrarsi più facilmente su oggetti diversi e va ugualmente bene, non mi sembra una questione fondamentale.
Intervento: Vorrei dire che il sé, che è un nome in ogni caso, è tanto impermanente quanto qualsiasi altro oggetto e alla stessa maniera della candela che è fabbricata, si consuma e finisce, così anche un sé nasce, è formato anche se in un altro modo, si consuma e finisce. Sono due oggetti rispetto alla loro impermanenza assolutamente identici.
Replica:   Certo, ma secondo me è meno percepibile nella candela perché il nome candela, lo fa essere permanente anche quando l’oggetto finisce, perché la candela in sé è qualcosa che si consuma quindi è impermanente naturalmente, la sua specificità è qualcosa che si consuma. 
Intervento: Proprio per questo ti consiglio di persistere a meditare sul sé fino a quando troverai la parola “sé” assolutamente identica nella sua impermanenza alla parola “candela”.
Intervento: Secondo me questo è solo intellettualismo semantico poco rilevante.
Intervento: Io credo che sia importante affrontare l’impermanenza in relazione alla paura della morte.
Replica:   La questione è proprio semantica perché fino a quando non riconosci la realtà di quella candela, ma solo la realtà di un nome che è un’illusione, un’etichetta predefinita, il problema esiste.
Intervento: L’esempio della candela ti permette di porne in evidenza la continua instabilità e mutevolezza. Se tu  osservassi una candela attribuendole il nome “sé” forse ne avresti una visione diversa.
Replica:     Il concetto è proprio scindere il nome dall’oggetto.
Intervento: Ogni cosa si consuma ad ogni istante, esattamente come la candela, tutto è destinato a cessare.
 Intervento: Il sé però è imperituro.
Intervento: No, il sé non è imperituro, il sé come esistenza intrinseca, come ogni fenomeno, è desinato istantaneamente a consumarsi, a cessare.
Domanda 2: Allora con la rinascita che cosa portiamo con noi? 
Intervento: Bella domanda per Geshe!
Domanda 1: Scusate, posso ritornare al mio problema poi non parlerò più di candele, però il concetto è proprio questo, vedere consumare un oggetto e scinderlo dal suo nome, candela, che è un’illusione, un’etichetta generica attribuita a tutte le candele, come se volessimo credere al suo sé mentre questo non esiste perché una candela consumata è finita, ma è un concetto scisso dal nome perché il nome candela è permanente ed è separato completamente da quella specifica candela.
Intervento: Per scollegare l’oggetto dal nome basta pensare all’interdipendenza.
Intervento: Io penso che l’“io” si consumi mentre il “sé” rimane e corrisponde a ciò che conosciamo come “anima”. 
Intervento: Nel buddhismo non esiste il concetto di anima. 
Intervento: C’è un concetto simile però.
Intervento: C’è o non c’è? Una via di mezzo forse….
Intervento: Esistono una verità convenzionale e una verità ultima, nel senso che qualsiasi fenomeno, compresa l’anima intesa come fenomeno estremamente rarefatto e spirituale privo di esistenza intrinseca in quanto non ha una sua immutabilità, dipende comunque da tutto ciò con cui entra in contatto, e in questo senso ha la sua impermanenza e la sua mancanza di sé, resta un fenomeno che possiamo definire soltanto con un nome e quindi affermare la sua esistenza a livello convenzionale.
Domanda 3: Nel precedente ritiro si è detto che la durata della vita è karmicamente determinata, ma anche ciò che accade durante la vita è esclusivamente predeterminato, oppure no?
Lama: Ogni accadimento è predeterminato al 50% dal karma accumulato nelle vite precedenti, ma il restante 50% è libero e costruito momento per momento in base alle azioni karmiche di questa vita, quindi abbiamo sempre la libertà di modificare e cambiare anche quelle situazioni che potrebbero verificarsi in base alla precedente predeterminazione. Un’automobile ha una precisa struttura con caratteristiche ben definite, ma sarà comunque il guidatore, in base alle sue scelte, che ne determinerà le prestazioni e la durata.
Domanda 4: In tutto questo c’entra anche il fatto che noi viviamo in un “tempo - spazio” relativo, costruito da noi, e che non corrisponde allo “spazio - tempo” dell’universo, e di conseguenza la determinazione del karma non è necessariamente una realtà che dobbiamo subire in modo così definitivo, ma la possiamo modificare in ogni momento con libere scelte?
Domanda 5: Nel momento in cui tutti saranno illuminati, lo spazio ancora esisterà? A che cosa servirebbe?
Intervento:  Che cosa intendi con questa domanda?
Replica: Quando tutti saranno nella natura di vacuità.
(segue un dibattito con voci sovrapposte e lontane, non trascrivibile) 
Lama: Spesso si cerca qualcosa che abbia sostanza, però se si procede sperando di trovare una realtà concreta si finisce per non trovare nulla e questa è la nostra maggiore illusione.
Domanda: Si tratta di spazi metafisici, però se ritorniamo alla quotidianità, condizionati dai problemi materiali, dalle difficoltà, dalle malattie, possiamo anche illuderci che niente esista, ma la sofferenza è la condizione normale di ogni giorno.
Lama: Sulla base dell’esistenza convenzionale.
Intervento: Ma molto dipende dalla nostra attitudine, con un’attitudine generosa e altruista soffriremo sempre meno, noi e gli altri; se nel mondo tutti pensassero un po’di più alle esigenze degli altri moltissima sofferenza cesserebbe, due terzi della popolazione mondiale patisce la fame a causa dell’egoismo e della chiusura mentale di altri, anche a fronte di risorse più che sufficienti, troppo dolore è causato esclusivamente dalle attitudini egoistiche.
Intervento: Il fatto è che spesso le persone pensano di ottenere la felicità solo nel possesso di un numero infinito di beni: una bella casa e poi altro e altro ancora, vogliono sempre di più.
Intervento: Credono di essere felici, ma non lo sono affatto!
Intervento: Si, ma questo bisogno di rincorrere continuamente nuovi obiettivi crea l’illusione della felicità e, nel momento in cui non avessero più la possibilità di farlo, si troverebbero faccia a faccia con la sofferenza.
Intervento: Tu dicevi prima che tutti i giorni ci scontriamo con la visione comune, però questo dipende dall’angolo di osservazione della realtà, perché un leone può considerarti un succulento pasto, mentre la tua donna ti vede come il padre dei suoi figli, contemporaneamente, a vari livelli, rappresenti realtà diverse, anche sul piano spirituale, puoi essere parte di cose di cui non sei ancora pienamente consapevole ma di cui puoi avere una certa intuizione. Per quanto mi riguarda la coscienza di questo aspetto spirituale mi fa conoscere un altro livello della natura in cui più realtà possono convivere contemporaneamente senza alcuna contraddizione. Non c’è nulla di staticamente definito, è un’illusione.
Intervento: Tutto questo dovrebbe indurci a non essere così attaccati alle nostre stesse sofferenze e il metodo per uscirne consiste nel non concentrarsi solo sul proprio esistere ma imparare a valutare le condizioni globali.
Intervento: Ma come fai a non attaccarti, a non focalizzare tutto il tuo essere sul dolore di una malattia nel momento in cui ne sei colpito?
Intervento: Dipende dal modo in cui tu vivi la malattia, due persone nella stessa situazione possono reagire in modi completamente diversi.
Intervento: Atteggiamenti mentali positivi possono addirittura indurre guarigioni spontanee.
Intervento: Sono comunque occasioni per poter mettere in atto la nostra capacità di pratica, per verificare quanto abbiamo realmente acquisito. Si può applicare l’accettazione consapevole della realtà così com’è, e ritornare al concetto di impermanenza e della paura della morte, concetti che in occidente si vogliono negare, non vedere. Io ho avuto i maggiori dubbi di fronte alle malattie mentali che apparentemente mostrano l’impossibilità di qualsiasi azione, però ho capito che anche in queste situazioni una certa consapevolezza profonda, anche se non evidente, è presente. Credo che anche nelle malattie mentali, nelle demenze, in realtà permanga nei livelli sottili di coscienza la possibilità di trasformare le cose apparentemente negative in positive.
Lama: Molto bene! Il dibattito è concluso.





“Otto Versi della Trasformazione della Mente”


Gli Otto Versi della Trasformazione della Mente” indicano con grande chiarezza come mantenere un atteggiamento salutare. 
La pratica del Dharma è semplice, si fonda sugli “Otto Versi della Trasformazione della Mente” che sono il punto di partenza per osservare la realtà, sono il mezzo accumulare meriti e per trasformare automaticamente la vita in Dharma. E’ un po’ come far passare il bagaglio attraverso il metal detector dell’aeroporto. 
Gli Otto Versi della Trasformazione della Mente” esprimono l’autentica perfetta realtà, senza contraddizioni, così semplice e lineare che, a coloro che posseggono sufficiente forza interiore, rende possibile la pratica completa del Dharma. E’ una pratica potente di rilassamento e purificazione che induce, anche nella sola riflessione, ad una grande accumulazione di meriti. 
Ogni essere senziente ha in sé le qualità naturali per essere apprezzato e ammirato in base all’oggetto del desiderio istintivo primario fondato sulla bontà. Poiché sia il desiderio che l’oggetto del desiderio condividono questa tendenza alla bontà si può affermare che ogni essere senziente possegga una buona qualità naturale. 
Le pratiche di compassione, bodhicitta e vacuità sono espressamente menzionate negli Otto Versi della Trasformazione della Mente” e trovano fondamento, senza eccezione, nella buona natura degli esseri senzienti. Questo è l’approccio al Dharma più semplice e al contempo più elevato ed evita cadute in pratiche eccessivamente complesse e fuorvianti, alimentate dal giudizio parziale derivante dalla fondamentale ignoranza che tende sempre a discriminare secondo categorie personali. Volendo costantemente valutare e calibrare il rispetto dovuto o no agli altri si sprecano vite intere. Concentrando ogni energia nella scelta di chi è degno di ammirazione e rispetto e di chi invece, non rientrando nei nostri schemi, ne deve essere privato, ci si allontana dalla realtà e si nega definitivamente la bodhicitta e la grande compassione.
Le classificazioni relative agli esseri superiori, grandemente realizzati, esprimono fondamentalmente due aspetti, uno indica come ottenere la realizzazione e l’altro come attuarla. 
Uno dei modi elaborati di mettere in atto le più alte realizzazioni comprende il coinvolgimento di molte persone, l’utilizzo di preziosi oggetti materiali, di una gran quantità di denaro, di brillanti colori e allestimenti, molto di tutto, ed era particolarmente in uso nell’antico Tibet; gli strumenti dovevano essere in oro, le cerimonie arricchite da costumi e danze elaborate. Però una persona posta di fronte ad un’opera così sfarzosa potrebbe concludere che vada al di là delle sue possibilità sentendosi così automaticamente esclusa da ogni possibile elevata realizzazione se dipendente dalla grandezza della messa in scena. In Tibet per essere considerati persone di grande realizzazione si dovevano possedere ingenti ricchezze ed essere anche fisicamente imponenti, come il Buddha cinese, (io dunque ne sono automaticamente escluso!... ) chissà, se fossi in Tibet magari sarei bello grasso e camminerei in modo diverso….
E’ evidente in una simile concezione la confusione tra ciò che è vero e ciò che è falso, un errore che è stato una delle cause fondamentali della distruzione del Tibet. La gente è stata fuorviata perché alcuni soggetti, manipolando le scritture sacre, hanno abbagliato con l’apparenza conferendo un senso di spiritualità a ciò che in realtà era soltanto interesse materiale e volontà di potere affermando una ingiustificata superiorità sugli altri nell’atteggiamento di casta. Ciò ha creato una incredibile confusione. Per me tutto questo è evidente perché sono cresciuto in questa società, e posso distinguere tra la manipolazione e ciò che è espressione autentica, perché esistono persone realmente realizzate che usano le stesse modalità in modo puro e spirituale, non sono di danno a nessun essere, ne tanto meno favoriscono la distruzione di un paese. E’ una questione delicata e complessa, ed è meglio affrontarla con grande prudenza, magari scherzando un po’ come abbiamo fatto oggi, sapendo però che contiene una certa dose di verità.
Il secondo modo per mettere in atto le alte realizzazione è più semplice e adottato da grandi yogi e praticanti spirituali quali San Francesco d’Assisi e Milarepa. 
Milarepa era evidentemente una persona di elevate realizzazioni anche se non grasso, né ricco e imponente e non circondato da oggetti d’oro, eppure in Tibet è riconosciuto e venerato come persona eccezionale e unica, la più coraggiosa in tutta la storia del paese; ha praticato la spiritualità in modo semplicissimo nel senso comune e ordinario. Consiglio di leggerne la biografia, è interessante e il suo messaggio è diretto, Milarepa non conosceva la filosofia. 
Ma c’è un modo ancora più semplice per attuare le alte realizzazioni ed quello di Sāntideva, un grande studioso indiano dell’VIII° secolo, tanto grande da non essere considerato nemmeno un praticante, nel monastero i suoi compagni lo giudicavano così pigro da ritenerlo inadatto a qualsiasi lavoro, si accontentava del cibo e del riparo e la sua pratica era così invisibile che gli altri lo accusavano di essere uno sfaccendato che dormiva giorno e notte. 
E’ evidente la via semplice di Milarepa, un grande praticante che con sforzi e rinunce ha percorso un cammino ascetico, semplicissimo, privo di ogni magnificenza e opulenza; eppure Sāntideva  ha un modo ancora più semplice.
Per praticare il Dharma non c’è bisogno di nulla, di nessuna agevolazione o comodità, praticare il Dharma significa semplicemente mantenere, controllare la mente. Sāntideva dice che vigilare sulla mente è vigilare su tutto, per cui il suo messaggio è ancora più diretto e immediato. 
In Tibet si sono trasmessi gli insegnamenti dei grandi maestri indiani; Milarepa ha avuto come maestro il famoso Marpa che ha avuto come maestro Tilopa il quale a sua volta ha avuto Naropa; tutti grandissimi realizzati indiani, mahasiddha, eppure osservando ordinariamente il loro modo di vita, potremmo considerarli completamente pazzi, veri hippy dell’epoca. La lettura del libro che parla degli ottanta mahasiddha indiani vi divertirà parecchio.
La pratica del Dharma non dipende assolutamente da nessuna apparenza esterna ma, esattamente come afferma Sāntideva, è vigilare sulla propria mente, su ogni cosa. La terminologia più nota che in seguito si è sviluppata in Tibet: Dzogchen, Mahamudra, Rigpa, ecc. deriva dalla tradizione indiana e, a seconda del tipo di insegnamento e della scuola, si è poi articolata nelle denominazioni che oggi conosciamo. In Tibet ogni maestro nel suo insegnamento ha sottolineato qualche aspetto e termine che ha così assunto importanza e si è diffuso in modo direttamente proporzionale alla fama dello stesso maestro diventando l’emblema distintivo, lo stendardo delle differenti scuole, ma non è questo l’aspetto importante, si tratta di illusione. 
Nel testo fondamentale di Sāntideva il “BODHICARYAVATARA”, conosciuto anche come “La guida al modo di vivere del Bodhisattva”, non esiste sfoggio di terminologia, un’ulteriore prova della preziosità e semplicità dei suoi insegnamenti, i termini utilizzati sono essenziali, i più semplici, perché la pratica di Sāntideva è la più semplice ma, attenzione, proprio per questo è in realtà la più difficile. 
Gli “Otto Versi di Trasformazione della Mente” insegnano come avvicinare e considerare gli altri, con equanime ammirazione e rispetto, senza emarginazioni, perché ogni essere ha in sé la stessa natura di bontà, una magnifica porta che permette l’accesso all’universo. 
Sāntideva, in un modo assolutamente unico di rappresentare il Dharma, afferma l’equanimità tra il Buddha e qualsiasi altro essere senziente perché, se negli Otto Versi si dice che ogni essere è uguale alla propria madre, Sāntideva fa un ulteriore passo dichiarando che il Buddha e gli esseri senzienti sono tutti degni dello stesso rispetto, hanno la stessa qualità e lo stesso valore. 
Leggiamo alcuni versi dal capitolo VI° del Bodhicaryavatara la Perfezione della Pazienza”:
“In quel caso, la pazienza è prodotta proprio in dipendenza della sua intenzione malvagia e, in quel caso, è proprio lui la causa della mia pazienza. Debbo venerarlo come vero Dharma.”
“Per questo motivo il Saggio ha detto che il campo fertile degli esseri viventi è il campo fertile dei Vittoriosi, perché molti rendendoli propizi hanno raggiunto la realizzazione e la perfezione spirituale.”
Si può raggiungere la perfezione spirituale semplicemente avendo rispetto di ogni essere vivente, ed è magnifico. I campi fertili indicati nel versetto 112 sono quello degli esseri viventi e quello dei Buddha e in essi si possono accumulare meriti. Possediamo la facoltà di accumulare meriti, accumulare saggezza, accumulare le perfezioni tramite gli esseri senzienti, cosi come tramite il Buddha, e per questo dobbiamo considerare uguali il Buddha e gli esseri senzienti, entrambi hanno la stessa qualità di produrre in noi l’accumulazione dei meriti. 
Sāntideva era davvero singolare, dormendo pensava e meditava profondamente, una buona ragione per dormire ventiquattro ore su ventiquattro!....Anche nel mio monastero c’erano monaci che imitavano Sāntideva, dormivano sempre, apparentemente molto pigri, ma in realtà buoni praticanti, persone speciali e, osservando la loro semplicità, si percepiva la loro peculiarità, non erano attratti dall’apparenza e rifuggivano da ogni manifestazione esteriore essendone anzi disturbati. 
In Europa in cui ci sono tante persone sole, i cosiddetti “single”, già liberi da impegni lavorativi, sarebbe bello se praticassero in questo modo, ci sarebbe una proliferazione di yogi in tutta Europa. La pensione permetterebbe loro di non doversi affannare per il denaro, così potrebbero dedicarsi interamente alla pratica!...Un proverbio tibetano cita: “se non hai niente da fare dedicati alla pratica del Dharma, così non ti devi preoccupare delle cose da fare”,  perché se si pratica il Dharma seriamente si diventa indaffaratissimi, ci sono moltissime cose da fare, è la magnifica caratteristica della pratica spirituale.
Domanda: Quindi un atteggiamento egoistico ti porta alla noia?
Lama: Se si rincorrono obiettivi egoistici e non li si ottengono immediatamente ci si stanca presto, ma la pratica del Dharma non ha alcuna aspettativa e quindi permette di operare in assoluta tranquillità e calma perché non c’è nulla da ricevere come ricompensa. La pratica del Dharma è basata sul non attaccamento, lasciare andare le cose, essere flessibili, semplici, felici e gioiosi. 
Continuiamo la lettura del testo di Sāntideva: 
“Se la trasmissione delle qualità di un Buddha proviene in egual misura dagli esseri comuni e dai Vittoriosi, che senso ha non rendere agli esseri comuni quell’omaggio che si rende ai Vittoriosi?”
In base alle nostre abitudini, all’usuale atteggiamento acquisito, ci inchiniamo con deferenza ai Buddha mentre non prendiamo in alcuna considerazioni gli altri esseri senzienti e ciò fa si che, se la devozione al Buddha crea indubbiamente karma positivo, l’indifferenza o il disprezzo nei confronti degli altri crea un pesante karma negativo. Solo avendo uguale rispetto per entrambi pratichiamo il Dharma e siamo in grado di trasformare l’universo in terra pura. 
Quando riusciamo a considerare tutti gli esseri senzienti uguali, preziosi, degni di rispetto come un Buddha e siamo consapevoli che grazie a loro possiamo accumulare meriti, allora qualsiasi situazione sul nostro cammino non è altri che il Buddha e, in questo modo, il nostro universo è trasformato in paradiso. 
Questa è la grande semplicità di Sāntideva nulla di raffinato, sottile, complicato e sofisticato, ma così semplice che è difficile comprenderlo.
“La grandezza dell’intenzione non deriva dall’intenzione stessa ma dal suo effetto, e dunque la grandezza è sempre uguale. In tal caso gli esseri comuni sono pari ai vittoriosi.”
Il che non significa che gli esseri senzienti abbiano le stesse realizzazioni del Buddha ma, poiché grazie ad essi possiamo raggiungere l’illuminazione, sono uguali al Buddha .
“E grandezza da parte degli esseri che sia degno di onore chi ha una disposizione amichevole, proprio come è grandezza da parte dei Buddha che il merito provenga da una serena fiducia nei Buddha.”
“Perciò, in un aspetto della trasmissione delle qualità dei Buddha gli esseri comuni sono pari ai Buddha. Certo, nessuno è del tutto pari ai Buddha , che sono oceani di virtù dagli aspetti illimitati.”
“Se da qualche parte compare anche un solo atomo di quelle virtù che sono un’unica massa dell’essenza stessa della virtù. Neppure i tre mondi sarebbero sufficienti a venerarlo”
 “Ma l’aspetto certo migliore dello sviluppo delle qualità  di un Buddha è relativo agli esseri comuni. In base a questo aspetto, si onorino gli esseri comuni”.
Lama: Come traducete in italiano la parola “Buddha”? 
Risposta:  Risvegliato.
E’ sempre difficile tradurre ogni termine nella sua pienezza. I versi tibetani sono stati costruiti sull’originale indiano con grande attenzione, conservandone intatto il significato pur cercando di mantenere lo stesso numero di sillabe del sanscrito in modo da trasmettere esattamente le modalità grammaticali e la versificazione poetica. Anche nelle traduzioni poetiche occidentali non ci si è ferma alla lettera ma si cercano sinonimi e rime che maggiormente rendano il significato contestuale originario. Perciò esistono più modi per dire Buddha e alcuni sono spesso di difficile comprensione, incapaci di trasmettere il vero senso dell’originale e soggetti a possibili fraintendimenti, ad esempio nel testo si parla di “Vittoriosi”, termine che per noi non ha molto significato, ma che nella cultura dell’epoca indicava esattamente il Buddha. In particolare la traduzione italiana del Bodhicaryavatara, dall’inglese e non dal documento originale, non è buona, è di seconda mano e non controllata da esperti. In realtà, per una buona trascrizione, i traduttori avrebbero dovuto avere una buona conoscenza delle lingue sanscrito e tibetano in modo da poter comparare i due testi e procedere poi alla stesura più fedele in italiano. 
Le traduzioni tibetane delle opere sanscrite sono state realizzate da grandi studiosi che, malgrado conoscessero perfettamente il sanscrito, si confrontavano costantemente con i maestri indiani in modo da essere sicuri di non interpretare in modo errato il significato di ogni termine. Con ciò non voglio lamentarmi della traduzione italiana ma vi raccomando di non soffermarvi troppo su eventuali difficoltà dovute a termini non usuali, cercate invece di cogliere il significato profondo che va al di là di qualsiasi traduzione.
Redigere un’opera con poca cura, seguendo solo una motivazione economica, non crea un buon karma, né ai traduttori né all’editore. I libri italiani di Dharma hanno ben poca serietà di fondo il che (aggiunge scherzando) produce praticanti molto poco seri!....
Non è certamente facile avere una traduzione fedele e perfetta, però è importante ricevere il messaggio in maniera corretta. Il libero mercato ha un aspetto positivo e uno negativo, quello positivo è che essendoci i testi li possiamo comunque consultare, e quello negativo è che sono mal fatti.
Per quanto riguarda le traduzioni dei testi in altre lingue la situazione migliore è quella della tradizione theravada che si è sufficientemente stabilizzata grazie allo scambio intenso di studiosi tra oriente e occidente, tanto che si pensa di costituire una terminologia comunemente accolta e a Oxford si sta esaminando la possibile stesura di un nuovo canone.
Al contrario il buddhismo tibetano è stato sparso in occidente come caramelle gettate ai bambini in strada, immesso di fatto sul libero mercato senza preventivi controlli. Ha avuto origine e si è diffuso dapprima in America, grazie a un Lama di origine mongola che aveva studiato in un’università americana a Lhasa. 
La diffusione del buddismo tibetano nel mondo si è avvalsa della “cortese, gentile e graziosa collaborazione” offerta dal comunismo cinese che, trovando questo splendido frutto sull’Himalaya, ha pensato che fosse veleno e lo ha gettato al di là delle montagne. Così un importante Geshe mongolo si è ritrovato in America e ha raccolto intorno a sé discepoli e studiosi che hanno costruito centri e tradotto le scritture, costituendo gruppi di studiosi in varie scuole poi potenziate anche grazie anche ai viaggi del Dalai Lama. 
La maggior parte degli studiosi americani sono direttamente e indirettamente discepoli dal punto di vista culturale e di conoscenza linguistica, non necessariamente da quello della pratica spirituale, di questo Lama. 
Ora finalmente si sta formando un gruppo di studiosi che cercano di creare un contesto idoneo alla costituzione di basi per una comune terminologia, definizione e possibilità di trasmettere fedelmente i testi nel linguaggio occidentale, è un tentativo pregevole e necessario. Contemporaneamente ci sono studiosi tibetani della nuova generazione che stanno riesaminando le traduzioni di testi classici in modo da elaborare una versione che rispecchi il più possibile l’autenticità del testo originale.
Ricordiamo però sempre che la pratica del Dharma non dipende dal linguaggio, non dalla correttezza grammaticale né poetica, è semplicemente una capacità naturale, una caratteristica naturale della mente, è una realtà impossibile da restringere in uno scritto o in un’espressione verbale, semplicemente può essere esperita, è la capacità di controllare la mente di vigilare su di essa. La mente è come l’acqua e dunque deve essere mantenuta tranquilla, ferma in modo che ne emergano naturalmente le qualità. Purificare le mente è come pulire uno specchio, mantenere l’acqua ferma che automaticamente si autopurifica, perché se la superficie dello specchio è pulita rifletterà naturalmente ogni cosa così com’è, ma se è appannato non potrà mostrare nulla, negherà la sua natura.
La pratica del Dharma non dipende da spiegazioni sofisticate, intellettuali, letterarie. 
Domanda: Nelle librerie si trovano moltissimi libri di dharma, ma qual è l’approccio più corretto?
Lama: Il modo migliore per avvicinarsi ai libri di Dharma è quello di venerarli (come in occidente con la Bibbia), fare offerte; non si abbia un’intenzione commerciale, non si deve comprare un libro di Dharma, ciò comporta cattivo karma, si può solo invitare un libro di Dharma ad entrare in casa nostra. Dobbiamo evitare la prassi ordinaria del mercato in grado di trasformare lo stesso Dharma in una questione di denaro, il rispetto per libro è importante. 
 Nella società tibetana i benefattori invitano spesso nelle case i monaci affinché leggano i sutra, trascritti su fogli staccati così da non creare attaccamento. Per i benefattori è tanto importante invitare il sangha quanto la lettura delle scritture. Però il fatto di invitare i Lama nelle case e di offrire il pasto potrebbe trasformare una benedizione in uno scambio di prestazioni e in questo caso si creerebbe karma negativo. La non attenzione alla pura intenzione spirituale è uno dei fattori negativi che hanno contribuito alla distruzione del Tibet. Un’azione inizialmente elevata può essere corrotta e la trasformazione dei Lama in impiegati al soldo dei benefattori è un fraintendimento negativo e pericoloso che allontana dalla spiritualità. 
Domanda: Acquistare libri di Dharma crea dunque karma negativo?
Intervento: Quel che conta è la pura intenzione, devi avere l’ intenzione di invitare i libri di Dharma nella tua casa e riceverli con il dovuto rispetto.
Intervento: C’è una tendenza molto interessante nata negli USA, di leggere i libri e poi abbandonarli in posti pubblici, così che altri possano usufruirne, potrebbe essere una buona idea da utilizzare con i tesi di Dharma.






Accumulazione di Meriti


Questa mattina ci concentriamo sullo sviluppo della motivazione descritta negli Otto Versi e riassunta nella bodhicitta. 
Solitamente la bodhicitta è ritenuta la più alta delle motivazioni e d’altra parte chi non ne possiede una completa conoscenza ha grande difficoltà persino ad immaginarla e la riduce a mera parola. E’ bene dunque rileggere i versi che ci indicano come sviluppare l’equa attitudine nei confronti di tutti gli esseri senzienti ordinari e di tutti gli esseri straordinari, perché, al nostro livello, questo atteggiamento appare già superiore persino al bodhicitta. 
Leggendo i versi tratti dal VI° capitolo del Bodhicaryavatara la Perfezione della Pazienza”, cercheremo di riflettere piantando nella nostra corrente mentale il seme di questo concetto. Pur non essendo un’altissima realizzazione è comunque una buona pura, semplice motivazione quella che induce un atteggiamento così sano e salutare. 
Poi procederemo con la recitazione dei “I Tre Aspetti Principali del Sentiero” e nuovamente “Gli Otto Versi di Trasformazione della Mente” 

la Perfezione della Pazienza”
 “In quel caso, la pazienza è prodotta proprio in dipendenza della sua intenzione malvagia e, in quel caso, è proprio lui la causa della mia pazienza. Debbo venerarlo come vero Dharma.”
“Per questo motivo il Saggio ha detto che il campo fertile degli esseri viventi è il campo fertile dei Vittoriosi, perché molti rendendoli propizi hanno raggiunto la realizzazione e la perfezione spirituale.”
“Se la trasmissione delle qualità di un Buddha proviene in egual misura dagli esseri comuni e dai Vittoriosi, che senso ha non rendere agli esseri comuni quell’omaggio che si rende ai Vittoriosi?”
“La grandezza dell’intenzione non deriva dall’intenzione stessa ma dal suo effetto, e dunque la grandezza è sempre uguale. In tal caso gli esseri comuni sono pari ai vittoriosi.”
“E grandezza da parte degli esseri che sia degno di onore chi ha una disposizione amichevole, proprio come è grandezza da parte dei Buddha che il merito provenga da una serena fiducia nei Buddha.”
“Perciò, in un aspetto della trasmissione delle qualità dei Buddha gli esseri comuni sono pari ai Buddha. Certo, nessuno è del tutto pari ai Buddha, che sono oceani di virtù dagli aspetti illimitati.”
“Se da qualche parte compare anche un solo atomo di quelle virtù che sono un’unica massa dell’essenza stessa della virtù. Neppure i tre mondi sarebbero sufficienti a venerarlo”
 “Ma l’aspetto certo migliore dello sviluppo delle qualità  di un Buddha è relativo agli esseri comuni. In base a questo aspetto, si onorino gli esseri comuni.”
Anche oggi ci soffermeremo sull’accumulazione dei meriti e della saggezza, ricordando le due modalità, la prima attraverso gli oggetti materiali e la seconda tramite la pratica spirituale. 
Il Buddha impartì queste indicazioni rivolgendosi in particolare ai devoti laici che non appartenevano all’ordine monastico e che, con la responsabilità della famiglia, non avevano tempo da dedicare alle pratiche spirituali canoniche. Le istruzioni erano suddivise in due modalità, nella prima erano indicati sette modi per accumulare meriti con oggetti materiali e nella seconda altri sette modi per accumulare meriti senza oggetti materiali. I sette oggetti materiali sono a loro volta raggruppati in due categorie, la prima riguarda le offerte al Sangha ed è articolata in tre fasi: 
Offrire il giardino al Sangha del monastero. Per giardino si intende un luogo aperto in cui i monaci potevano meditare seduti o camminando, discutere tra loro di Dharma in un luogo accogliente; 
Offrire oggetti di Dharma da custodire in luogo riparato;
Offrire cibo ai monaci che, dovendo dedicare ogni momento di vita alla pratica, non hanno la possibilità di procurarsi mezzi di sostentamento.
La seconda categoria riguarda le offerte in ambito sociale e si articola in quattro fasi:
Prestare soccorso in caso di necessità, un servizio pubblico ritenuto estremamente importante; 
Mettere a repentaglio la propria vita per interventi rischiosi ma urgenti, come nel caso dei terremoti. A Taiwan c’è un’organizzazione buddhista così ben organizzata da raggiungere i luoghi del disastro prima e con maggior efficienza degli enti governativi, un ottimo mezzo per accumulare meriti;
 Assistere i malati;
Offrire riparo e aiuti alle vittime di carestie o situazioni analoghe di povertà. 
Queste sono le sette indicazioni date dal Buddha per accumulare meriti con oggetti materiali.
La modalità priva di riferimenti materiali, appartenente al sentiero spirituale, è ugualmente suddivisa in sette punti. Si accumulano meriti semplicemente con il rispetto e l’ammirazione per il Buddha, seguendone con devozione gli spostamenti, ascoltando la storia della sua vita, ricevendo gli insegnamenti con attenzione e apprezzamento e ammirando con fede sincera le persone che si dedicano alle pratiche spirituali.
Seguire il sentiero spirituale è relativamente facile e non richiede un grande sforzo, per questo per i tibetani seguire gli spostamenti del Dalai Lama, accoglierlo, non è solo una questione politica o di opportunità, ma è un modo per accumulare meriti, è un po’ ciò che avviene con il Papa, tutto è un buon mezzo per accumulare meriti. Ciò che a noi risulta di difficile comprensione è la correlazione esistente tra la nostra azione e l’accumulazione di meriti e ipotizzare quale sia il beneficio che l’accumulazione dei meriti comporta. 
Le indicazioni del Buddha comprendono anche i pellegrinaggi in luoghi santi e tutte le attività correlate con la fede, ed equivalgono a partecipare a una funzione religiosa, alla Messa, accendere ceri in chiesa. Tutto ciò non lo si fa per compiacere l’essere superiore che non ne ha bisogno davvero, ma per accumulare meriti, per noi. Nella nostra ignoranza e ottusità pensiamo di compiacere il Divino accendendo una candela, ma in realtà i veri beneficiari siamo noi, noi accumuliamo i meriti. Il primo beneficio immediato dell’accumulazione dei meriti è la serenità della mente. La stessa lettura di questi bellissimi versi che sono fonte di ispirazione è un modo di accumulare meriti ed è automatico e immediato sentirsi più sereni, tranquilli, calmi, pacifici, mentre il beneficio a lungo termine è l’impronta mentale. 
Il beneficio immediato non dura a lungo, ma l’impronta lasciata dall’esperienza di serenità rimane determinando gli impulsi mentali che sperimenteremo in futuro. L’incontro tra le impronte mentali e le situazioni che di volta in volta dobbiamo fronteggiare genera l’azione mentale. Questo è un concetto fondamentale: l’azione mentale non dipende esclusivamente dalle condizioni che affrontiamo al momento, né esclusivamente dalle impronte mentali precedentemente accumulate con l’esperienze, ma è il frutto della combinazione tra i due fattori. 
Dovrebbe dunque essere chiaro come sia importante accumulare impronte mentali positive, la loro buona qualità diverrà nel futuro un’espressione mentale positiva. Non stiamo ancora parlando dell’accumulazione di saggezza, ma di accumulazione di meriti, a noi accessibile, urgente e necessaria. 
Nella società contemporanea purtroppo il concetto di accumulazione di meriti si è perso e si pensa assurdamente di potersi concentrare direttamente sull’accumulazione di saggezza. Pretenderemmo, in un sogno impossibile, di diventare sapienti in un istante, magicamente, senza previa accumulazione di meriti, ma ciò indica semplicemente che non si ha alcuna conoscenza di come funzioni in realtà. 
L’accumulazione di saggezza non la si può ottenere forzando un determinato oggetto, può solo maturare e crescere in conseguenza alle cure che riceve. Se si vogliono delle mele non si può ordinare all’albero di produrre immediatamente i frutti, bisogna predisporre le cause affinché l’albero possa far germogliare i fiori che si trasformeranno in frutti che saranno pronti solo a maturazione completa. La pazienza è un aspetto assolutamente carente in questa società, si pretende di avere una grande saggezza con una piccola pazienza, impossibile!
Dunque l’accumulazione dei meriti è la pratica fondamentale, perchè determina le impronte mentali pratiche, positive. Ecco perché i tibetani come mia mamma, pur avendo pochissimo tempo libero, trascorrono la giornata con il mulino di preghiere in una mano e il rosario nell’altra recitando mantra, è un modo di accumulare meriti. 
Domanda: E funziona?
Lama: Funziona se lo si fa con cuore sincero.
Lo stesso atteggiamento vale nel cattolicesimo, se si va a Messa, si recita il rosario e le preghiere senza fraintendimenti, sinceramente, si accumulano meriti con altrettanta potenza. Bisogna essere attenti, consapevoli, non fraintendere pensando che solo recitando mille volte l’Ave Maria ne siamo purificati automaticamente, se manca l’intenzione corretta tutto è assolutamente inutile, è un errore credere che l’atto meccanico della recitazione sia sufficiente alla purificazione e si vanifica ogni la spiritualità. 
Le preghiere, i mantra recitati meccanicamente non servono assolutamente a nulla, sono solo superstizione. In un documentario in cui sono raccolti vari interventi del Dalai Lama si vede Sua Santità che sgrana il rosario recitando il mantra “Om Mani Peme Hum” ma, giocando sul fatto che in inglese “money” (denaro) ha la stessa pronuncia del tibetano “mani” il Dalai Lama ridendo recita “money… money…”, e utilizza questo scherzo per sottolineare l’inutilità di certe pratiche non autentiche. 
Se si pensa di ottenere dalla recitazione continua dei mantra dei benefici mondani si compie un’azione inutile e sciocca che favorisce solo l’istupidimento. Io ricordo sempre ai miei amici che il Dharma è diretto alla liberazione e non agli interessi mondani, se si vuole usare il Dharma per interessi materiali se ne fa un cattivo uso e lo si trasforma in dharma mondano che produce karma negativo. E’ chiaro il concetto di accumulazione dei meriti? 
Ricapitolando, i benefici dell’accumulazione dei meriti hanno un effetto immediato che consiste nell’avere una mente serena, rilassata, fresca e, ancor più importante, a lungo termine depositano le impronte mentali, fondamentali per il cambiamento della mente che avviene molto lentamente attraverso la ripetizione costante e paziente di azioni mentali positive; poco alla volta, con pazienza, tutto diverrà più semplice e facile. Non bisogna cercare di cambiare le cose ma solo depositare buone impronte mentali attraverso l’accumulazione di meriti. Semplice, no? 
Le pratiche devozionali sono veramente importanti e in molte religioni se ne enfatizza la centralità. Sono fondamentali per il proprio sviluppo spirituale perché non si può cambiare improvvisamente, ma lentamente, mattone dopo mattone, attraverso l’accumulazione dei meriti che depositano buone impronte mentali e sono un ottimo mezzo abile di trasformazione della mente, accessibile a tutti. Se ci limitassimo ad aspettare che la nostra mente cambi all’istante, semplicemente perché qualcuno accende un interruttore, non otterremmo nessun risultato e ci chiederemmo tutto il tempo perché il nostro maestro ancora non abbia schiacciato quel bottoncino che miracolosamente risolverebbe ogni problema. Che razza di pratica sarebbe quella in cui noi non dobbiamo fare assolutamente nulla e restare semplicemente in attesa che il nostro maestro faccia tutto il lavoro?
E’ essenziale conoscere il percorso da seguire nel suo complesso, avere una visione globale dei passi da compiere, consci che nessuno può realizzarne l’obiettivo in un istante. La comprensione completa del cammino è necessaria perché se è lacunosa possono sorgere in noi confusioni, ma, pur avendone una corretta idea generale non significa che l’obiettivo sia vicino, vale sempre il detto: “guarda lontano e cammina piano”. Guardando lontano si ha la possibilità di avere la visione ampia del panorama, vedere tutta la prospettiva della strada e di conseguenza predisporsi con serenità e tranquillità a percorrerla tappa dopo tappa, se invece si pretende di correre per raggiungere immediatamente il punto più distante ci stancheremo subito e inciamperemo rovinosamente.
Addentrarsi nella pratica spirituale richiede una visione prospettica e contemporaneamente la serena pazienza che ci fa camminare con passo regolare e sicuro. 
Un altro proverbio tibetano recita: “gli occhi devono guardare il più lontano possibile e la mente deve essere il più rilassata possibile” che, in altri termini, significa che la visione deve avere saggezza e il cuore deve avere compassione, visione di saggezza e cuore di compassione, o visione saggia e cuore compassionevole. 
Tutto è giovevole e questi stessi incontri, lo scambio che ne scaturisce, sono un ottimo modo per accumulare meriti.
La prima volta che tornai in Nepal a casa, rispondendo ad una domanda di mia madre, le dissi che qui davo insegnamenti di Dharma e lei se ne rallegrò immediatamente commentando che questi erano i momenti in cui certamente stavo meglio perché avevo la gioia di potere rendere gli altri felici. Nella sua semplicità, in un unico istante, mi ha trasmesso tutta la sua esperienza mostrandomi che in ogni situazione di Dharma lei si sentiva serena, tranquilla e felice. Queste sue parole mi hanno aiutato a comprendere meglio la situazione che gli altri vivevano negli insegnamenti e io stesso, come figlio, ne traevo un beneficio immediato nella consapevolezza di aver reso più felice la mia mamma, nell’aver contribuito alla sua gioia interiore. E’ un buon modo di condividere nello scambio la gioia derivante dal Dharma, nella reciproca accumulazione di meriti. Tutto esiste nella natura della realtà interdipendente, non dipende né da me, né da voi, né dal luogo in cui ci troviamo, è l’insieme di più aspetti positivi dei fenomeni.
Nella natura interdipendente della realtà non c’è nulla da biasimare, non esiste un “nemico” con cui prendersela, si tratta sempre di situazioni collettive, di responsabilità collettive, tutto deriva dall’insieme di concause. Se cerchiamo di identificare la singola ragione, la singola condizione di origine dell’apparenza di un determinato fenomeno, non riusciamo a individuare un'unica causa, non possiamo rintracciare una singola causa permanente, né trovare cause indipendenti perché le stesse cause dipendono da altre cause, in una costante interazione di cause e condizioni collettive che determinano un risultato, non è una questione isolata che riguarda questa o quella condizione, ma è l’interazione fra di esse. 
Questo vale anche per l’accumulazione di meriti, una forma di energia che nasce dall’interazione di cause e condizioni, sofferenza, felicità, gioia e mille altre situazioni, risultato dell’interazione di cause e condizioni. 
Nel momento in cui iniziamo a comprendere, a realizzare questa realtà, cominciamo a capire che le cose sono modificabili, che c’è una possibilità di cambiamento e che abbiamo la capacità di praticarlo, ma ugualmente ciò non potrà, in nessun caso, verificarsi istantaneamente. E’ necessario distinguere tra la conoscenza della possibilità di cambiare e l’effettiva realizzazione del cambiamento, che non avverrà istantaneamente ma solo al compimento dell’intero percorso. Questa consapevolezza ci permette di procedere sistematicamente, con gioia, calma e tranquillità.
Domanda: Nella vita quotidiana l’intenzione altruistica è di per sé accumulazione di meriti o è semplicemente pratica di Dharma? Le accumulazioni descritte nello schema articolato nelle sette caratteristiche spirituali danno indicazioni precise, ma agire con la semplice intenzione altruistica è già sufficiente?
Lama: La stessa accumulazione di meriti è pratica di Dharma. 
Domanda: In un precedente insegnamento mi ha colpito una tua affermazione a proposito dell’intenzione altruistica, quando hai citato l’esempio del bere semplicemente un bicchiere d’acqua che, se fatto con l’intenzione di offerta a tutti gli esseri, diventa pratica di Dharma. 
Lama: Infatti la pratica di Dharma dipende dall’intenzione, non si tratta di ciò che si beve, ma dall’intenzione che si pone nell’azione.
Domanda: Ho sperimentato in questo insegnamento una ricaduta immediata, ad esempio in autobus, quando si è accalcati e scomodi, la situazione si ribalta completamente se ci si concentra nell’intenzione di offrire ogni disagio per il bene degli altri, piuttosto che rimanere paralizzati nel fastidio della situazione. La differenza è veramente sostanziale in grado di cambiare la vita.
Lama: Beneficio immediato.
Domanda: Ma se sull’autobus avessi davvero l’intenzione di offrire il posto ma sei così stanco che ti è impossibile porla in atto, la sola intenzione conta ugualmente?
Intervento: A me è successo, l’intenzione era autentica, ma ero così sfinita che fisicamente non riuscivo ad alzarmi, penso però che già quest’intenzione sia una piccolissima pratica, perché ho preso coscienza della possibilità, ho sinceramente desiderato farlo, non mi sono barricata in una totale chiusura e indifferenza e, come Geshe ripete sempre, noi dobbiamo praticare rispetto alle nostre possibilità.
Intervento: E’ bello perché tutti questi insegnamenti sono uguali agli insegnamenti cristiani, quando ero piccola le suore ci ricordavano che mangiando ogni boccone lo si poteva mentalmente dedicare a qualcuno.
Lama: Il Dharma, la spiritualità e la meditazione sono elementi comuni e universali in tutte le religioni. 





Accumulazione di Saggezza


L’accumulazione dei meriti appena descritta costituisce il fondamento per l’accumulazione della saggezza. Con il termine “Saggezza” si intende la “Consapevolezza della Verità”, visione opposta all’ignoranza, l’esatto contrario di ciò che l’ignoranza percepisce. Ignorante deriva da ignorare, nostro atteggiamento usuale, ignoriamo le cose buone per tuffarci in quelle nocive. 
La naturale motivazione sarebbe quella di accogliere il positivo, che ci fa bene, ignorando il negativo che produce sofferenza, però nella prassi ordinaria facciamo esattamente il contrario, non intenzionalmente, ma seguendo l’abitudine dell’ignoranza che consiste nell’assenza di consapevolezza.
Il conflitto maggiore dell’esistenza si fonda sulla sempre alimentata contrapposizione tra l’intenzione e l’abitudine; è come avere due menti nello stesso corpo e ricorda alcune sperimentazioni scientifiche effettuate negli anni settanta su pazienti epilettici sottoposti alla separazione dei due emisferi cerebrali tramite la scissione chirurgia del corpo calloso con risultati assolutamente paradossali, le due parti del corpo agivano separatamente come se fossero comandate da due cervelli distinti e scoordinati, fuori controllo del soggetto che, pensando di afferrare con la mano una penna, la portava invece alla gola in una morsa mortale. 
La storia sembra ridicola ma in realtà è tragica e noi viviamo esattamente questa condizione, rischiamo di ucciderci nella costante contraddizione tra l’abitudine e l’intenzione, perciò è necessario essere sempre essere vigili e attenti a sviluppare la forza della motivazione riducendo quella dell’abitudine.
Tutti hanno naturalmente buone intenzioni, nessuno parte con intenzioni nocive, quindi l’ostacolo non è determinato da cattive intenzioni ma da cattive abitudini, per questo il Buddha richiama costantemente alla consapevolezza, alla presenza mentale, unico vero antidoto all’abitudine causata dall’ignoranza. Nella consapevolezza e presenza della mente, l’abitudine non ha più spazio, si annulla automaticamente.
La saggezza non è la conoscenza di argomenti filosofici, ma è semplicemente la consapevolezza che automaticamente elimina l’ignoranza.
La presenza della consapevolezza induce spontaneamente la presenza della bontà. La presenza della consapevolezza è la pratica del Dharma. L’accumulazione dei meriti rafforza la presenza della consapevolezza. La presenza della consapevolezza non può avvenire istantaneamente ma la si ottiene passo dopo passo, attraverso l’accumulazione dei meriti, delle impronte mentali che, una dopo l’altra, la rafforzeranno nella nostra mente permettendoci di allontanarci dall’ignoranza.
L’accumulazione della saggezza consiste principalmente nella presenza della consapevolezza e nella presenza mentale il cui ottenimento è favorito dalla meditazione concentrata sul singolo punto, la meditazione silenziosa. Quando la mente è silenziosa, calma, pacifica automaticamente sorge la presenza della consapevolezza. Più la mente è calma, tranquilla e silenziosa maggiore è la presenza della consapevolezza, quindi l’accumulazione dei meriti, congiuntamente alla meditazione silenziosa, determinano l’accumulazione della saggezza. 
Questo è il modo per purificare la mente: diventare un’unica persona pacifica invece di lasciar coabitare in noi due individui contrapposti, e spiega la ragione per cui le due accumulazioni sono assolutamente essenziali alla crescita spirituale, effettiva e autentica.
Lo sviluppo delle due accumulazioni non dipende da una tradizione particolare, da un programma sistematico, ma semplicemente si tratta dell’attivazione di una capacità naturale umana, comune a tutti che devono impegnarsi in quanto nati per praticare il Dharma e in esso avvicinarsi al compimento del loro destino di esseri umani. Gli esseri umani nella pratica del Dharma sono felici e buoni, al contrario, al di fuori di essa sono infelici, sempre arrabbiati, avvolti nella pesante negatività. 
Questi sono indizi che indicano chiaramente che siamo fatti per il Dharma, per la pratica spirituale e, nella postura meditativa, siamo perfetti, pienamente formati, adatti a rimanere in questa condizione. Siamo naturalmente rilassati, buoni, e le persone che ci osservano ne apprezzano la bellezza. Un altro indizio è il nostro sorriso quando siamo felici, così evidente a tutti, ciò significa che siamo fatti per sorridere e non per mostrare rabbia, perché quando siamo arrabbiati gli altri fuggono da noi, si allontanano velocemente trovandoci estremamente sgradevoli. Esistono speci che in determinati periodi sono formate per manifestare rabbia perché nel momento in cui esprimono questa aggressività possono mostrare la loro vera natura, la loro caratteristica e bellezza, per loro sorridere è un segno di debolezza, mentre per gli esseri umani sorridere è un segno di forza e la rabbia è un segno di debolezza.
Sono infiniti i segni e gli indizi che dimostrano come noi siamo fatti per la pratica spirituale meditativa e questa è la ragione per cui dovremmo dedicare il maggior tempo possibile al Dharma, alla spiritualità, alla meditazione. E’ il sentiero, il metodo appropriato, per avvicinarci alla nostra natura, è ciò che intendeva mia madre dicendo che nel momento in cui davo insegnamenti di Dharma ero nella condizione migliore sia per me che per gli altri, perché facevo esattamente quello per cui ogni essere umano vive. Mia madre ha realizzato questo principio ben prima di me inducendomi a riflettere profondamente e a realizzarne la realtà. 
La pratica spirituale non può essere ridotta a mero concetto intellettuale, è comprensione che nasce dall’esperienza umana, dalla nostra interiorità. Chi pratica il Dharma è in grado di assimilarlo, di comprenderlo meglio di chi si limita a leggerne e scriverne libri. Nella società moderna sarebbe opportuno ridurre la lettura di tanti libri sul Dharma cominciando invece a praticarlo con maggiore intensità e serietà. Non è necessario tuffarsi nella lettura di tutto quel che capita e ricordatevi il libro di Dharma non è mai “comperato”, ma invitato con il dovuto omaggio ad entrare nella nostra casa e deve essere trattato con il massimo rispetto, letto con la dovuta attenzione. Rendere offerta e omaggio a un libro di Dharma è già una pratica. 
Non esiste differenza alcuna tra l’apprendimento teorico e la pratica del Dharma, perché se non lo si pratica non si può imparare nulla.




Triplici Aspetti - (nuova spiegazione)



I tre Aspetti Principali del Sentiero
di Lama Tsong Khapa Lobsang Drakpa 

Porgo omaggio ai venerabili Lama.

Spiegherò, come meglio posso,
il significato essenziale di tutte le Scritture del Buddha,
il sentiero lodato dagli eccellenti Bodhisattva,
la via d’accesso per il fortunato che anela alla liberazione.

Coloro che non sono attaccati ai piaceri dell’esistenza mondana,
coloro che si sforzano per rendere utili le circostanze favorevoli e la fortuna,
coloro che propendono per il sentiero che compiace Buddha ,
questi fortunati dovrebbero ascoltare con mente attenta.

Senza una rinuncia completamente pura,
non vi è modo di frenare l’ardente ricerca di piaceri nell’oceano dell’esistenza.
Inoltre, l’attaccamento all’esistenza ciclica imprigiona completamente gli esseri incarnati.
Quindi, sin dall’inizio, bisognerebbe cercare di realizzare la rinuncia.

Le circostanze favorevoli e la fortuna sono difficili da ottenere
e la vita non è lunga,
familiarizzando con ciò, si elimina l’attaccamento alle apparenze di questa vita.
Riflettendo costantemente sul karma e sui suoi inevitabili effetti
e sulle sofferenze del samsara,
si elimina l’attaccamento alle apparenze delle vite future.

Se, avendo meditato in tal modo, non nasce nessun desiderio
per i piaceri dell’esistenza ciclica,
e se costantemente, giorno e notte, sorge un’aspirazione alla liberazione, 
allora la rinuncia è stata generata.

Tuttavia, se questa rinuncia non viene unita alla generazione
di una completa aspirazione alla più alta illuminazione,
non diverrà causa della meravigliosa beatitudine dell’insuperabile Bodhi.
Perciò il saggio dovrebbe generare il supremo Bodhicitta.

Gli esseri samsarici vengono trascinati dalla corrente dei quattro potenti fiumi,
sono legati con le strette catene del karma, difficile da eliminare,
sono entrati nella gabbia di ferro dell’attaccamento al Sé,
sono completamente oscurati dalle fitte tenebre dell’ignoranza,

nascono nell’esistenza senza limiti, e nelle loro nascite
vengono incessantemente torturati dalle tre sofferenze.
Riflettendo in tal modo circa la condizione delle madri che si trovano in tale stato,
genera la suprema intenzione altruistica di divenire un Risvegliato.

Se non possiedi la saggezza che comprende la vera natura delle cose,
sebbene tu abbia sviluppato la rinuncia e la bodhicitta,
la radice del samsara non può essere estirpata.
Quindi, impegnati intensamente per realizzare l’origine interdipendente.

Colui che vede come inevitabile la realtà di causa ed effetto di tutti i fenomeni
nel samsara e nel nirvana,
distrugge totalmente ogni percezione errata
ed è entrato nel sentiero che compiace i Buddha.

Fin quando le due realizzazioni, quella delle apparenze,
ovvero l’inevitabilità dell’origine interdipendente
e quella della Vacuità, ovvero la non-asserzione,
vengono considerate separate, non vi è ancora la realizzazione 
del pensiero di Buddha Shakyamuni.

Quando le due realizzazioni esistono simultaneamente, senza alternarsi,
e la semplice percezione dell’inevitabilità dell’origine interdipendente eliminerà
la concezione di un’esistenza intrinseca,
allora l’analisi della visione è completa.

Inoltre, l’estremo dell’esistenza è eliminato dall’apparenza,
e l’estremo della non-esistenza è eliminato dalla Vacuità.
Se comprenderai che la Vacuità appare come causa ed effetto,
non sarai preda delle visioni estremiste.

Quando avrai realizzato correttamente 
i punti essenziali dei tre aspetti principali del sentiero,
dimora in solitudine e genera il potere della perseveranza entusiastica.
Raggiungi presto la tua meta finale, figlio mio.

***

I tre aspetti principali del sentiero che conduce all’illuminazione sono la Rinuncia, la Mente dell’Illuminazione, ovvero la Bodhicitta, e la Saggezza che realizza la realtà ultima.
Rinuncia” in tibetano esprime “la mente che desidera ottenere la liberazione”, ha dunque un significato assolutamente diverso da quello comunemente inteso in italiano, non è una negazione ma, al contrario, l’affermazione della mente che desidera ottenere la liberazione dal samsara. La traduzione italiana è fuorviante, soprattutto per chi vi si accosta per la prima volta, anche se la parola ha effettivamente in sé un aspetto di negazione perché nell’auspicare la liberazione dal samsara si nega implicitamente al samsara un valutazione positiva, però non lo si respinge nella sua essenza. Non desiderare il samsara non implica il suo rifiuto, né lo carica di accezione negativa.
Nel buddhismo il termine “rinuncia” deve essere inteso come la mente che desidera la liberazione dal samsara, però ottenibile soltanto nel samsara, attraverso le pratiche samsariche, indispensabile supporto per raggiungere il nirvana. 
Prima di raggiungere il nirvana dobbiamo realizzare vari passaggi samsarici, realtà innegabile ed essenziale. Ottenere determinate qualità samsariche significa conquistare i mezzi che conducono al nirvana; il samsara è una sorta di fonte, di campo che, coltivato, produce il nirvana. 
La Rinuncia non nega assolutamente il samsara, al contrario vi conferisce valore perché solo l’esercitazione nel samsara produce il nirvana, senza negazione, ma attraverso l’utilizzo degli elementi samsarici che diventano i mezzi che conducono al nirvana. Esercitarsi nel samsara, nella sofferenza, nella confusione, permette che ne possiamo cogliere tutta l’essenza.
Una corretta comprensione della rinuncia ci mostra il significato della vita, dell’esistenza samsarica, ci permette di vedere che tutta la confusione, i problemi che dobbiamo affrontare assumono significato perché tutto è un mezzo che porta al nirvana. 
Siamo nel samsara, senza essere prigionieri del samsara, senza desiderarlo, con un atteggiamento mentale che ci permette di trasformare il samsara in strumento per ottenere il nirvana seguendo un processo naturale. La rinuncia non è avocare a sé tutte le sofferenze del mondo, macerarsi in esse, ma accogliere consapevolmente ogni situazione. 
Domanda: Non è nemmeno rinunciare a quelle poche cose gradevoli che ci sono?
Lama: Se si riesce a farlo senza desiderio, senza attaccamento, va bene, altrimenti non potresti né mangiare né bere, che senso avrebbe? E’ semplice e chiaro comprendere cosa sia la rinuncia.
La rinuncia nega che vi possa essere desiderio e attaccamento per gli oggetti samsarici ma non nega il fatto di essere nel samsara: La rinuncia ci permette di rimanere nel samsara in modo leggero, non appesantiti da fardelli.
Questa è una realtà che possiamo anche indicare come “la via di mezzo”. Ultimamente sto particolarmente focalizzando le pratiche di Dharma nella prospettiva della “Via di Mezzo”, perché nel Dharma ogni pratica, pensiero, meditazione, si colloca sempre in un punto centrale, compiuto, in cui rimanere in perfetto equilibrio in una posizione solida, ferma, che non ci lascia cadere in atteggiamenti estremi, già di per sé instabili in quanto totalmente dipendenti dalle condizioni in cui si formano.
La posizione della rinuncia descritta nel testo è salda, ben strutturata, e si ha l’impressione che sia l’unica praticabile e, quando nella realtà quotidiana dobbiamo affrontare tante diverse situazioni, adottando il criterio della via di mezzo, verifichiamo inequivocabilmente che la rinuncia può essere praticata in molti modi, secondo le esigenze che le differenti circostanze comportano, le modalità sono molteplici ma la sostanza non cambia.
La prospettiva della rinuncia nell’ottica della via di mezzo ci permette, in qualsiasi situazione della vita, di non cadere mai negli eccessi, ci stabilizza in una posizione centrale, impedendoci cadute rovinose perché è equidistante dagli estremi.
Qualsiasi evento o attività affrontiamo nella vita generalmente non fa altro che moltiplicarsi divenendo fonte di ulteriori problemi e difficoltà, ma la visione della via di mezzo, della rinuncia nella via di mezzo, fa si che tutte le situazioni si trasformino in mezzi atti a ridurre i problemi, anziché potenziarli, e le avversità non produrranno altre difficoltà. Non neghiamo le difficoltà, non ci contrapponiamo ad esse, ma possiamo trasformarle in vero aiuto a noi stessi, al nostro sviluppo. 
Un’analisi precisa permette, nel contesto della realtà interdipendente, di osservare la rinuncia nella prospettiva della via di mezzo, evitandoci di rimanere incastrati in interpretazioni parziali.
La pratica della rinuncia deve essere autentica e positiva, perché se la si fonda sul disgusto del samsara, sulla stanchezza e con desiderio di allontanarsene velocemente, in realtà ci si incatena ancor più saldamente al samsara, in una pratica veramente bassa che può solo accrescere la nostra insoddisfazione. E’ come se abitassimo in una casa senza goderne le comodità, restandovi con disagio e con il solo desiderio di uscirne. Un simile tipo di rinuncia è disastroso e vano. 
L’unica possibilità di raggiungere il nirvana è vivere gioiosamente il samsara in una rinuncia equilibrata, nella via di mezzo, inserita nella società contemporanea altamente tecnologica, godendone i benefici senza farne un fardello, trasformandoli anzi in cause e condizioni propizie all’ottenimento del nirvana nel minor tempo possibile. 
Questa consapevolezza non nasce da elevate realizzazioni ma semplicemente dalla mia piccola esperienza. Non ero soddisfatto dal concetto di rinuncia come disgusto per il samsara, per cui ho iniziato a riflettere sulla possibilità che “rinuncia” sia riferita ad una realtà più vasta, soprattutto se la si colloca nella prospettiva della via di mezzo. 
La comprensione della via di mezzo emerge dalla cognizione esatta dell’interdipendenza della realtà, osservabile in ogni situazione della vita, sia felice che infelice. 
La consapevolezza dell’interdipendenza in ogni momento dell’esistenza ci permette di affrontare positivamente qualsiasi difficoltà e la rinuncia deve essere accolta per ciò che è, un prezioso strumento. Allora, il termine originale tibetano “rinuncia” è…… ? 
Risposta: “La mente che desidera la liberazione dal samsara”.
Lama: E questo nega il samsara, o no?
Risposta: No.
Nella visione della via di mezzo la rinuncia è la mente che desidera la liberazione dal samsara, che non nega il samsara, pur aspirando al nirvana, anzi è lo strumento per realizzare il nirvana.
Nel testo riguardante i tre aspetti del sentiero si descrive un modo estremamente efficace come attuare la rinuncia secondo la visione della via di mezzo e della realtà dell’origine interdipendente.
La comprensione della rinuncia è fondamentale per trattare se stessi in modo appropriato prendendosi cura della propria vita. La pratica della rinuncia favorisce la focalizzazione dei reali benefici donandoci una visione chiara dell’esistenza e salvandoci dalle cadute negli estremismi. 
Il secondo passo è applicare esattamente la stessa visione nel prenderci cura degli altri, un’attitudine che genera la compassione fondata sulla via di mezzo nella realtà interdipendente. Così come gestiamo la rinuncia per noi stessi, in funzione del nostro lavoro, della nostra esistenza, dobbiamo rivolgere agli altri la stessa attenzione nella visione della via di mezzo in modo da generare compassione senza eccedere in alcun estremo.
La rinuncia è il modo corretto di prenderci cura di noi stessi e la compassione è il modo corretto di prenderci cura degli altri. La compassione rivolta agli infiniti esseri senzienti senza distinzione, con equanimità, sviluppa la “Grande Compassione”. 
Il secondo aspetto dei versi del testo è la Bodhicitta o Mente di Illuminazione, propria di coloro che, non solo soccorrono gli esseri senzienti con compassione, ma li aiutano e accompagnano nel cammino verso l’illuminazione. 
Il terzo passo è la Saggezza che realizza la Vacuità, detta anche dire Saggezza che vede la natura interdipendente della realtà. La radice del samsara non può essere estirpata fino a quando non si realizza la rinuncia, la bodhicitta, e la saggezza che comprende la realtà ultima dell’esistenza delle cose, vacue di esistenza intrinseca. Per poter essere realmente di aiuto a se stessi e agli altri è necessario che entrambe siano presenti e dunque bisogna impegnarsi intensamente sul piano dell’origine interdipendente. 
La rinuncia, come la bodhicitta, sono un’intenzione, e soltanto nella saggezza della visione della realtà interdipendente si ha la chiara indicazione del sentiero da seguire verso l’illuminazione. La realizzazione dell’origine interdipendente ci permette al tempo stesso di gestire nella via di mezzo sia la bodhicitta che la rinuncia. La via di mezzo non è una posizione statica, ma si modella in base a condizioni e situazioni. Nemmeno la pratica della compassione e della rinuncia sono rigide e immobili, ma dipendono dalle circostanze.
In questa breve analisi abbiamo affrontato la rinuncia, la compassione, la grande compassione, la bodhicitta e la saggezza della realtà interdipendente.
Domanda: Potresti chiarire il concetto di interdipendenza?
Lama: Due oggetti all’interno del fenomeno interdipendente sono contemporaneamente presenti e interdipendenti. Volendo definire l’immagine dei punti cardinali, diciamo che una montagna è a est e l’altra ad ovest, descrivendole come entità e situazioni separate, ma in realtà sono interdipendenti, perché non potrebbe esistere il nord se non ci fosse il sud né l’ovest se non ci fosse l’est, dipendono uno dall’altro ed esistono contemporaneamente, senza l’uno non potrebbe esistere l’altro. Questo spiega la natura dell’interdipendenza nella presenza contemporanea di due fattori.
 Vi è anche un’interdipendenza sequenziale, ad esempio la condizione evolutiva, si è bambini e in conseguenza a cause nel tempo dipendenti si diventa adulti, in questo caso i fattori non sono contemporaneamente presenti ma sequenziali. Approfondendo ulteriormente l’analisi dell’interdipendenza vediamo che ogni fenomeno in sé intrinsecamente non esiste, non ha una sua essenza indipendente, dipende esclusivamente a causa dell’esistenza di altro.
Domanda: Allora non esiste nessun oggetto che abbia un’esistenza a sé stante?
Lama: Nemmeno le infinitesimali particelle dello spazio hanno un’esistenza intrinseca. Se si riflette seriamente sulla natura dell’origine interdipendente è piuttosto semplice sviluppare in noi la rinuncia e la compassione.
Domanda: Puoi per favore chiarire il concetto di apparenza riportato nel paragrafo 11° del testo “Fin quando le due realizzazioni, quella delle apparenze, ovvero l’inevitabilità dell’origine interdipendente e quella della Vacuità, ovvero la non-asserzione,vengono considerate separate, non vi è ancora la realizzazione del pensiero di Buddha Shakyamuni”.
Lama: L’apparenza è il risultato dell’interazione, dell’interdipendenza tra fenomeni, è una verità rispetto alla realtà e non semplicemente un’illusione, quindi quando osservi attentamente quel fenomeno vedrai che in sé, nella sua essenza ultima, non esiste intrinsecamente.
Domanda: Perché?
Lama: Non esiste in modo indipendente, ma solo in interazione con altri fenomeni. Il fatto che il fenomeno sia interdipendente significa che non ha un’esistenza intrinseca e, nell’istante in cui si vede che ogni fenomeno non ha un’esistenza intrinseca se ne coglie immediatamente la sua interdipendenza. Il fatto stesso che si possano vedere le cose, che queste appaiano, significa che non hanno un’esistenza intrinseca e, nel momento in cui se ne ha consapevolezza, automaticamente si comprende la loro esistenza interdipendente. Se i fenomeni non esistessero non potrebbero nemmeno essere vacui di esistenza intrinseca.
Domanda: La vacuità è una doppia negazione?
Lama: Non è una doppia negazione, prova semplicemente che le cose non esistono intrinsecamente, possono essere solo in modo interdipendente. L’esistenza dei fenomeni è negata come realtà intrinseca ed è affermata in quanto realtà interdipendente. E’ molto utile approfondire questo concetto dell’interdipendenza perché ci conduce alla visione della via di mezzo. Le pratiche spirituali, lo sviluppo della compassione, della rinuncia, nell’assimilazione del concetto dell’interdipendenza, ci permettono di procedere nella via di mezzo. Tutti i concetti, pace, guerra, gioia, e quant’altro sono strettamente connessi all’interdipendenza dei fenomeni.
Domanda: Quindi io esisto perché esistono gli altri, e dunque io sono come sono perché gli altri hanno un loro modo di essere?
Intervento: Mi pare comodo attribuire agli altri la responsabilità di ciò che tu sei.
Lama: Non c’è nulla da biasimare negli altri ma solo avere apprezzamenti nei loro confronti, senza attaccamenti o fanatismi. La giusta intenzione è di essere interiormente liberi, non legati. 
Domanda: Come sappiamo di essere nella via di mezzo?
Lama: La profonda comprensione della natura interdipendente dei fenomeni ci aiuta anche nella comprensione delle sensazioni interiori, sentiamo di non essere prigionieri nell’estremo. La comprensione dell’interdipendenza deve essere la prima cosa che si presenta alla mente qualsiasi situazione affrontiamo, perché se osserviamo quella situazione come indipendente, ne abbiamo immediatamente una visione distorta ed estremista, mentre se la consideriamo nella sua realtà interdipendente il primo importante passo è compiuto. Ci sono indizi inequivocabili che segnalano se la nostra posizione è , o non è, centrata. Se non lo è avvertiamo un forte disagio e dobbiamo modificare senza indugio l’atteggiamento mentale, correggere l’attaccamento o l’avversione che, nell’abitudine, sorgono automaticamente. Attaccamento e avversione sono i fattori che più facilmente ci allontanano dalla via di mezzo, dovremmo dunque lavorare intensamente per sviluppare l’equanimità.
Domanda: La comprensione dell’interdipendenza e il rimanere nella via di mezzo ci aiutano a non formulare giudizi, a non accusare e cercare le colpe altrui?
Lama: Esattamente così; nel momento in cui incontriamo qualcuno che ci fa arrabbiare la pazienza può crescere in noi solo se rimaniamo nell’ottica della via di mezzo che ci pone nella condizione di trasformare una piccola arrabbiatura in tolleranza e nella pratica della pazienza. La comprensione dell’interdipendenza annulla tutti i pensieri concettuali di giudizio e pregiudizio mantenendo la mente in equilibrio, in modo autonomo, fondato su questa comprensione. 
Domanda: Il voto del Bodhisattva quanto e come è vincolante? In questa veste umana possiamo formulare il voto di volerci reincarnare per il bene di tutti gli esseri, ma quando ci troveremo in una situazione diversa come potremo realizzarlo?
Interventi: Io credo che avverrà naturalmente, spontaneamente, poiché questa è la tua motivazione. Anche l’attaccamento alla realizzazione non è positivo, quindi senza attaccamento ti reincarnerai in conseguenza alla tua motivazione altruistica, o no?
Lama: Nella bodhicitta ci sono due piani distinti, il primo è quello dell’aspirazione, del desiderio di ottenere l’illuminazione per essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti in infinite esistenze; il secondo è quello dell’attuazione, dell’intraprendere, del mettere in atto la bodhicitta ed è il momento dell’impegno vero e proprio. 
 Per quanto riguarda i voti del Bodhisattva, al nostro livello ordinario, possiamo solo auspicare che un giorno avremo generato la bodhicitta e saremo illuminati così da poter beneficare, per un numero infinito di esistenze, tutti gli esseri. Soltanto nel momento in cui si è sul piano effettivo, nell’impegno dell’attuazione della bodhicitta, si può pensare di prendere responsabilmente ed efficacemente questi voti, però è necessario avere lucida consapevolezza e conoscenza profonda di ciò che comportano. Solamente dopo un profondo esame di sé, avendo stimato che si posseggono le realizzazioni necessarie per poter tener fede a questo impegno, unicamente allora sussistono le condizioni effettive per prendere i voti di Bodhisattva, altrimenti ci si inganna da soli, ci si maschera volendo ingannare altri, ma l’abito non fa il monaco. 
 Nel momento in cui si accede al secondo livello, quello dell’impegno effettivo, l’assunzione dei voti di Bodhisattva è automatica, perché il voto di Bodhisattva non richiede la presenza di altre persone, di una trasmissione, può essere preso da soli con profondo e sincero impegno. 
 Oggi la presa dei voti di Bodhisattva avviene spesso durante un rituale, con faciloneria e superficialità, ma è solo coreografia e non corrisponde assolutamente ad una vera realizzazione. 
 Esistono nella tradizione tibetana due principali tipi di voti, il voto di Bodhisattva, che necessita di una informazione profonda ed esaustiva in modo che chi assume questa responsabilità sia ben cosciente di ciò che sta facendo e abbia motivazioni più che serie di un impegno durissimo, e il voto tantrico, il voto di liberazione individuale che permette di essere monaco ordinato, entrambi non necessitano di alcuna informazione previa.
 Purtroppo nelle comunità monastiche e nella società tibetana in genere questi aspetti non sono considerati con sufficiente serietà e si sono trasformati in manifestazioni esclusivamente rituali. Al contrario nell’antico Tibet tutti questi elementi erano collocati con grande chiarezza senza possibilità di confusione, oggi invece la faciloneria, superficialità e confusione ha permesso che molti italiani prendessero l’ordinazione di monaco, ma quanti di loro sono rimasti effettivamente ordinati? Pochissimi, perché non era stata preventivamente e sufficientemente approfondita l’intenzione e l’impegno di queste persone. Alcuni, abbagliati dall’apparenza coreografica, pensavano che la condizione monacale fosse facile e soprattutto gratificante, poi si sono resi conto che l’essere monaco richiede grande impegno, grande disciplina e grande studio. In Tibet un antico proverbio cita: “rasarsi la testa non è per niente facile”
Gli equivoci sono stati indotti dalla confusione prodotta dall’incontro di Lama tibetani dalla mentalità antica, ancora immersi nel sogno di un Tibet che non esiste più, con italiani che non erano mai stati in Tibet e che lo avevano mitizzato come una sorta di Shangrila!.... 
 Gli italiani devono evitare di volersi trasformare in tibetani, perché non durerebbero tre giorni e soprattutto perché non avrebbe alcun senso, le condizioni culturali, storiche e ambientali sono assolutamente diverse.
 La struttura esterna non è il Dharma, che invece deve essere praticato costantemente, con purezza, nelle condizioni della vita quotidiana e che non necessità di struttura alcuna.


***












Parte Seconda








ACCUMULO DI MERITI e PRATICA NELLE SEI PERFEZIONI









ASSISI  - Ottobre 2004

Accumulazioni di Meriti e le Sei Perfezioni 


(Prima parte della registrazione, relativa all’introduzione al ritiro, non comprensibile)… continua con la lettura del Vangelo dal Sermone della Montagna - Matteo 5, 38-42, Cristo e la legge antica:
“..Avete inteso che fu detto: “occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi se uno ti percuote la guancia destra tu porgigli anche l’altra e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica tu lascia anche il mantello, e se uno ti costringerà a fare un miglio tu fanne con lui due, da a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. Avete inteso che fu detto amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico, ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siete figli del vostro Padre celeste che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti, infatti se amate quelli che vi amano quale merito ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto  il Padre vostro celeste.” 
Molto bello, un messaggio straordinario che spiega chiaramente perché l’intenzione dharmica non è la nostra abituale attitudine mondana che ci fa amare l’amico e respingere, odiare, chi non ci piace. Solitamente pensiamo che questo sia l’atteggiamento corretto, coerente con la nostra umanità e non ci rendiamo conto che in questo modo ci procuriamo soltanto guai e sofferenza, non ne ricaviamo nessuna vera soddisfazione, sarebbe impossibile ottenere un bene da una posizione mentale così sbagliata.
Il motivo di ogni infelicità è conseguenza di un’attitudine errata e la spiritualità ci insegna, non tanto a cambiare le azioni, ma piuttosto a cambiare l’atteggiamento che le induce. 
E’ necessario convertire un atteggiamento abituale e scontato in uno assolutamente particolare. Vi è stato insegnato ad amare il vicino e ad odiare il nemico in un’ottica che giustifica guerre, torture, terrorismo e ogni sorta di sopruso. L’abitudine mentale che deriva da simile errore divide e distrugge ogni cosa ed è anche la base su cui si formano i nostri piccoli problemi quotidiani.
Domanda: Odiare un nemico o odiarne tanti, odiare poco o molto, è la stessa cosa, è un’attitudine ugualmente negativa?
Lama: Certamente.
Lo stato di salute dell’individuo, del mondo intero, dipendono esclusivamente dall’atteggiamento che si ha. Questo è un punto importante, non si devono porre limiti alla bontà perché lo sviluppo delle qualità spirituali non ha fine, non ha limiti. 
Il testo biblico parla del Padre, del Signore, nel buddhismo potrebbe essere il Buddha, evidenzia una corrispondenza tra cristianesimo e buddhismo perché i Bodhisattva, indicati come i “Figli del Vittorioso”, ripropongono un rapporto “padre - figli” in cui il Buddha è un padre e i Bodhisattva i suoi figli, così come lo sono gli esseri ordinari e gli esseri superiori, ognuno in base al proprio sviluppo. 
In termini buddhisti si potrebbe dire che Lo spirito Santo è il potere e l’azione del Buddha che ci libera dalle attitudini ordinarie di contrapposizione.
Purtroppo però noi scegliamo quasi sempre la legge del taglione “occhio per occhio e dente per dente”, e rispondiamo a insulti e aggressioni con altrettanta pesantezza. E’ interessante osservare le reazioni degli automobilisti; un giorno ero in un bar e ho assistito una scena piuttosto ridicola: una signora non potendo uscire dall’auto a causa di un’altra macchina, si è incollata al clacson per dieci minuti disturbando ovviamente tutti e, quando la colpevole è finalmente arrivata, sono voltati da entrambe le parti pesanti insulti, ed è andata bene perché sono rimaste solo a livello verbale. In Tibet probabilmente sarebbero passati subito ai coltelli, non essendoci specifiche leggi, comunque necessarie, per limitare le reazioni di rabbia. 
Il brano del Vangelo è magnifico e bisognerebbe leggerlo mattina e sera confrontando la pratica di quel giorno e osservando le sensazioni di gioia sperimentate grazie ad un atteggiamento diverso. Questo è l’aspetto concreto della pratica, non abbiamo bisogno di formalità, di rituali complessi con cui conseguire titoli e onori, non hanno alcun senso, dobbiamo semplicemente concentrarci sulla sostanza della realtà.
Leggiamo gli otto versi di Trasformazione della Mente, quasi una fotocopia del Sermone della Montagna, e teniamoli presenti entrambi perché, particolarmente in Italia, è molto importante integrare e unificare la ricchezza espressa in entrambe le tradizioni spirituali.

Gli Otto Versi della Trasformazione della Mente
“Gli otto versi della trasformazione della mente” appartengono ad un importantissimo testo scritto da Kadampa Geshe Langri Tangpa, e fanno parte degli insegnamenti Lo Jong. Il poema composto nel periodo della scuola Kadam. La traduzione italiana è stata effettuata dall’Istituto Lam Rim di Roma.

Considerando tutti gli esseri senzienti
superiori alla gemma che esaudisce i desideri 
per realizzare il fine supremo
possa io costantemente prenderli a cuore.

Quando sarò con gli altri, 
riterrò me stesso come il meno importante,
e mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore
come se ognuno fosse il più elevato degli esseri.

Vigile, ogni volta che sorge un’emozione negativa
Che possa nuocere me o gli altri,
l’affronterò e l’eliminerò senza indugio.

Vedendo esseri in preda alla malvagità
Intenti a violente azioni negative, sopraffatti da sofferenze, 
avrò  sempre cura di tali creature così rare,
come se avessi trovato un tesoro prezioso.

Quando altri, per invidia, mi maltratteranno,
mi insulteranno o faranno cose simili,
accetterò la sconfitta e offrirò la vittoria.

Quando qualcuno a cui ho fatto del bene
e in cui ho riposto grandi speranze
mi infligge un danno terribile,
lo considererò il mio santo amico spirituale

In breve, direttamente e indirettamente, offro
Ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri;
possa io segretamente prendere su di me
tutte le loro azioni negative e sofferenze.

Possa la pratica non essere mai contaminata dalle idee causate
dalle otto preoccupazioni mondane,
e, consapevole che tutte le cose sono illusorie,
possa io, privo di attaccamento, essere libero dal samsara.


***


(Termina la sessione)
Riprende la sessione di approfondimento della pratica di accumulo dei meriti nelle sei perfezioni con la rilettura del Vangelo (Matteo 5, 38-42) e degli Otto Versi di trasformazione della mente.

(si leggono i testi già sopra trascritti)

I due punti fondamentali dell’accumulazione dei meriti e dell’accumulazione della saggezza danno maggiore sostegno e spinta alla nostra vita conferendole completezza.
L’umano istintivo desiderio è rivolto non ai rami o al tronco della pianta ma al frutto in grado di nutrire, però per ottenerlo è necessario prendersi molta cura dell’intera pianta, anche se rami e tronco non sono l’obiettivo ultimo. Anche se rami, foglie e tronco non sono il nostro scopo primario non possiamo ignorarli. Abitualmente siamo così tesi verso il frutto finale, così attaccati, che trascuriamo completamente quelli che consideriamo aspetti secondari. 
Anche quando il nostro scopo è una pace assoluta la vorremmo ottenere immediatamente, in modo diretto, trascurando completamente gli aspetti minori pur indispensabili alla sua realizzazione, cioè non prendiamo nemmeno in considerazione la questione dell’accumulo di meriti, di conoscenza e di saggezza che, pur non essendo lo scopo ultimo di realizzazione della buddhità, sono l’unica cosa che in questa condizione umana siamo in grado di realizzare, che rappresentano quindi per noi i mezzi principali. 
In merito all’accumulazione di meriti, di conoscenza e di saggezza dobbiamo riferirci sempre alle sei perfezioni, di cui le prime tre: Generosità, Etica e Pazienza sono relative all’accumulazione dei meriti. La quarta e la quinta, la Perseveranza entusiastica o Sforzo gioioso e la Concentrazione, sono gli strumenti che realizzano entrambe le accumulazioni quella dei Meriti e quella della Saggezza. La sesta perfezione, la Saggezza, prevalentemente è attinente all’accumulazione della saggezza. 
La pratica di accumulazione dei meriti e dell’accumulazione della saggezza è posta sotto la categoria delle sei perfezioni, e in queste la quarta e la quinta ovvero la Perseveranza entusiastica, o Sforzo gioioso e la Concentrazione appartengono a entrambe le accumulazioni. 
La perfezione della Perseveranza entusiastica rappresenta lo sforzo compiuto con gioia, con l’ispirazione alle azioni virtuose e ha tre caratteristiche: la prima è relativa ad un particolare sforzo, strettamente unito alla seconda caratteristica, della gioia, che porta in sé una qualità particolare collegata alla terza caratteristica che guida all’ispirazione a praticare azioni virtuose. 
La perseveranza entusiastica non ha limiti, si basa sulla gioia e sull’ispirazione alle azioni virtuose, è un tipo di sforzo che possiamo sviluppare in modo infinito, tanto che dopo qualche tempo si trasforma in un’attività del tutto spontanea. La pratica della perseveranza entusiastica progredisce continuamente fino a quando non sarà più necessario alcuno sforzo, non ci sarà più nessuna resistenza o sofferenza da parte nostra perché sarà un’attività del tutto spontanea. 
Più ci si inoltra nella perfezione della perseveranza entusiastica e più facilmente essa avverrà, la sua caratteristica particolare è la possibilità di svilupparsi all’infinito, al contrario degli sforzi di tipo materiale, come quello dell’acqua che bolle o delle possibilità di salto dell’atleta. L’acqua continua a bollire fino a quando è mantenuto il calore necessario, ma allo spegnimento del fuoco il bollore diminuirà per poi cessare definitivamente, questi sono i limiti dell’acqua. Allo stesso modo, volendo saltare sempre più in altro, potremo essere molto bravi raggiungere un record, ma il nostro fisico è limitato, non è possibile sviluppare un salto infinito, senza limiti. 
Al contrario la perseveranza entusiastica, nonostante necessiti di una certa spinta, di uno sforzo iniziale, da un certo punto in poi progredisce da sola. Questa capacità di potersi sviluppare all’infinito non è una qualità di tutti gli sforzi ma è particolare della perseveranza entusiastica che ha in sé le caratteristiche di essere uno sforzo gioioso basato sull’ispirazione alle azioni virtuose. 
Un altro esempio di contrapposizione è “attaccamento - compassione”, la compassione, fondata sulla perseveranza, sullo sforzo gioioso può crescere all’infinito, cosa che invece non si verifica nell’attaccamento che, per quanto possa essere unito a un certo sforzo gioioso, non appartiene alla pratica delle virtù e dunque, inevitabilmente, si scontrerà con i propri stessi limiti dipendenti dalle condizioni che lo hanno determinato. 
La perseveranza entusiastica ha davvero una qualità spirituale speciale, è la forza che ci permette di sviluppare qualità spirituali all’infinito.
La Concentrazione è il secondo fattore comune all’accumulazione dei meriti e all’accumulazione della saggezza, della conoscenza, è il primo passo per realizzarla è il silenzio della mente che dovrebbe essere unito, poiché siamo esseri viventi legati ai sensi, anche a un silenzio fisico. 
Il silenzio dei sensi, il silenzio della mente, sono una sorta di tranquillità interiore. Sarebbe anche auspicabile il silenzio dell’ambiente e il silenzio degli altri esseri viventi che ci circondano, perché quando qualcuno vicino, anche se è un carissimo amico, fa molto rumore o chiacchiera in continuazione è difficile concentrarsi. 
Il silenzio è il primo passo per sviluppare la concentrazione e si dovrebbe parlare anche di un silenzio della vita perché viviamo in una società che richiede un grande dispendio di energie e inventa ogni giorno una moltitudine di apparenti necessità che disturbano e impediscono il vero silenzio. 
E’ necessario anche il silenzio del denaro, nei tempi antichi non esisteva il denaro, in Tibet fino a non molto tempo fa i soldi erano rari, le poche monete in argento e in oro non erano così diffuse e le persone non se ne preoccupavano, ne erano naturalmente liberi. La ricchezza al tempo dei miei nonni e dei miei genitori si misurava sul numero yak o di capre, ma oggi la situazione è così differente che dobbiamo prendere in seria considerazione la questione del silenzio del denaro, chiedere ai soldi di tacere in modo che non ci disturbino. Il metodo per ottenere un buon risultato potrebbe essere quello dell’accontentarsi di ciò che si ha. Il silenzio del denaro è importantissimo e il mezzo è sapersi accontentare, perché se mancano completamente i soldi non c’è nemmeno un luogo dove poter meditare e forse dovremo rivolgerci alla Caritas!...
La concentrazione non facilmente praticabile nei tempi moderni, sono presenti numerosi ostacoli, e non dobbiamo dimenticare il silenzio del lavoro, perché la nostra società è basata sul presupposto “niente lavoro niente vita” e, nel momento in cui potrebbero esserci sono tutte le condizioni per poter realizzare il silenzio della mente questo problema naturalmente sorge. 
Le vite dei santi del passato, San Francesco, Milarepa, gli stessi Buddha e Gesù, hanno avuto condizioni assai differenti da quelle odierne, favorevoli alla meditazione e la mentalità era propizia, c’erano spazi liberi in cui potersi isolare e la popolazione era partecipe e collaborativa nel riconoscerne il valore spirituale. 
Tutti questi tipi differenti di silenzio: del lavoro, dei soldi, dell’ambiente, degli amici, sono importanti per sviluppare il silenzio mentale, il primo passo della concentrazione che non può prescindere dal sapersi accontentare, perché solo in questo modo ha la possibilità di godere di una certa felicità, di ciò che si è ottenuto grazie al fatto che ci siano realizzazioni da ottenere, se mancasse questa condizione non esiterebbe la gioia dell’accontentarsi. Il rapporto tra l’accontentarsi e l’ottenere comprende tutti i silenzi fino al silenzio mentale.
Questi sono cenni relativi alle due perfezioni, la perseveranza entusiastica e la concentrazione, entrambe requisiti necessari all’accumulazione dei meriti e all’accumulazione di saggezza. 
Si può gestire un’economia spirituale grazie alle pratiche spirituali, all’intervento della prima perfezione, quella della Generosità, e in questo l’economia spirituale mostra la sua diversità rispetto all’economia materiale, esclusivamente basata sul calcolo e sulle aspettative di un riscontro. 
L’economia spirituale invece si fonda solo sul dare senza aspettative, non pretende nulla in cambio. La misura della capacità del dare materialmente è connessa al livello di generosità, di capacità interiore di dare. 
E’ consigliato che, per lo sviluppo della generosità, si giunga ad offrire il proprio stesso corpo, per riuscirvi però è necessario aver raggiunto un buon punto di maturazione interiore, perché in caso contrario sorgono molti ostacoli. E’ necessario avere piena consapevolezza del livello della propria capacità di dare, sia interiore che esteriore, prediligendo sempre l’aspetto interiore. 
In un versetto del Vangelo di ieri si raccomandava di non voltare mai le spalle a colui che chiede e questo è molto simile alla pratica del Bodhisattva, è l’equivalente preciso di generosità, che non è di facile attuazione perché, soprattutto nelle grandi città, incontriamo continuamente mendicanti e spesso preferiamo ignorarli, con mille scuse per allontanarci da loro, la più comune è “non ho spicci”, in India la scusa invece è “kal” domani, tutto si rimanda sempre a domani.
Dovremmo invece addestrarci a riflettere su quest’euro che non abbiamo voluto dare, e che probabilmente non incide sulle nostre finanze mentre può essere veramente importante per la persona che chiede, forse potrebbe essere la sua colazione, per noi è nulla, per lui è tanto e, ragionando, comprendiamo il perché sia necessario offrire quest’euro cominciando così a sviluppare la qualità spirituale di generosità interiore, ottenendo nel contempo accumulazione di meriti, perché l’aver dato un euro ha aperto il nostro cuore che prima era chiuso, non si tratta di una trasformazione fisica ma si modifica un’attitudine mentale nell’apertura del cuore ad uno spazio sempre più vasto. Sapere che quest’euro può essere realmente efficace fa la differenza tra il dare e il decidere di tenerselo in tasca, è facile vedere qual è la situazione di maggior beneficio. Tenerlo in tasca lo rende sempre più pesante, rovina la tasca e non apporta nessun cambiamento in noi, nessun beneficio. 
L’economia spirituale si basa esattamente su cosa può essere più efficace, apportare maggiori qualità spirituali, più si apre il cuore e più si riceve. Più generosità significa anche più amici e più amici significa avere maggiori possibilità nei rapporti umani, più armonia più felicità, più vita buona.
L’economia moderna è strutturata fondamentalmente su una serie di trucchi per imbrogliare il prossimo, ecco un piccolo esempio: i prodotti fatti in Asia con l’etichetta “made in Italy”. Con tutti i trucchi, piccoli e grandi, non si fa altro che aumentare la confusione nel mondo. 
Lo stesso attacco alle torri gemelle non è altro che un risultato di questo tipo di economia. Un mio amico, professore all’università cattolica di Roma, dice sempre che all’interno delle università secolari manca completamente ogni studio sull’etica, argomento che è stato vanificato, svuotato di ogni contenuto. Una società così strutturata è un problema, si delega l’etica alla chiesa ritenendo che la vita sia altra cosa, invece dell’integrazione si costruiscono infinite situazioni conflittuali, mentre sarebbe importante impostare la vita su solide basi spirituali per il nostro stesso benessere. 
Appena arrivato in Italia non conoscevo nessuno e ora invece ho moltissimi amici, forse la mia occupazione principale è avere amici. La generosità porta naturalmente agli amici che a loro volta agevolano il nostro armonioso inserimento sociale in condizioni di vita più serena, migliore, a condizione di essere sempre vigili nel costruire sapendosi accontentare. Considerare ogni realtà sulla base dell’amicizia, accontentandosi di ciò che si ha, ci conduce ad un livello decisamente superiore rispetto a quanto offre il sistema economico moderno. La pratica della generosità è fondamentale per poter avere una vita piena, sana e felice.
La seconda perfezione è l’Etica che consiste essenzialmente nel non nuocere, nel non far male agli altri perché, se per ottenere qualcosa dovessimo creare difficoltà e problemi ad altri, quale felicità ne potremmo ricavare? Nessuna, e in più persona danneggiata tenderebbe immediatamente a ricambiare con eguale moneta, in reciproco e diretto danno. 
Una vita sana deve essere impostata in modo etico, senza danno ad altri, anzi dobbiamo impegnarci, con ogni mezzo, di essere sempre di aiuto e mai di ostacolo, già solo quest’attitudine è fonte di felicità e inoltre riceviamo l’immediato beneficio di ricevere aiuto dagli altri.
La terza perfezione è la Pazienza, virtù fondamentale, perché ogni situazione, anche l’amicizia, richiede pazienza altrimenti non può durare. 
La pazienza è necessaria sempre perché anche le cose che non ci garbano sono frutto di errore, di fraintendimento, non di volontà, nessuno è realmente intenzionato a commettere azioni irritanti di nessuna utilità e da cui nessuno trae piacere. Ognuno di noi commette errori semplicemente a causa dell’incapacità di vedere e valutare correttamente le situazioni, e, così come abbiamo pazienza con i nostri errori, dobbiamo averne con quelli degli altri. Non ha senso perdere amicizie per l’incapacità di avere pazienza e comprensione sugli errori nostri e altrui. Partendo da questa considerazione si cominciano ad avere amici spirituali, amici cioè che si supportano l’un l’altro per lo sviluppo di qualità spirituali, senza contrapposizione o critica, ma con un atteggiamento amorevole di aiuto e di consiglio. La pazienza è importantissima, praticarla non è facile, ma è l’unico modo per avere una vita significativa e piena. 
Esistono molti modi per evitare di arrabbiarsi, soprattutto con gli amici, che sarebbe l’eventualità più dolorosa. Se ci si arrabbia con un estraneo, ad esempio Bush, è decisamente meno penoso, ma con un amico con cui si condivide il quotidiano è davvero devastante. Se proprio volete sperimentare la rabbia potete scegliere una persona lontana da voi, Bush, perché questo non avrà grandi ripercussioni immediate, ma se la sperimentate con gli amici ne uscirete distrutti. Oggi, seguendo una moda strana, qualche psicologo suggerisce di esternare aggressivamente tutta la rabbia, ma non fatelo con gli amici o in famiglia, rompereste oggetti preziosi e utili procurando anche un danno materiale; riflettete su ciò che è più vantaggioso: arrabbiarsi o non arrabbiarsi? 
Non esiste azione più negativa della rabbia perché distrugge tutte le accumulazione di meriti. La rabbia è un elemento di grande disturbo nella nostra società. 
L’elemento che crea maggiori difficoltà sia a livello individuale che sociale e politico è la rabbia. 
La pazienza deve essere praticata ogni giorno un po’ di più in modo da radicarsi e svilupparsi costantemente. La pazienza è incoraggiamento, è tolleranza.
Per affrontare la sesta perfezione, la Saggezza, dobbiamo riprendere il discorso sulle due accumulazione di meriti e di saggezza con riferimento alla pratica di meditazione sul singolo punto che, grazie alla presenza mentale, ci permette la concentrazione su qualsiasi oggetto.
Potremmo concentrare l’attenzione sulla vacuità, sullo spazio vuoto, in una meditazione guidata a cui seguirà una discussione. 
Leggiamo le istruzioni:
“E’ necessario porsi in un ambiente appropriato, limitare i desideri sentendosi soddisfatti di rinunciare del tutto agli impegni usuali, mantenere una disciplina eticamente pura e abbandonare del tutto i pensieri e desideri.
Preparazione: pulire l’ambiente, collocare in modo idoneo gli oggetti che simbolizzano il corpo, la parola e la mente di bodhicitta, riunire le offerte che devono essere incontaminate e allestirle nel modo più bello.
La postura meditativa: Sedersi su un comodo cuscino nella posizione del loto o del semi-loto, il corpo non deve essere inclinato né in avanti né indietro, occorre tenerlo eretto e volgere l’attenzione verso l’interno. Le spalle, pur diritte, mantengono la loro posizione naturale, la testa non deve essere inclinata né in avanti né indietro né ai lati, il naso deve essere verticalmente allineato all’ombelico, gli occhi sono socchiusi, ovvero né troppo aperti né troppo chiusi e lo sguardo è diretto sulla linea della punta del naso. Denti e labbra mantengono una posizione naturale, mentre la lingua tocca il palato. La mano destra è appoggiata sulla sinistra con il palmo verso l’alto e i pollici si uniscono all’altezza dell’ombelico. Inspirazione ed espirazione non devono essere rumorose, ma fluire naturalmente senza sforzo in modo morbido e gentile.”
La presenza mentale o consapevolezza deve essere focalizzata sul processo del respiro e sul rilassamento fisico e mentale per una durata di tempo relativa a quanto se ne ha a disposizione.
La modalità di meditazione fondata sul rilassamento, sulla presenza mentale, sulla consapevolezza del respiro è importante, ci permette di osservare le sensazioni e le emozioni che passano, sia a livello fisico che mentale, favorendo la capacità di sviluppare un certo distacco verso i nostri sentimenti perché ci permette di analizzare ciò che dobbiamo affrontare focalizzando la differenza tra l’oggetto e l’emozione relativa. 
L’io è l’io e le sensazioni, i sentimenti che passano, sono qualcosa di diverso dall’io, sono presenti ma diversi, perchè l’io è a un livello più profondo rispetto alle emozioni che, pur nel loro movimento di andirivieni continuo, non ci dominano, non possono attecchire o influenzarci. Nella pratica meditativa di concentrazione sul respiro, propedeutica a tutte le altre pratiche meditative, abbiamo finalmente l’opportunità di svincolarci, di affrancarci, dai mutamenti che le emozioni potrebbero produrre in noi, siamo nella condizione di poter osservare liberamente le sensazioni che scorrono, sia di dolore che di gioia. 
La meditazione favorisce la penetrazione più profonda nel nostro io, ad un livello in cui è libero da ogni emozione o sentimento senza reazioni, né per il dolore né per la gioia, è in uno stato neutrale che permette un approccio equanime alla realtà. Dunque, quando si sperimentano le sensazioni, si scopre che lo stato neutrale è il più elevato, migliore anche dello stato di felicità e o di gioia. 
Il nostro scopo non è di ottenere sensazioni di felicità sensuale, ma di poter permanere in uno stato neutrale di equanimità, uno stato che ci permette di non provare attaccamento nei confronti di sensazioni positive e di non provare avversione verso sensazioni che possono essere dolorose, è rimanere stabili nella via di mezzo. 
La pratica della meditazione più è semplice e più è efficace, se invece è molto complessa si ottiene soltanto una maggiore confusione. La semplicità è il risultato della familiarizzazione con la pratica che renderà la meditazione sempre più naturale e potente. All’inizio apparirà abbastanza complessa e poco efficace ma, procedendo, sarà sempre più semplice e fruttuosa. 
La meditazione semplice è la migliore meditazione, la conoscenza semplice è la migliore conoscenza, la realizzazione semplice è la migliore realizzazione, così come una vita semplice è una vita felice. E’ un buon insegnamento da seguire. Lo stesso significato di “Buddha” indica una persona semplice così come “Santo” intende una persona semplice. Buddha o Santo sono definizioni che appartengono al passato, oggi il termine equivalente dovrebbe essere quello di persona semplice. Buddha, Santo, Bodhisattva, sono vocaboli che potrebbero assumere filosoficamente significati complicatissimi invece, il più importante, è persona semplice, lo stesso Gandhi, con l’esempio della sua vita, dimostra che era una persona semplice, un Santo, un Buddha, un Bodhisattva.
Concentrazione, singolo punto, samatha, fondamentalmente non sono altro che una mente tranquilla. E’ importante tradurre tutti questi termini in un linguaggio attuale, perché se continuiamo a ostinarci ad usare termini antichi la comprensione può risultare troppo complessa. Una mente semplice rende la persona semplice, e la persona semplice è una persona felice, e una vita semplice è una vita felice. Tutti i termini più complicati possono essere tradotti semplicemente in mente tranquilla, non dobbiamo cercare complicazioni ma semplificazioni. A volte complicare eccessivamente porta alla semplificazione, perché le complessità hanno tutte un limite oltre al quale non si può andare e allora ecco che, raggiunto questo limite, la complessità si scioglie nella semplicità. La semplicità è più durevole perchè è naturale mentre la complessità non lo è. L’acqua fredda è naturale mentre l’acqua calda non lo è.
Domanda: Ho difficoltà a conciliare tutte queste cose con la vita quotidiana, comprendere cos’è il senso di giustizia, dov’è il limite di voler bene a se stessi e amare gli altri. Da quel che dici sembrerebbe che la risposta sia tutta nella meditazione, per cui praticare, meditare, è lo strumento per gestire la rabbia e tutte le emozioni che turbano profondamente. Ma a volte le emozioni che sorgono e dominano possono anche essere giuste, tipo la rabbia per un’ingiustizia, com’è possibile rimanere in uno stato di mente tranquilla?
Lama: Con la consapevolezza. Nel momento in cui sorgono le emozioni disturbanti, piuttosto che lasciarci dominare da esse dovremmo essere capaci di conservare la consapevolezza che ci trasforma in osservatori delle emozioni. Mantenendo il punto di vista dell’osservatore riusciamo a far si che le emozioni ci condizionino il meno possibile. All’inizio non sarà facile, ma man mano che si adotta questo atteggiamento mentale diverrà sempre più naturale perché il livello più profondo dell’io non ne è disturbato. E’ fondamentale la consapevolezza.
Domanda: A proposito della rabbia, una certa psicologia oggi suggerisce di esternare la rabbia, perché la sua repressione può essere dannosa, al contrario di quanto dice il buddhismo, così ho tentato di agire di conseguenza ma mi sono accorto che la repressione della rabbia mi provocava reali malesseri fisici e ho preferito esprimerla, però più mi accorgo di essere preda dell’ira e più mi arrabbio e ho bisogno di rompere il primo oggetto a portata di mano contro la mia stessa rabbia, chiedo se questo mio modo di esprimere la rabbia, che ha in sé una certa consapevolezza, può essere di aiuto o è comunque un impedimento che non mi permette di liberarmi dalla rabbia?
Lama: Tu stesso hai risposto alla tua domanda. Reprimere o esprimere la rabbia non sono soluzioni valide, la miglior soluzione è la tolleranza e il perdono, difficile da praticare ma decisamente efficace. Rompere un oggetto è troppo facile, e può esserci una escalation, prima il piatto, poi la sedia, fino ad arrivare a te stesso. L’aspirazione della rabbia è proprio quella di spaccare se stessi, ma bisogna valutare i possibili benefici di un atto di rabbia e i benefici di un atto di perdono, di non rabbia, e allora diventa facile non arrabbiarsi. Come si leggeva nel vangelo ieri, occhio per occhio e dente per dente non sono una soluzione, la soluzione è l’esatto contrario, il perdono. 
Domanda: Ricordo un tuo precedente insegnamento in cui invitavi, di fronte ad una reazione di rabbia, ad esaminare le proprie responsabilità, perché tendenzialmente la prima reazione è quella di individuare la colpa esclusiva nell’altro, mentre non affrontiamo mai la nostra responsabilità, ma se lo facessimo, se ci soffermassimo anche pochi istanti su questo, la rabbia sbollirebbe e le situazioni si sdrammatizzerebbero istantaneamente.
Lama: Si, ho dato un insegnamento sulla rabbia al Centro Milarepa di Torino. La repressione della rabbia produce anche un dolore fisico, la soluzione spirituale è quella del perdono che è una cosa magnifica. Il perdono è a volte difficile ma è anche una questione di coraggio, una qualità spirituale che è parte della nostra cultura ma che coltiviamo poco privilegiando attaccamenti futili. Lo stesso perdono è una pratica di tolleranza. 
Domanda: In passato ho avuto esperienze di rabbia molto forte, se non la esprimevo non mi sentivo me stessa, libera. Adesso, grazie al Dalai Lama, sto sperimentando la pace della non reazione sentendomi libera ugualmente. A volte ci riesco e a volte no, ma ringrazio persone come il Dalai Lama, te e i presenti, per questa possibilità.
Lama: La non reazione immediata è molto importante, si ha così il tempo per riflettere e nel ragionamento scoprire che non c’è nessun motivo per reagire aggressivamente, la reazione è un risultato immediato che potenzia la rabbia, se invece ci si dà il tempo per osservare queste emozioni esse fuggono come ladri, le emozioni negative sono false.





Musica con Bajan  - Preghiera e Pratica


Abbiamo ascoltato questa bella musica, melodie utili nella pratica di meditazione e che in tradizioni antichissime erano utilizzate per la recitazione dei mantra, così come recitare preghiere con questi strumenti, è un uso che risale all’antichità ed è parte della cultura umana. Meditare nell’ambito della cultura umana è magnifico e se cerchiamo il significato delle preghiere cristiane, buddhiste, induiste, scopriamo che sono uguali, compresi i mantra. 
La tradizione occidentale esalta la figura del Padre, come nel cristianesimo e non solo, quella orientale valorizza la Madre, come nell’induismo, ma entrambi sono la stessa cosa perché se non ci fossero un padre e una madre non ci saremmo nemmeno noi. In ultima analisi la figura della Madre e del Padre sono la Compassione e la Saggezza. 
Con compassione e saggezza acquisiamo la capacità di trasformare qualsiasi cosa in un buon mezzo per sviluppare le qualità spirituali. I canti, le preghiere, i mantra, possono costituire un ottimo oggetto di meditazione concentrata sul singolo punto ed è fondamentale e magnifico che sia mai presente nessun aspetto settario, un’assenza purtroppo rara. Ci sono domande?
Domanda: La rabbia è sempre negativa? E’indiscutibilmente negativa quando si è così furiosi da voler colpire un nemico, ma a volte ci sono circostanze in cui ci si mostra volutamente arrabbiatissimi ma non lo si è veramente, anzi interiormente si è tranquilli, ad esempio sul lavoro è spesso necessario usare questo mezzo per ottenere un risultato.
Lama: La rabbia è una forma di non gradimento nei confronti di qualcosa. Se su questa base sorge l’intenzione di fare del male a qualcuno la rabbia diventa odio. La rabbia è pericolosa e dannosa per se stessi, mentre l’odio è dannoso e pericoloso anche per gli altri. 
 Per affrontare serenamente la rabbia è necessario aver acquisito una certa tolleranza, così che di fronte ad una cosa sgradita non permettiamo che l’emozione abbia il sopravvento, con la tolleranza ne annulliamo gli effetti nocivi. 
 Il perdono è ciò che ci permette di trasformare qualsiasi situazione sgradevole in gioiosa. A volte ci capita di incontrare qualcuno che ci provoca disagio, ma se siamo capaci di cambiare la sensazione sgradita in piacevole, questa persona diventerà un motivo di gioia. 
 Gli aspetti che maggiormente si contrappongono nella nostra vita sono, da una parte rabbia e odio, e dall’altra tolleranza e perdono, entrambi fanno parte di noi, non dobbiamo respingere i primi come se fossero male assoluto, perché ci appartengono e ci offrono l’opportunità di trasformarli e di sviluppare tolleranza e perdono. 
 Se qualcuno si arrabbia con noi, sorge un immediato desiderio di rispondere con altrettanta aggressività, ma se riusciamo a trasformare questo impulso in tolleranza e perdono, viviamo una magnifica possibilità di sperimentare che, ciò che un momento prima ci faceva arrabbiare, si trasforma in qualcosa che ci rende felici. In questo modo una persona con cui si ha un cattivo rapporto diventa di fatto la causa di trasformazione, di miglioramento della nostra attitudine e di costruzione di un buon rapporto. Ecco perché esternare rabbia nei confronti di Bush non ha nessun senso, perché tra noi e lui non c’è rapporto diretto, e dunque lascia il tempo che trova.
 Non si può dire che la rabbia sia negativa in assoluto perché offre magnifiche possibilità di crescita e per questo dobbiamo considerare la rabbia e la tolleranza con equanimità, sono entrambe oggetti degni di uguale rispetto.
Domanda: Le bugie cosiddette “bianche”, cioè le piccole bugie che a volte è opportuno dire, hanno lo stesso peso delle grandi bugie?
Lama: Tutto dipende dall’intenzione che ha almeno due livelli, il primo livello è fondamentale e deve essere pulito e puro, nel secondo possono entrare piccole bugie che in ogni caso non sono considerate fortemente negative. 
 La positività o negatività dell’azione dipende dall’intenzione primaria, basilare, che deve essere pura, e non dalla secondaria che non presenta particolari rischi perché a volte le circostanze della vita portano a momenti di incertezza.
Domanda: Come ci dobbiamo rapportare con le ingiustizie, sia da un punto di vista personale che sociale?
Lama: L’ingiustizia è la realtà del samsara, innanzitutto dobbiamo essere tolleranti, in secondo luogo intelligenti, e infine la questione dell’ingiustizia è una faccenda che riguarda il Karma o Dio, perché noi non abbiamo modo di ripulire dall’ingiustizia, essa è parte della nostra condizione di esistenza samsarica. Per questo bisogna esercitare la tolleranza ed essere tanto intelligenti da non lasciarsi condizionare.
Domanda: E di fronte alle ingiustizie sociali?
Lama: La cosa fondamentale, sempre, è praticare il Dharma, se ci sono possibilità di intervento diretto lo si faccia, in caso contrario è bene continuare nella pratica del Dharma.
Domanda: E’ possibile reagire a certi stati di ingiustizia, anche pesantemente, pur mantenendo una perfetta serenità, senza coinvolgimento interiore, perdonando e comprendendo che quelle persone non sono in sé, però punendole anche con durezza? 
Lama: Se si punisce qualcuno questi ne soffrirà. Chi può sapere com’è realmente la situazione? Molti problemi sono causati dalla creazione di leggi spesso così contorte da vanificare la legge naturale che probabilmente avrebbe facilmente superato inutili complicazioni. 
 Bisogna essere particolarmente attenti e prudenti nel valutare le ingiustizie sociali, non si deve acquisire come verità certa quanto ci viene propinato dalla propaganda politica, dagli interessi economici, dalle manipolazioni dei mezzi di comunicazione, incluso internet. Spesso, quando si ha modo di verificare personalmente la situazione, si vede che non c’è nulla di vero. Vi è grande abilità nel costruire la propaganda socio-politica, sono contesti che si prestano particolarmente a facili alterazioni, bisogna essere sempre intelligentemente prudenti, osservare, ma mantenere un certo distacco senza lasciarsi coinvolgere emotivamente, perché questa propaganda, costruita per preci interessi, crea sempre sofferenza inutile e non corrisponde alla realtà dei fatti, sono professionisti nel prendere in giro la gente.
Domanda: E’ possibile oggi in Tibet praticare il Dharma come prima dell’invasione cinese?
Lama: Ci sono due ordini di problemi uno è storico, l’invasione cinese, il secondo è rappresentato dal partito comunista cinese che è contro ogni religione, non solo in Tibet, ma nella Cina stessa, paese che per primo ha subito la distruzione culturale, ideologica e religiosa. 
 Il problema è l’imposizione dell’ateismo che nega ogni religione ovunque. La Cina, prima di essere comunista, era una repubblica che già prevedeva l’ammissione del Tibet al proprio territorio, però ne permetteva il culto. Il cambiamento portato dalla rivoluzione comunista di Mao Tse Dong è stato la negazione religiosa e la distruzione del patrimonio religioso. Con l’avvento al potere di Mao Tse Dong i rappresentanti della precedente repubblica si sono rifugiati a Taiwan. La questione tra Cina e Tibet è sottile, difficile e complessa e solo pochi esperti hanno tutte le informazione per comprenderne i molteplici aspetti. 
 Esistono situazioni difficilmente risolvibili, ad esempio non possiamo accusare la tigre che uccide per sopravvivere, non può fare diversamente, non ha senso di pensare ad una punizione della tigre che agisce in base alla sua natura e sopravvivenza, ad una realtà che fa capo solo al karma o a Dio, noi possiamo e dobbiamo soltanto esercitare in ogni circostanza la tolleranza e la pazienza, non c’è altra soluzione. 
 Ogni individuo ha la sua storia e anche quando vediamo qualcuno che agisce male dobbiamo sempre pensare che esistono condizioni in dipendenza delle quali si comporta in quel determinato modo, perché ripagare con la stessa moneta chi compie azioni negative non fa altro che implementare le azioni negative. Infatti, sotto il nome di una pretesa giustizia, la nostra società non fa altro che accrescere i problemi e le complicazioni.
Domanda: Che significa esattamente legge naturale?
Lama: La legge naturale indica che buone cause generano buoni risultati, cause positive producono risultati positivi, allo stesso modo cattive cause generano cattivi risultati e cause negative producono risultati negativi. 
 In una relazione scientifica ogni risultato corrisponde alla causa che lo ha determinato. La prima caratteristica è che ciò che è positivo produce un risultato positivo, la seconda caratteristica dimostra che, altrettanto inevitabilmente, se ci si lascia coinvolgere, a qualsiasi titolo, in azioni negative prima o poi ci sarà il risultato negativo.  Questa è la giustizia naturale, predeterminata, che non stabilisce nessun giudice. La terza caratteristica dice infine che se non c’è nessuna azione non ci sarà nessun risultato. 
 Queste sono le tre caratteristiche della legge naturale. La legge di causa effetto è predeterminata e nessuno la può cambiare o manipolare o corrompere. 
 Lo stesso Cristo ha detto che nessuno può giudicare un altro essere umano. I tribunali italiani invece sono stracolmi di cause che hanno un inizio, ma non si sa mai quando avranno una fine!...
Domanda: Però si può dire ad una persona che sta agendo male?
Lama: Tutto dipende dall’intenzione con cui lo si dice, non dalle parole usate. In Italia c’è un mantra molto comune: “è giusto”, “non è giusto”, lo si sente in continuazione, è usato con superficialità e a sproposito, anche in Tibet c’è questa frase, ma la si utilizza molto raramente e solo per questioni veramente importanti. Restiamo in  una via di mezzo e accontentiamoci anche di cose giuste al 50%, una cosa giusta al 100% non esiste.





“I Tre Aspetti principali del  Sentiero” 

e brani del Vangelo dal “Sermone della Montagna”


Questa mattina studieremo i tre aspetti principali del sentiero che io reciterò in tibetano, mentre voi leggete il testo in italiano.

(si rilegge il testo dei tre aspetti del sentiero - Vedi  a pagina 28)

Rileggiamo ora il Vangelo dal Sermone della Montagna 
Matteo 5, 38 - 42, dal capitolo: <Cristo e la legge antica>
“..Avete inteso che fu detto: “occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi se uno ti percuote la guancia destra tu porgigli anche l’altra e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica tu lascia anche il mantello, e se uno ti costringerà a fare un miglio tu fanne con lui due, da a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. 
Avete inteso che fu detto amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico, ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siete figli del vostro Padre celeste che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti, infatti se amate quelli che vi amano quale merito ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” 

Matteo 6, 1 - 8,  dal capitolo: <Dell’elemosina, della preghiera e del digiuno>
“Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando dunque fai l’elemosina non far suonare la tromba dinnanzi a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini.
In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l’elemosina non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, affinché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà.
Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando poi non sprecate parole come i pagani i quali credono di venire ascoltati a furia di parole. Non siate dunque come loro perché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.”

L’argomento fondamentale che tratteremo questa mattina è relativo ai mezzi per aiutare al meglio gli altri, la Compassione e la Gentilezza amorevole. 
Con lo sviluppo di queste qualità interiori saremo pronti per essere di beneficio a tutti gli esseri viventi perché avremo acquisito la tendenza naturale ad aiutare gli altri, però, finché non avremo attuato questa realizzazione e non saremo riusciti a stabilizzare in noi la compassione e la gentilezza amorevole, le nostre azioni, per quanto motivate dal desiderio di aiutare gli altri, saranno superficiali, permeate e dominate sempre da un certo atteggiamento egoistico. 
Per poter aiutare gli altri è fondamentale sviluppare le proprie qualità interiori. In questo modo muteremo ogni azione in mezzo per trasformare gli altri, diverremo noi stessi mezzo per aiutare gli altri, e non ci sarà più separazione tra noi e gli altri perché tutto ciò che faremo sarà dedicato agli altri. Questo è ciò che fanno i Bodhisattva. 
Tutto dipende dalle nostre motivazioni e qualità interiori. Dedicare completamente se stessi agli altri è un modo per potersi liberare dalla sofferenza. Agire per il bene altrui porta benefici a noi stessi, e fare delle buone cose per sé è un mezzo per fare del bene agli altri.
Nella legge di interdipendenza è evidente che tutto dipende dalla nostra intenzione e motivazione profonda, perché per poter aiutare gli altri dobbiamo prenderci cura di noi stessi e prenderci cura di noi stessi è un mezzo per aiutare gli altri, tutto è interconnesso, questa è la realtà e la verità.
La nostra tendenza usuale invece è paragonabile al muro che divide chiesa e stato, è la stessa separazione esistente tra noi e gli altri e che, nell’incapacità di comunicazione, è un ostacolo al legame, all’interconnessione naturalmente già esistente tra noi e gli altri.
Finché manteniamo la tendenza a separare noi dagli altri, ad agire o per gli altri o per noi stessi, rispondendo all’ errata concezione “io e gli altri”, avremo sempre difficoltà causate da un fondamentale atteggiamento sbagliato, contrario alla verità. Nella realtà invece dovremmo compiere ogni azione preoccupati più del beneficio degli altri che non del nostro, semplicemente perché noi siamo un solo individuo mentre gli altri sono una moltitudine infinita, dunque è naturalmente ovvio che la porzione di attenzione da dedicare a noi stessi sia assolutamente esigua rispetto a quella dovuta a tutti gli altri. E’ necessario esserne profondamente convinti, almeno intellettualmente all’inizio. 
L’altruismo è in fondo un egoismo moderato, intelligente, opposto all’altro egoismo assolutamente miope e ottuso.
Il sano atteggiamento egoistico è quello altruistico, concetto fondamentale che deve essere compreso se non altro a livello intellettuale, perché molta sofferenza è dovuta ai nostri continui tentativi maldestri di transitare da una parte all’altra attraverso un muro che divide, mentre il passaggio corretto può avvenire solo tramite una porta. 
L’istinto naturale a voler cose buone per noi non nega assolutamente il fatto che si possano fare cose buone anche per gli altri perché, se non subiamo passivamente il desiderio istintivo ma lo osserviamo con attenzione scopriamo che in esso esiste un’unica pulsione per noi e per gli altri. 
Il livello base della nostra natura è assolutamente incontaminato, non toccato da nessuna emozione, il desiderio presente a questo livello è puramente positivo, abbiamo un cuore buono. Se nell’istante in cui ci svegliamo, riuscissimo ad osservare istantaneamente ciò che c’è in noi avremmo una visione evidente della natura della nostra mente che ci apparirebbe chiara, pura, non contaminata da alcun pensiero, come un cielo terso illuminato dai raggi del sole. E’ lo stato naturale della mente, una natura che posseggono anche gli animali, che però non ne hanno consapevolezza e in questo si differenziano da noi. 
Questa è la natura della mente e la presenza mentale è la caratteristica particolare dell’umanità che ci permette di permanere nello stato naturale della mente. La mente fresca che osserviamo al mattino a volte la possiamo anche vedere nel mezzo della notte se ci svegliamo all’improvviso e i pensieri del giorno sono lontani, abbiamo la percezione di una mente incontaminata e pulita. 
Tra i tibetani è rarissimo sentir parlare di insonnia perché se qualcuno avesse difficoltà ad addormentarsi reciterebbe subito il mantra “Om Mani Padme Hum” e si addormenterebbe sicuramente, quindi vi consiglio, se vi svegliate in piena notte di fermarvi ad osservare la mente, è magnifico, e vi riaddormenterete molto presto. Questa qualità chiara della mente non è difficile da comprendere, eppure è così difficile da sperimentare, perché durante la giornata non ci sono occasioni per farlo, quindi è bene cogliere ogni opportunità per osservare l’aspetto più sano, puro, chiaro e completamente positivo della mente. 
L’assoluta positività della mente è uno stato altruistico, non perché comprenda al suo interno uno sforzo, un desiderio di fare del bene agli altri, ma semplicemente è uno stato naturalmente e assolutamente positivo, dunque altruistico. E’ uno stato naturale di bene per gli altri che, a fronte di necessità, esigenza di intervento e richiesta, reagisce e agisce naturalmente e spontaneamente, così come, in assenza di necessità e richieste, se ne sta tranquillo in modo naturale. 
L’autentica mente altruistica è equanime, è assente ogni egoismo carico di negatività, esprime altruismo nella reazione naturale alla situazione del momento. Uno stato altruistico dipende da uno stato puro, incontaminato, equanime della mente e, di conseguenza, la possibilità di aiutare gli altri dipende dalla purezza della nostra mente, del nostro cuore. 
L’altruismo dipende dalla positività e dalla chiarezza della mente che definirà il livello di capacità effettiva di aiutare gli altri perché ciò che è buono per gli altri è buono per noi, non può esistere nulla che sia buono solo per noi e non per gli altri, quindi il rivolgere la propria attenzione solo a noi stessi, come se fossimo la cosa più preziosa, è un atteggiamento assolutamente perdente che ci fa molto male. 
L’aiuto agli altri è una questione delicata e non semplice perché non sempre sappiamo come affrontare correttamente le situazioni, ecco perché il modo più stabile, duraturo e potente per aiutare gli altri dipende da quanto riusciamo a mantenere pura e incontaminata la nostra mente.
Dogön, un antico maestro Kadampa, avverte di essere sempre attenti, prudenti e non superficiali nell’aiutare gli altri e aggiunge anche che evitare insegnamenti, istruzioni, trasmissioni, commentari superficiali è un’azione altruistica. Dogön che era un grande yogi disse: “abbiamo abiti molto poveri e possediamo rosari molto grandi, le grotte in cui ci ritiriamo a meditare sono circondate da uccelli, e quando ci ritroviamo a meditare in un’atmosfera di questo tipo, qualcuno dà insegnamenti alle persone anche se questi non sono a loro benefici, non considero questa un’azione cattiva, ma penso che siano dei pazzi.”
Un altro grande yogi, Sampajaré, disse: “Se aspettate che qualcosa germogli senza aver piantato il seme, è aspettare la fame” Così aiutare qualcuno in modo non opportuno significa solamente sprecare energia. 
Potowa, altro maestro kadampa, disse: “la prima pratica di un praticante iniziale è domare, sottomettere e domare il proprio continuum mentale”, non è assolutamente consigliato tuffarsi insensatamente in azioni esterne pensando di agire altruisticamente. Mentalmente è bene mantenere un’attitudine sempre rivolta al bene degli altri, ma è sconsigliato concretizzarla in azioni o parole se non si è ancora pronti. 
Tolò, grande maestro, disse: “Può succedere che, pur non avendo ancora compreso chiaramente le proprie necessità e benessere, qualcuno si rivolga in cerca di guida e protezione. Ma in quel caso quella persona si rivolge in realtà solo ad un nome vuoto, è un peso senza significato e non può ottenere nulla”
Un altro maestro disse: “finché la vostra mente non è stabile nel suo essere incontaminata dagli otto dharma mondani bisogna dedicarsi completamente alla purificazione della mente, questo è il compito fondamentale e primario senza lasciarsi coinvolgere in attività esterne che riguardano gli altri.”
Dunque aiutare effettivamente gli altri non è affatto facile, e il requisito fondamentale è l’atteggiamento puro della mente. Quando la mente sarà purificata e le qualità spirituali sviluppate, ognuno, in base alle proprie capacità, spontaneamente, saprà rispondere correttamente alle richieste degli altri e offrire un vero aiuto.
Si trovano numerose indicazioni nel Bodhicaryavatara di Sāntideva e in altri testi relativi alla via del Bodhisattva, e tutti avvertono che prima di intraprendere qualsiasi azione, fisica o verbale, dobbiamo conoscere e considerare il nostro reale livello interiore. Insegnare il Dharma con atteggiamento altruistico è molto difficile, quanto meno non è facile. Le difficoltà sono presenti nella nostra intenzione nel nostro atteggiamento, perciò il Buddha ha detto che i veri coraggiosi sono coloro che domano se stessi, e non coloro che affrontano combattimenti uccidendo tante persone. Il vero coraggio è in chi riesce a sottomettere se stesso. 
In un’antica storia in cui si racconta che l’imperatore della Manciuria, che considerava già allora il Tibet un proprio possedimento, voleva sapere chi fosse il più intelligente, potente e ricco tra i tibetani, e a tal fine pose agli importanti dignitari tibetani, tutti ingioiellati e agghindati, tre domande: “chi è il più ricco”, “qual è il miglior cibo”, “chi è il più coraggioso”. I dignitari non avevano la più pallida idea di come affrontare la questione perché non conoscevano nessuna delle tre risposte, non sapevano nemmeno il numero degli abitanti del paese, pensarono allora di rivolgersi a un Lama, famoso yogi, che viveva in assoluta povertà, il quale, senza scomporsi, rispose tranquillamente: “Certo, certo, il più coraggioso in Tibet è Milarepa; il più ricco di tutto il Tibet sono io, il miglior cibo che esiste in Tibet è quello che mangi quando hai fame”. I manciù furono sconcertati da queste risposte e, pensando che il Tibet fosse una terra difficile da espugnare perché grandemente istruita e colta, non tentarono più ulteriori invasioni. 
Milarepa era il più coraggioso in Tibet perché aveva raggiunto il completo controllo di sé; il più ricco era il Lama stesso perché il più distaccato, senza attaccamento alcuno e pienamente soddisfatto di ogni cosa avesse in quel momento; la risposta sul cibo non ha bisogno di commento perché chiaramente è soggetto ai gusti individuali quindi è impossibile stabilire quale sia il migliore. Il fatto è che i dignitari non si erano accordati sulle prime due domande sperando, ognuno in cuor suo, di essere eletto il più ricco e coraggioso così da ottenere chissà quali onori e riconoscimenti dall’imperatore manciù, mentre riguardo al cibo discordavano apertamente. In merito al coraggio nessuno dubita che Milarepa ne sia il rappresentante più qualificato.
C’è anche un’altra storia che riguarda un ministro minore intento nella lettura di un testo di Milarepa, noto e diffuso in quasi tutte le famiglie e così importante che in Tibet il suo valore a quello di uno yak. Questo ministro leggendo si esaltava sempre più e sognava di abbandonare tutto, in piena rinuncia, per ritirarsi in una grotta a meditare, così il giorno seguente si presentò a moglie e figli comunicando: “io adesso farò come Milarepa” e, con il suo libro se ne andò sulla montagna. Dopo un mese però non ce la faceva più, e di ritorno a casa, si presentò alla moglie con l’intenzione di riprendere la vita di prima, ma la donna lo invitò decisamente ad andarsene. Questo dimostra come sia difficile essere come Milarepa.
Milarepa è il coraggioso per eccellenza, domare la propria mente significa domare qualsiasi cosa. La vita di Milarepa è di aneddoti umoristici, anche i suoi insegnamenti traboccano di senso dell’umorismo, uno di questi narra che Milarepa, tentando di sottrarsi alla folla che accorreva alla sua grotta impedendogli di trovare la pace e il silenzio, si spostava frequentemente portando con sé una pentola di coccio che riempiva soltanto di ortiche, anche se a ogni manciata dava nomi differenti: “questo è orzo, questo è riso, questo è burro…” così il suo menù di ortica diventava molto vario. Un giorno di inverno scivolò sul ghiaccio e la pentola si ruppe ma, non essendo mai stata pulita, i resti delle tante cotture di ortica avevano formato una seconda pentola e così cominciò a cantare, “la pentola è impermanente, si è appena rotta ma è nata una nuova pentola”. Questo senso dell’umorismo deriva proprio dal fatto che tutti i veri yogi hanno il cuore pieno di gioia.





Come eliminare la Sofferenza - Bodhicaryavatara


Il V° capitolo del Bodhicaryavatara “La sorveglianza della Consapevolezza” affronta il tema dell’essere in pace nella presenza mentale, sintetizzata nella traduzione italiana in “consapevolezza”. Essere in pace nella cultura tibetana significa essere consapevoli, con particolare conoscenza della propria mente.
Con la vigilanza consapevole sulla mente abbiamo raggiunto il livello di indipendenza dalle emozioni negative che influenzano la mente. 
Il capitolo inizia con questa dichiarazione: 
Chi desideri sorvegliare la sua pratica, deve sorvegliare con scrupolo la sua mente. E’ impossibile sorvegliare la pratica senza sorvegliare la mente distratta.” 
Ci sono due interpretazioni di questo verso, la prima, veramente interessante, afferma che la sorveglianza della mente è la stessa pratica; e sintetizza magnificamente in un unico verso l’essenza della pratica del Dharma.
Altrimenti, se ci si addentra nei meandri della filosofia alla domanda “Cos’è la pratica del Dharma?” la risposta potrebbe risultare estremamente complessa a articolata: “Le sei Paramita, l’Ottuplice Sentiero, Le quattro nobili verità, eccetera…”, con il rischio di perdere l’essenza profonda contenuta in una semplice frase. 
Che cos’è la pratica del Dharma? È osservare la propria mente vigilare su di essa. Comprende tutto perché vigilare sulla propria mente significa vigilare su tutto.
Questo primo versetto è fondamentale ma, purtroppo, nelle traduzioni, ad ogni passaggio, ha perso la metà del significato originario ed essenziale. Già dall’originale sanscrito al tibetano una parte è andata perduta, dal tibetano all’inglese almeno un altro 25% e dall’inglese all’italiano ciò che resta è veramente poco. I testi di Dharma tradotti in italiano mancano completamente di cura accademica, della competenza dello studioso, sono estremamente trasandati e superficiali, risultato della sola motivazione commerciale. Vi consiglio di leggere le traduzioni italiane senza prenderle troppo alla lettera, ma cercando di allargare la propria visione e di cogliere il senso compiuto attraverso la propria conoscenza del Dharma.
Il senso del primo verso è semplice, indica che la pratica del Dharma è osservare la propria mente, vigilare sulla propria mente, proteggere la propria mente. Già questo compito non è facile ma la cosa più difficile è sottomettere e domare se stessi.
Il Buddha storico ripeteva spesso che la cosa più difficile è domare se stessi e se si ha coraggio lo si deve usare per domare se stessi e non per domare gli altri.
Nella società moderna si ritiene comunemente di poter trovare la felicità negli oggetti esterni, nel loro possesso, ma in questo modo ogni cosa è fonte di ostacoli, sofferenza e insoddisfazione per ciò che no si ha. La felicità ottenuta attraverso l’esterno ci rende prigionieri e ci limita all’oggetto e quando ne siamo privati sprofondiamo nella sofferenza, privati di ogni felicità e gioia. E’ una sofferenza causata dal fatto che la presunta felicità di cui godiamo è dipendente da altro, ecco perché il nostro miglior amico è la nostra mente. 
E’ importante comprendere il contenuto del Bodhicaryavatara, ne siamo immediatamente rasserenati, calmi, rassicurati in grado di guardare in noi stessi, se poi ci stancassimo della lettura potremmo sempre prenderci una pausa con una buona tazza di tè e qualche biscotto. In questo stato nessuno ci disturba perché godiamo di noi stessi e dell’essere nella nostra mente, perché la mente è il fenomeno più potente che ci può dare protezione. 
Se sviluppiamo la buona abitudine di osservare la mente con costanza, ci accorgeremo che questo ci tranquillizza, ci rassicura, ci protegge, e non ci annoia perché, al contrario, scopriamo un’infinità di cose, non finiscono mai, non è come un film, più guardiamo in noi e più la visione diventa spettacolare, e godendo di essere in pace con noi stessi siamo nella condizione ottimale per poter aiutare gli altri. 
Non è assolutamente possibile dar pace agli altri se non si è in vera pace con se stessi.
La pratica del Dharma è utile e bella, è lo stupendo dono di Dio all’umanità, è la cultura umana. In tibetano Dio si dice “Kon-jò”, termine con cui si definisce ciò che è più prezioso, supremo, “Kon-jò sum” sono i Tre Gioielli,  “Kon-jò sik”è Dio. 
Trovo strane le complicazioni delle lingue occidentali sulla parola Dio, o God, o altro, le mille definizioni che si cercano per chiarire il concetto, mi paiono davvero inutili, basta dire che si parla della “Somma Natura” e per noi esseri umani è la nostra somma natura, se lo dimentichiamo ci sentiamo completamente persi. La vigilanza della mente è l’essenza e chi vuole praticare il Dharma deve semplicemente sorvegliare la propria mente. 
Sāntideva era noto per dormire moltissimo, avrebbe potuto ricevere il premio nobel per la pace ottenuta nel sonno, sorvegliava costantemente la mente. Lo stesso significato del nome: Sānti = Pace, e Deva = Divinità, quindi una pace divina ed è esattamente ciò che lui insegna nel modo più semplice. Leggiamo il secondo e terzo verso.
“Gli elefanti in calore che vagano selvaggi non provocano in questo mondo tanta devastazione quanta ne crea nell’Avīci e negli altri inferni quell’elefante vagabondo, la mente, lasciato libero.”
“Ma se l’elefante vagabondo, la mente, è impastoiato da ogni lato con la corda della presenza mentale, ogni pericolo svanisce e ne risulta la completa prosperità.”
Al fine di proteggere la mente è necessario legarla e sviluppare la presenza mentale. Il termine “legare” è metaforico e sottintende sorvegliare amorevolmente e costantemente come fanno i genitori con i loro figli per proteggerli, lasciandoli crescere nella libertà e preoccupandosi di nutrirli adeguatamente e di educarli. Una grande cura nell’uso dei termini è indispensabile perché, se qualcuno interpretasse letteralmente che bisogna legare la mente, sarebbe davvero orribile!...
Sorvegliare la mente è il mezzo per poter automaticamente annullare gli ostacoli e ottenere le qualità. Questo è contenuto nel terzo verso. 
Un elefante vagabondo rappresenta l’errore. In India il possesso di un elefante fa la differenza tra povertà e agiatezza, è sufficiente passeggiare per le strade con l’elefante e ci saranno sempre persone pronte a fare offerte perché l’elefante è simbolo della divinità. La gente offre denaro che l’elefante raccoglie con la proboscide passandolo al suo padrone. L’elefante è fortissimo e, se non è domato, è in grado di provocare tremende distruzioni, ecco perché si utilizza questa analogia per definire la mente domata o non domata, la differenza sono i benefici o le difficoltà. 
In Tibet esiste un unico elefante, offerto dal re di Varanasi al Dalai Lama. Questo elefante a Lhasa era accudito da un guardiano svogliato e pigro che se ne curava malamente e gli sottraeva il cibo, un giorno l’elefante, animale notoriamente intelligente, si è inquietato e lo ha buttato in acqua trattenendolo fino alla morte. Si dice anche che, se si ottiene la fiducia e l’amicizia di un elefante si è sicuri di goderne per tutta la vita. In Nepal non ci sono molti elefanti ma, quando ero piccolo, ne arrivò uno al villaggio e molte persone vi si gettavano sotto perché è credenza che questo atto purifichi e protegga da tutti gli ostacoli, i tibetani sono superstiziosi. 
L’elefante è utilizzato in questo testo a causa della sua preziosità. Il sesto verso dice: 
“Poiché tutte le paure e le incomparabili sofferenze sorgono dalla mente soltanto. Così è stato segnalato dal Maestro della Realtà.”
Altri versi dal sedicesimo:
“L’Onnisciente ha dichiarato che ogni recitazione e austerità, pur se praticate per un lungo periodo, sono del tutto inutili se la mente è concentrata su qualcos’altro o è ottusa.”
“Coloro che non hanno sviluppato questa mente, che è nascosta e contiene la somma intera dei dharma, girano in un cerchio invano tentando di ottenere la felicità e distruggere la sofferenza.”
“Perciò dovrei governare e sorvegliare bene la mia mente. Se lascio andare il voto di sorvegliare la mente, che ne sarà dei miei tanti altri voti?”
“Come qualcuno, nel mezzo di una folla impetuosa, con grande cura protegge una ferita, così, nel mezzo di una cattiva compagnia, sempre si dovrebbe proteggere le ferita che è la mente.”
“Temendo un leggero dolore alla ferita, proteggo la ferita con grande cura. Perché non la ferita che è la mente, temendo i colpi delle montagne schiaccianti dell’inferno?”
“Giungendo le mani, rendo questo atto di saluto a coloro che desiderano sorvegliare la loro mente. Con ogni vostro sforzo, vigilate su presenza mentale e consapevolezza.” 
Questa è l’essenza del Dharma, sorvegliare, vigilare la propria mente, che è il miglior metodo per essere in pace, qualsiasi cosa si faccia è necessario mantenere la consapevolezza. La pace non dipende dal luogo in cui si è o di qualsiasi altro elemento esterno, l’autentica pace è l’essere in pace con se stessi, in unione con se stessi, perché, al contrario, sentirsi disturbati da qualcosa significa essere in una situazione di divisione interiore che ci fa perdere nella confusione. 
Se troviamo la nostra mente troviamo il nostro protettore. 





Come superare la Sofferenza


Il desiderio umano immediato è auspicare esperienze piacevoli, evitando quelle spiacevoli, ma in realtà questo non è il nostro autentico atteggiamento istintivo di base che invece è l’aspirazione a pace, calma, tranquillità, serenità. 
Voler vivere solo esperienze piacevoli evitando quelle spiacevoli è un desiderio inevitabilmente parziale che di conseguenza si trasforma in sofferenza, desiderare esperienze piacevoli è sofferenza esattamente come non desiderare esperienze spiacevoli.
Buddha ha detto che per poter superare la sofferenza è necessario prima di tutto conoscerla. Spesso soffriamo perché semplicemente non conosciamo la sofferenza, perché maggiore è la nostra capacità di conoscere e riconoscere la sofferenza per quella che, maggiore è la nostra capacità di superarla. 
La sofferenza in genere si presenta a noi mascherata, nascosta e il miglior modo per smascherarla ed evitarla è il saperla riconoscere. 
C’è la sofferenza del momento presente e la sofferenza futura, quella che giungerà, e che ci dà la possibilità di evitare le cause e condizioni che la potrebbero determinare. La sofferenza futura è più facilmente eludibile rispetto a quella del presente. 
Se si impara ad osservare la realtà della sofferenza si è nella condizione di poterla riconoscere più facilmente e dimorare nell’equanimità, nella una via di mezzo. 
La sofferenza può nascere dall’averne paura considerandola una realtà intoccabile, ma è sbagliato, la miglior risposta è la via di mezzo: “Molto Bene Poco Male” è una condizione eccellente e reale nel samsara. La presenza del poco male permette la presenza del molto bene, mentre “tutto bene” sarebbe una realtà assolutamente impossibile. 
La maggioranza delle persone chiedono “come stai?” e alla mia risposta “molto bene e poco male” rimangono sconcertati, non potendo accettare che ci sia anche quel poco di male e proprio quest’attitudine è fonte di sofferenza, non vedono il molto bene ma considerano soltanto il poco male. Quello che vorrebbero sentire è Tutto bene, ma non è possibile, sarebbe un desiderio irrealizzabile che procurerebbe solo difficoltà e sofferenze. 
Il poco male invece è un’ottima notizia perché sottintende il molto bene, la via di mezzo. La felicità stessa è un fenomeno interdipendente, così come la sofferenza, ed  entrambe determinano il livello dei problemi. 
L’ottimismo aiuta molto, tendenzialmente però abbiamo un atteggiamento pessimista che ci spinge a voler risolvere ogni problema immediatamente, mentre dovremmo essere così ottimisti da lasciarlo decantare. Da qualche giorno ho un fastidio ai denti, ma ho deciso di non considerarlo un problema, lo lascio stare un po’ là. 
Invece il desiderio di trovare una soluzione immediatamente, anche quando mancano i presupposti per attuarla, non fa altro che aggiungere condizioni per ulteriori sofferenze, dovremmo invece essere in grado di sopportarne la presenza con calma e serenità. 
E’ interessante la possibilità di osservare i problemi, magari di metterli su un altare e fare un’offerta. Perché le offerte devono essere presentate solo ai Buddha e ai Bodhisattva e non ai problemi stessi? non c’è equanimità, messi su un altare e ricevendo offerte, i problemi ci diverrebbe molto amici!...dobbiamo mostrare gentilezza anche nei loro confronti. Certamente è una dimostrazione di grande coraggio mentre nel volerli risolvere subito c’è soltanto un atteggiamento di grande paura. 
Non stiamo parlando di fantasie ma della realtà, l’eccessivo attaccamento alle cose positive e l’avversione a quelle negative causano i maggiori guai della nostra vita, per quanto possibile bisogna avere un atteggiamento equanime, un ottimo modo per mantenere nell’equilibrio la vera gioia e felicità. 
Sarebbe interessante mettere sull’altare assieme ai tre gioielli “Buddha, Dharma e Sangha” anche attaccamento, avversione, e ignoranza in questa modo vedremo più chiaramente la natura di questi tre veleni. Per questo motivo sollecito sempre la lettura di Sāntideva che afferma che il rispetto che si deva al Buddha è uguale al rispetto che si deve a tutti gli esseri senzienti. Capitolo VI°, dal versetto 112 al 118
“Per questo motivo il Saggio ha detto che il campo fertile degli esseri viventi è il campo fertile dei Vittoriosi, perché molti rendendoli propizi hanno raggiunto la realizzazione e la perfezione spirituale.”
“Se la trasmissione delle qualità di un Buddha proviene in egual misura dagli esseri comuni e dai Vittoriosi, che senso ha non rendere agli esseri comuni quell’omaggio che si rende ai Vittoriosi?
“La grandezza dell’intenzione non deriva dall’intenzione stessa ma dal suo effetto, e dunque la grandezza è sempre uguale. In tal caso gli esseri comuni sono pari ai Vittoriosi.”
“E’ grandezza da parte degli esseri che sia degno di onore chi ha una disposizione amichevole, proprio come è grandezza da parte dei Buddha che il merito provenga da una serena fiducia nei Buddha.”
“Perciò, in un aspetto della trasmissione delle qualità dei Buddha gli esseri comuni sono pari ai Buddha. Certo, nessuno è del tutto pari ai Buddha, che sono oceani di virtù dagli aspetti illimitati.”
“Se da qualche parte compare anche solo un atomo di quelle virtù che sono un’unica massa dell’essenza stessa della virtù, neppure i tre mondi sarebbero sufficienti per venerarlo.”
“Ma l’aspetto certo migliore dello sviluppo delle qualità di un Buddha è relativo agli esseri comuni. In base a questo aspetto, si onorino gli esseri comuni.”
Il modo di pensare di Sāntideva è davvero unico, lo stesso rispetto che nutriamo per il Buddha lo dobbiamo agli esseri senzienti. Perché abbiamo rispetto del Buddha? Perché ci ha insegnato tutto, ci benedice, ci permette di accrescere le nostre buone qualità, ma se non ci fossero gli esseri senzienti cosa faremmo? sono loro che ci offrono l’opportunità di sviluppare compassione e gentilezza amorevole in modo diretto. Tutte le buone qualità di gioia, di soddisfazione, dipendono dagli esseri senzienti che, di conseguenza, sono altrettanto preziosi del Buddha, e considerare questo è una pratica semplice ed efficace, per me è quasi più facile onorare gli esseri senzienti che vedo, con cui comunico, piuttosto che un’immagine una raffigurazione del Buddha storico che ora è passato, e se c’è un Buddha nel presente non lo sappiamo.
Le offerte di frutti sull’altare si deteriorano presto e l’incenso brucia e si consuma; i comunisti cinesi occupando il Tibet si stupirono moltissimo nel vedere un popolo che, avendo grandi difficoltà nel trovare cibo, si preoccupava di portare tante ricchezze perché nei templi, statue d’oro, burro per le lampade e farina di orzo, offerte pagate con i loro tributi. In questo caso non vi era una condizione di equanimità, tanti onori al Buddha e poco per gli esseri viventi, Sāntideva invece dice che il miglior modo di onorare il Buddha è onorare gli esseri viventi.
La rivalità tra i monasteri per dimostrare di avere il tempio più ricco, più grande non è davvero un buon modo di rendere omaggio al Buddha, ma è soltanto rendere onore alla rivalità stessa. Il Dalai Lama ammonisce spesso i tibetani affermando che molti aspetti della pratica del Dharma in Tibet sono errati.
Seguendo l’insegnamento di Sāntideva, invece di lasciar marcire la frutta sull’altare sarebbe meglio offrire frutta fresca agli esseri viventi che ne hanno bisogno e, in questo modo, si fa contemporaneamente un’offerta al Buddha; sfamare un essere vivente è come porgere  cibo al Buddha.
Dall’attaccamento e dall’avversione sorgono i maggiori problemi, lo stesso attaccamento al Buddha ci impedisce di vedere gli esseri viventi, ci allontana dall’equanimità, mentre la felicità scaturisce dall’equanimità, dalla via di mezzo.
E’ possibile superare la sofferenza solo allontanandosi da attaccamento e avversione per rimanere nella via di mezzo, con l’amore e la compassione dell’equanimità che deve essere presente in ogni azione, pensiero e parola.
L’attaccamento al Maestro, l’attaccamento al Buddha, l’attaccamento a Dio stesso senza equanimità, è pericoloso perché ci fa ignorare gli altri esseri viventi. 



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Parte Terza 








DHARMA e TECNICHE di MEDITAZIONE









ASSISI  -  Dicembre 2004

Benvenuto


Questo incontro è cominciato piacevolmente, con canti e musica sacra, creando un calore particolare tra noi, quasi una sorta di beatitudine. E’ un momento in cui cause e condizioni si incontrano e l’energia non è trasmessa da persona a persona, ma è la stessa natura della realtà interdipendente che, percepita, diventa una beatitudine fortemente positiva. Si crea una situazione non causata da una specifica realtà, ma frutto di un sistema generale naturale a cui semplicemente  aggiungiamo le cause e le condizioni di necessarie. 
E’ importante vivere queste buone esperienze per noi stessi e, quando saremo capaci di assimilarle in noi, saremo in grado di darle anche agli altri, e questa è la felicità. 
Ricerchiamo perennemente la felicità, un famoso maestro tibetano, Kündü Chendü, morto nel 1950, diceva che un verme nella terra, anche se non ha le gambe corre verso la felicità, e le formiche che non hanno occhi corrono verso la felicità, in breve tutti gli esseri corrono verso la felicità.
A Pechino si vede una fiumana di biciclette, a Shanghai una gran confusione di gente che corre, e questo è il livello visibile, ma in quello invisibile ce ne sono molti di più. Tutto l’universo corre verso la felicità inclusi il verme senza gambe e le formiche senza occhi.
Domanda: Come si va verso la felicità?
Lama: piano piano, senza correre, la felicità arriva lentamente.
Questa è la natura delle cose, noi siamo esseri samsarici e dobbiamo capire com’è formato il mondo, comprendere come vanno le cose è abbastanza semplice, è una corsa generale verso la felicità, caratteristica comune di tutti gli esseri samsarici. 
A questo punto è doverosa una distinzione intelligente tra la vera felicità, la falsa felicità, la felicità breve, la felicità duratura. Con intelligenza si può riconoscere la felicità genuina e duratura, ma con poca intelligenza questa capacità di discernimento è ridotta e il rischio di confusione è maggiore, tutto dipende dalle capacità personali, è importante saper distinguere e comprendere quale deve essere l’approccio ai diversi tipi di felicità.
Non è affatto facile capire ciò che veramente si vuole, e comunque non è sufficiente conoscere l’obiettivo, perché è necessario sapere come realizzarlo. L’aspetto è duplice: quale felicità e come raggiungerla. La meditazione è l’aiuto necessario per pulire la mente e ottenere la corretta visione.
In questi due giorni di ritiro tenteremo di far chiarezza nella mente su quale felicità vogliamo e come ottenerla, altrimenti continueremo a correre e correre, senza raggiungere nessuna meta.
Io provengo da una cultura tradizionale e mi riesce naturale capire che la mente crea tutto e che la si può conoscere tramite la meditazione, mentre in occidente manca questo strumento culturale e la mente è una grande sconosciuta. 
Agli interrogativi naturali che si presentano sia in oriente che in occidente: “la mente esiste o non esiste”, “dov’è collocata la nostra mente”…. spesso non si hanno gli strumenti per rispondere. Nel buddhismo da sempre si è studiata la mente ma l’analisi filosofica per provare l’esistenza della natura della mente è difficile, è possibile solo conoscerla solo attraverso la propria esperienza, nessuno dall’esterno può modificare o entrare in quest’esperienza. 
Tendenzialmente aspettiamo sempre che qualcuno dall’esterno intervenga meccanicamente e risolva ogni problema, curi la nostra mente, ma non funziona così, solo noi possiamo percepirla e modificarla. Noi sentiamo la nostra mente, ma non riusciamo a capirla né a localizzarla e allora preferiamo aspettare un impossibile aiuto esterno che magicamente provveda al posto nostro, però solo noi possiamo davvero conoscerla. 
E’ interessante il confronto tra culture diverse, in oriente nasciamo già con gli strumenti per comprendere e sperimentare la mente perché è parte intrinseca della nostra cultura, strumenti che voi invece dovete conquistare, non li avete naturalmente, è necessario dunque che manteniate sempre la presenza mentale per sentire le vostre esperienze con consapevolezza.
In questo ritiro ci prefiggiamo lo scopo di usare la mente e la meditazione come strumento per osservare e riconoscere la mente, nella consapevolezza di ogni momento della nostra esperienza. Quando si è consapevoli, svegli e coscienti si possono fare solo buone cose e per questo è necessaria la meditazione. 
Siamo ad Assisi, un luogo particolare per l’ecumenismo, qui abbiamo la possibilità di pregare in modi differenti, è bellissimo e connesso con l’energia di questa terra. E’ importantissimo sviluppare la comprensione e la tolleranza religiosa e Assisi è un posto speciale e benedetto per eliminare ogni barriera e costruire l’unione, condividere preghiere e tradizioni è una pratica difficile ma grandissima. 
Io penso che sia possibile la condivisione di differenti pratiche e religioni senza che vi sia alcuna contraddizione, una persona può usare più preghiere differenti, lo spirito è lo stesso. A Gerusalemme, o anche a Bodhgaya in India, ovunque sorgano problemi tra buddhisti, islamici, induisti, o altro, si crea un’intolleranza molto grave con inutili e dannose divisioni. Bisogna aprire il cuore, costruire insieme nella tolleranza e non distruggere nell’intolleranza.
Siamo in questo luogo benedetto per praticare il Dharma e accogliamo con gioia questa opportunità di confrontare le nostre preghiere nell’ecumenismo.






Introduzione alla Meditazione Shiné di Calma Dimorante


Dalla scienza giunge una notizia bellissima che corrisponde pienamente ai principi buddhisti ed è il riconoscimento della possibilità di sviluppo infinito della mente senziente, uno stupendo messaggio di speranza per ognuno di noi che ha conferma di poter sviluppare le proprie buone qualità mentali all’infinito. 
Se da un punto vista scientifico si può affermare che esiste la possibilità di uno sviluppo infinito delle caratteristiche mentali, dal punto di vista spirituale la differenziazione delle qualità mentali è altrettanto importante perché, mentre le qualità positive possono essere sviluppate all’infinito, quelle negative hanno un ben definito limite, e mi chiedo se in realtà non esista analoga distinzione anche in campo scientifico. 
Dal punto di vista spirituale è assolutamente evidente che le qualità positive possano svilupparsi infinitamente così come non è assolutamente pensabile che qualità negative possano crescere illimitatamente, non avrebbe alcun senso. 
La nostra condizione è proprio quella di essere sempre contesi tra le due forze, positiva e negativa e noi, per abitudine, tendiamo ad indulgere in quella negativa mentre la nostra mente tenderebbe naturalmente alle qualità positive che hanno una loro evidente, chiara e luminosa ragione.
Le qualità positive sono supportate dalla consapevolezza che non è affatto presente in quelle negative in cui indulgiamo a causa dell’abitudine mentale, siamo strattonati dalla metaforica rappresentazione che contrappone “diavoletto e angioletto”, da un lato c’è il nostro angelo custode che ci richiama alla chiarezza e dall’altra il diavoletto che ci tenta nell’abitudine pigra. Questa metafora mi ha colpito e rende bene la visione di due forze contrapposte che alternativamente prevalgono in noi e ci trascinano costantemente durante tutta la vita ma, rendendocene conto, abbiamo la possibilità di intervenire e modificare le scelte. In assenza di consapevolezza invece ci si perderà in infinite domande senza risposta sul perché accadono le cose, arroccandosi in sterili e inutili “non è giusto”, “perché proprio a me” “perché io”….
Dibattito: ( vengono riportate frasi, spesso scollegate tra loro perché una parte degli interventi non è udibile) 
 La negatività non può essere infinità perché ha in sé l’autodistruzione, porta alla morte, all’inevitabile esaurimento, mentre la positività si espande nella consapevolezza. 
 Avendo un termine ogni negatività inevitabilmente dovrà trasformarsi in positività.
 L’etimologia greca dimostra che non si può dividere infinitamente mentre si può costruire infinitamente. Noi percepiamo tramite i nostri recettori gli avvenimenti che in realtà non sono così come li percepiamo per cui, osservando i fenomeni ultimi, possiamo vederne o l’aspetto ondulatorio o l’aspetto corpuscolare, la dimensione fisica oppure l’energia dell’atomo ma essendo limitati, non possiamo coglierne l’unità nella sua complessità. Il limite è nell’osservatore non nell’oggetto osservato. 
 Anche a livello scientifico si manifesta l’assoluta interdipendenza di ogni fenomeno.

L’argomento di oggi è la meditazione Shiné, o concentrazione sul singolo punto, la meditazione per calmare la mente, la calma dimorante, il dimorare nella calma. 
La meditazione di Shiné lascia la mente nel piacevole stato della calma, senza forzature, rilassa la mente in uno stato di calma, un ottimo modo per allontanarsi dalle preoccupazioni non necessarie, dalle usuali paure. 
Le letture di questi giorni ci hanno dimostrato quanto siano fondamentali per la nostra crescita e formazione spirituale e, anche se non riusciamo a comprenderne completamente il significato, ne cogliamo la profonda bellezza, facendo tesoro di tutto ciò che possiamo conoscere che siamo in grado di mettere in pratica. 
E’ una forma di semplicità, una conoscenza semplice, una pratica semplice, una vita semplice, perché una pratica troppo elevata e complessa non produrrebbe altro che una vita molto complicata; non c’è niente di meglio della semplicità. 
Arrivo a dire che questi testi possono essere paragonati a un “menù di pratica”, ed è difficile scegliere tra i vari cibi proposti, a noi ne basterebbe solo uno, e dunque è bene procedere con molta calma, sia per la pratica come per lo studio, noi non siamo fatti per complicarci la vita, ma per semplificarla, anche se complicare le cose sembra più facile che renderle semplici. 
Riuscire a semplificare le cose significa averne colto l’essenza. Mentre nella complicazione non riusciremo mai a scegliere intelligentemente, a comprende quanto è realmente necessario e quanto non lo è.





Tutto è Dharma 


Oggi approfondiremo il significato del Dharma, nel pomeriggio proseguiremo con domande e risposte dedicando l’ultima parte della giornata all’approfondimento del Lhag-thong, o Vipassanā, la visione profonda. Nulla di speciale, tutto è Dharma, tutto è Dio, tutto è Bhagavan, l’importante è saperlo, riconoscerlo.
Due settimane fa ero a Vicenza in un Centro prevalentemente induista in cui vi è l’abitudine, durante i pasti, di presentare un’offerta di cibo accompagnata da una preghiera che riconosce la realtà di Dio in ogni elemento, tutto è Dio, il cibo è Dio, noi stessi siamo Dio. Un concetto magnifico perché, al di là delle parole, ha un significato profondo e stupendo. In termini buddhisti si potrebbe dire che tutto è Dharma, io sono Dharma, voi siete Dharma, il Dharma è presente in tutti i fenomeni che hanno in sé un’essenza bellissima ed è nostro compito coglierla.
In ogni realtà esiste lo spirito dharmico, divino, la natura del Bhagavan e, riconoscendola, si osserva il vero mandala, la pura visione non costruita da architetti, naturalmente pura. 
Nel momento stesso in abbiamo, tramite la purificazione della mente, la visione naturale di ogni evento, situazione e realtà i nostri occhi sono parte del mandala. Questa casa diventa divina, gli amici, noi stessi, acquisiamo la natura divina. 
La purificazione della mente è fondamentale perché in essa si purifica tutto, mentre non è automatico il suo contrario, non è affatto scontato che attraverso la purificazione dell’esterno si ottenga la purificazione della mente.
Questo è il modo corretto per accostarsi ad ogni realtà, a Dio, al Bhagavan, a tutto. Il mandala, la pura visione, la purificazione della mente, sono strettamente connessi, e corrispondono all’essere ottimisti, una prospettiva che ci fa osservare la parte migliore di ogni realtà, e la parte migliore è il Dharma.
L’osservazione nella prospettiva dell’ottimismo è una preziosa qualità del samsara perché permette di trasformare tutto in ottime, meravigliose esperienze, in gioia, felicità, rilassamento e positività.
E’ una buona riflessione sulla qualità del samsara perché, generalmente, essendo nel samsara abbiamo continue aspettative a proposito del nirvana, ma quando saremo nel nirvana avremo superato ogni sofferenza e dunque non avremo più bisogno del nirvana.
L’aspetto pratico del Dharma è dunque una qualità del samsara e non va oltre, ci rimanda alla natura divina, alla natura del Dharma ed è importante averne consapevolezza, essere presenti e capaci di coglierne l’essenza profonda in ogni fenomeno. 
Questa è una pratica importante, finché siamo nel samsara tutte le esperienze saranno di tipo samsarico, e ne è l’aspetto migliore, non bisogna sempre considerare il samsara come sofferenza, dukkha, dolore. La parola originale dukkha è stata tradotta con i termini più drammatici, tanto che il samsara appare più terrificante di come non sia in realtà. 
Il samsara è la causa del nirvana. Essere nel samsara riuscendo a viverne l’aspetto positivo permette di sperimentare qualcosa di molto speciale. e poi….. una volta arrivati nel nirvana non ci sarà più nulla di così particolare!...
Alcuni studi buddhisti definiscono i Bodhisattva, coloro che hanno l’attitudine altruistica, la bodhicitta, più preziosi e degni di omaggio degli stessi Buddha perché, mentre i Buddha ormai sono al di là di ogni sforzo e tutto è naturale, il Bodhisattva ha come impegno di servire tutti gli esseri, continuamente, si trova in una situazione in cui è soggetto a sofferenze e deve esercitare continuamente grandissimo sforzo ed enorme coraggio e quindi, benché la sua attitudine altruistica lo ponga allo stesso livello dei Buddha è ancor più degno di considerazione. 
In questo senso, a causa della bontà supportata da grande impegno e coraggio, la figura del Bodhisattva ci è più familiare e vicina rispetto ai Buddha. Di fronte all’immagine del Bodhisattva possiamo sviluppare l’intenzione di diventare come loro e riconoscere lo sforzo e l’impegno necessari, mentre non possiamo rapportarci allo stesso modo con un Buddha che realizza tutto senza sforzo, per noi non avrebbe nessun senso mancando ogni elemento di comparazione.
Un obiettivo più stimolante, realistico e adeguato alle nostra capacità è sicuramente quello di aspirare al livello del Bodhisattva, piuttosto che a quello più elevato dei Buddha. Anzi per noi potrebbe già essere ottimo l’obiettivo di raggiungere il livello degli esseri superiori, i praticanti solitari, gli Arhat, piuttosto che sognare direttamente il nirvana.
Riflettendo sul nirvana tutti gli altri livelli appaiono inferiori perché contengono dukkha, ma è proprio questo il loro valore, la grandezza, all’interno del samsara stesso, è fondamentale riconoscerne l’essenza positiva. Saper vedere la qualità del samsara dal suo interno è come vedere l’aspetto pratico del nirvana.
Si parla continuamente del nirvana in modo estremamente complicato, da una parte lo si definisce, in relazione al samsara, come qualcosa che non ha dualità e dall’altra si dice che lo si ottiene andando oltre il samsara; una visione eccessivamente articolata e complessa che potrebbe generare confusione, per questo è meglio mantenere la mente salda nella visione pratica del Dharma. 
Andare oltre il samsara è arduo, significherebbe complicarsi la vita e non semplificarla. Semplificare la vita è semplificare il samsara, e semplificare il samsara è riuscire a cogliere e vivere gli aspetti positivi del samsara. 
Che significa andare oltre il samsara? andare fuori? ma dov’è questo fuori? Teoricamente potrebbe sembrare affascinante, ma praticamente sorgono immediate contraddizioni perché se c’è nirvana non c’è samsara, se c’è samsara non c’è nirvana e quindi non c’è assenza di sofferenza, se c’è assenza di sofferenza non c’è presenza di sofferenza, ma questi due aspetti devono essere posti in interrelazione.
L’affermazione io sono Dio, il cibo è Dio, tutto è Dio, esprime un profondo significato, certamente non letterale, nessuno può affermare di essere Dio, perché dichiara la fondamentale esperienza del divino. 
Il Dalai Lama diceva che, alla domanda se Gesù sia un Buddha o un Bodhisattva, tutti rispondono che è un Buddha perché è il livello più alto, però non è detto che questa condizione sia superore perché affrontare la sofferenza del samsara è più eroico e coraggioso, e rende la figura di Gesù molto più vicina e viva.
In ogni momento, in ogni evento della vita c’è lo spirito del Dharma e se lo riconosciamo godiamo esperienze di gioia, di beatitudine e di tutte possibilità che vita ci presenta. Non sappiamo se abbiamo la capacità di afferrarle pienamente, ma in ogni caso ne abbiamo la possibilità, per questo il Dharma è importante.





Dharmakaya


In Italiano Dharmakāya è tradotto “corpo di Dharma”, è una delle tre forme del Buddha, che sono: Dharmakāya, Sambhogakāya e Nirmānakāya. 
Il Dharmakāya è relativo all’illuminazione della mente e presenta due aspetti uno è relativo alla natura della mente e l’altro è lo stato illuminato della mente. Come natura della mente si intende la sua stessa vacuità. 
Il Sambhogakāya, detto corpo di godimento, corpo di fruizione, corrisponde alla forma fisica in cui si può manifestare l’illuminazione. Partecipa alla stessa natura della mente del Dharmakāya e affina l’aspetto fisico.
La terza forma, il Nirmānakāya, o corpo di emanazione, è una sorta di computer programmatico che funziona in automatico e si manifesta a seconda delle necessità degli esseri, dipende dal Sambhogakāya che ha la stessa natura della mente del Dharmakāya, e spontaneamente uniti all’intenzione, si producono in questa manifestazione.
In quasi tutte le religioni incontriamo i tre copri di emanazione, nell’induismo si parla delle emanazioni del Bhagavan e sono riportati anche tutti i nomi; un’idea di emanazione esiste anche in ambito teologico, e nel buddhismo tibetano abbiamo tanti reincarnati, anche troppi e non tutti si comportano alla perfezione, sono tutte situazioni che hanno radici in questo tipo di concezione ma nessuno ne può affermare con certezza la correttezza.
Nella cultura tibetana i grandi maestri hanno l’abitudine di specificare nelle disposizioni testamentarie indicazioni rispetto alla prossima reincarnazione, ma questo può creare guai e complicazioni perché spesso esistono più testamenti e le interpretazioni possono travisare le parole del Bhagavan. 
La mente umana ha una notevole capacità di manipolare e interpretare ogni situazione e nei film se ne ha la prova, ad esempio la consegna delle tavole della legge a Mosè è stata enfatizzata in modo spettacolare e ha catturato completamente la fantasia dello spettatore che ha visto trasportata su pellicola un’azione divina. 
Il problema è che noi siamo coloro che giudicano i detti del Buddha e spesso sbagliamo, io penso che nessuno possa rendere ufficiale un’emanazione del Buddha, perchè tutte le emanazioni che provengono dalla mente di illuminazione possono apparire in qualsiasi forma con l’unico obiettivo di servire e aiutare gli altri. A dimostrazione della nostra capacità di manipolazione e di errore ci sono le trascrizioni del passato con i nomi delle possibili emanazioni, tutti rigorosamente ed esclusivamente maschili, e questo certamente non può essere vero.
Le forme di emanazione possono essere infinite ma il corpo di godimento è unico. Tutte le divinità, che possono avere sei braccia, cento braccia, due teste, mille occhi,…sono generalmente corpi di godimento e il numero degli elementi che lo compongono, cioè il numero di teste, occhi, gambe, braccia, eccetera, rappresenta esattamente le realizzazioni della divinità. 
Invece i corpi di emanazione corrispondono esattamente ai bisogni dell’essere che necessita di aiuto e non hanno a che fare con la manifestazione delle realizzazioni dell’essere illuminato. Per questi motivi anche oggi abbiamo guru molto ricchi che aiutano tante persone, come Osho, e guru molto poveri che possono essere altrettanto utili e benefici a seconda delle necessità individuali delle persone. Ci sono addirittura guru che non insegnano, cioè insegnano attraverso il non-sapere. Sono tutte situazioni singolari, misteriose emanazioni dei Buddha, veramente interessanti se analizzate attentamente. Anche nel cristianesimo al tempo di san Francesco, poverissimo, c’erano prelati ricchi; ognuno trova la sua collocazione e può rispondere in modo adeguato alle diverse esigenze delle persone. 
In Tibet si racconta la storia di due importanti yogi, il primo, Sakyapandita, era un grande erudito e studioso che si muoveva sempre accompagnato da un imponente seguito, mentre il secondo era uno yogi folle che girava per il paese in modo dimesso e solitario. 
Entrambi avevano poteri magici e un giorno Sakyapandita incise su una roccia, con il solo dito, due frasi: “Nella parte settentrionale del Tibet io sono il migliore” e “Nella parte meridionale del Tibet Sakyapandita è il migliore”. 
Dopo un po’ passò per la stessa strada il secondo yogi che, avendo gli stessi poteri miracoli, apportò, sempre usando soltanto il dito, una piccola correzione (come sapete le lettere dell’alfabeto tibetano sono composte da più segni ed è sufficiente modificarne uno per cambiare completamente il loro significato) e il senso delle frasi risultò essere “Nella parte settentrionale del Tibet io sto piangendo” e “Nella parte meridionale del Tibet Sakyapandita sta piangendo”
Siamo in presenza di due maestri assolutamente differenti eppure entrambi di aiuto ai loro contemporanei. 
Lo stesso vale per Milarepa e per gli altri maestri dell’epoca, sono modi diversi di praticare il Dharma, ma è sempre Dharma. 
Il corpo di emanazione ha un’apparenza non fissa che può modificarsi in base alle necessità degli altri. 
Il massimo sviluppo dei meccanismi mentali porta al Dharmakāya da cui si possono produrre infiniti corpi di emanazione con lo scopo di essere di aiuto agli altri. 





Natura e Interdipendenza di tutti i Fenomeni


Domanda: A proposito di quanto si è detto ieri circa la natura interdipendente della realtà, nella nostra cultura con il termine indipendenza si intende tutto, il massimo delle possibilità, il meglio di ogni situazione, per cui vorrei maggiori chiarimenti sulla natura interdipendente.
Lama: Dal punto di vista convenzionale l’indipendenza è importante, i tibetani lottano da quarantacinque anni per ottenerla, eppure nella realtà un Tibet indipendente non esiste, non è mai esistito, né potrà esistere in futuro, solo esiste la natura interdipendente del Tibet, perché lo stesso concetto politico di stato indipendente implica una interdipendenza. La causa della sua indipendenza dipende dall’esistenza dei paesi confinanti e quindi è interdipendente con essi. Una indipendenza esclusiva, che non dipenda dai paesi confinanti, è impossibile.
 Anche nella vostra cultura e mentalità è importante comprendere che la cosiddetta indipendenza esiste soltanto grazie a tutta una serie di fattori concomitanti da cui dipende. Non è possibile trovare una realtà indipendente che non dipenda da altro. E’ un aspetto fondamentale che tendiamo sempre a scordare, l’indipendenza è posta in essere grazie a tutta una serie di cause e fattori da cui dipende. La natura interdipendente della realtà significa che ogni cosa esiste in dipendenza da altro.
Al di là del concetto di indipendenza ciò che conta è la ricerca della felicità, ed è impossibile pensare di raggiungere la felicità in modo indipendente, la si può ottenere solo grazie al contributo degli altri. 
Per esempio la mattina appena svegli si desidera un buon caffè con brioche e lo si può facilmente avere con la piccola spesa di uno o due euro e, grazie alla gentilezza del barista, dei fornitori e ancora prima dei coltivatori di grano e caffè, si ha il miglior caffè con brioche che si potrebbe desiderare perché se si dovesse provvedere a in tutto in proprio, dalla semina del caffè e del grano ecc. non si otterrebbe nulla in poco tempo e il costo sarebbe comunque spropositato. Anche in queste piccole cose possiamo apprezzare la realtà della natura interdipendente e, con rispetto, goderne pienamente. Se non si è in grado di realizzare la natura interdipendente dei fenomeni non si ha rispetto e non si trae piacere dalle situazioni della vita.
Spesso gli amici mi ringraziano per l’insegnamento, per la buona meditazione, ma io rispondo sempre di non ringraziare me bensì la natura interdipendente della realtà.
La realtà della natura interdipendente dei fenomeni è magnifica e dobbiamo apprezzarla ad ogni istante, perché tutte le cose buone ne sono il risultato. Ottima domanda.
Domanda: Ho sentito il Dalai Lama parlare per due ore su questo soggetto, ma confesso di non aver capito molto.
Lama: L’argomento della realtà della natura interdipendente è trattata nella cultura tibetana con particolare attenzione perché può riferirsi a un numero eccezionale di fonti qualificate. Il Dalai Lama ne cita sedici o diciassette, in alcuni casi è si è perduto il testo originale sanscrito ed esiste solo la traduzione tibetana. Su queste scritture si sono approfonditi ulteriori studi e commentari il che comporta che durante tutto il percorso monastico, soprattutto a livello universitario, questo tema sia ripetutamente affrontato. E’ dunque necessario possedere una solida conoscenza delle fonti originarie e dei successivi commentari per poterne parlare, altrimenti, chi non ha queste basi e ascolta una discussione tra studiosi, ha difficoltà di comprensione. La difficoltà di comprensione delle argomentazioni del Dalai Lama dipende in parte da questo e in parte dalle traduzioni in simultanea prima in inglese e poi in italiano, a questo punto gran parte del significato originario è persa. 
 Questo soggetto è trattato particolarmente nei versi sella “Saggezza Fondamentale” di Nagarjuna, in cui si approfondiscono i due aspetti fondamentali: uno è la vacuità e l’altro è la natura interdipendente dei fenomeni, due facce della stessa medaglia. 
 Il temine vacuità è molto usato nel buddhismo, però spesso le persone interpretano erroneamente la parola come “nulla”. Nagarjuna tenta di affrontare l’argomento della vacuità senza parlarne direttamente ma attraverso la realtà della natura interdipendente, per cui si dice che un fenomeno ha natura vacua perché la sua esistenza trae causa dalla natura interdipendente.
 Questi termini si prestano a molti fraintendimenti, ci può essere una tendenza a pensare che la natura interdipendente significhi un’affermazione, una positività, un esistere e, al contrario, la vacuità designi il nulla cioè la negazione dell’esistenza, il che naturalmente non è vero. Simili fraintendimenti spingono Sua Santità il Dalai Lama a parlarne così a fondo e ripetutamente nel tentativo di correggere le erronee interpretazioni.
 Nell’antichità il filosofo era altamente considerato, ritenuto degno di ogni onore e ciò comportava che si potessero trattare questi argomenti lungamente e in modo approfondito e sofisticato, oggi invece con la sola filosofia non ci si può permettere nemmeno un cappuccino e in un mondo che considera il tempo denaro chiaramente simile dialettica è impossibile. 
 Questi principi non sono mutati nel tempo ma è necessario trovare modalità di comunicazione adatti alla nostra mentalità e capacità, con metodi educativi a noi consoni che ci facciano comprendere la realtà della natura interdipendente. Così ci sarà un nuovo Nagarjuna del XXI° secolo.
 Questa è la flessibilità del Dharma, perché lo spirito del Dharma non cambia mai, ma mutano le modalità di espressione che devono corrispondere alla mentalità e alla cultura dell’epoca. Il monaco moderno cammina con il computer e il cellulare non più con la ciotola per le elemosine, oggi sarebbe impossibile altrimenti, ma lo spirito del Dharma non cambia mai, compie una continua azione di adattamento relativo al contesto in cui si trova.
 Certamente riuscire a far comprendere cosa sia la vacuità, la natura interdipendente dei fenomeni, attraverso i canali educativi contemporanei sarà un’operazione che richiederà molto tempo. Dobbiamo aspettare l’avvento di un Maitreya del XXI° secolo.





Lhag-thong - Meditazione della Visione Profonda


Il Lhag-thong è la visione profonda, letteralmente, “lhag” significa oltre, qualcosa di speciale che va oltre, e “thong” visione, quindi è una visione più profonda, che va oltre ed è frutto della presenza mentale; se non c’è presenza mentale e consapevolezza non vi può essere il Lhag-thong basato su Shiné, la calma dimorante, la mente che dimora nella calma. 
Shiné è alle fondamenta della visione profonda, lo stato di calma dimorante concentrata sulla meditazione sul singolo punto. Il motivo principale per cui la mente difficilmente è in uno stato di calma è il suo continuo movimento, l’incapacità di fermarsi. Focalizzare la mente, concentrarla su un singolo oggetto permette di ottenere una certa calma e tranquillità. 
Nella concentrazione e nella calma la mente acquisisce anche una maggiore acutezza. Il Lhag-thong, la visione intuitiva profonda, è rappresentato spesso dalla spada, perché la visione intuitiva profonda è un’arma per tagliare l’ignoranza. Simbolica è l’immagine di Maňjusri che in una mano brandisce la spada e nell’altra la scrittura, il testo della “Perfezione del Sutra della Saggezza”. La spada simbolizza la saggezza che realizza la realtà ultima, è la spada che recide l’ignoranza. 
Nella pratica del Lhag-thong è fondamentale conoscere le caratteristiche dell’ignoranza, opposta alla saggezza, l’ignoranza dei fattori mentali costruiti su concezioni erronee. In questo contesto le concezioni erronee sono riferite all’io, al sé, e ai fenomeni. L’effetto pratico è immediatamente evidente perché tramite l’io si tocca direttamente un aspetto della nostra vita per cui, avendone una concezione erronea, tutto ciò che faremo otterrà un risultato erroneo. 
Una errata concezione del sé porta di conseguenza un’errata concezione dei fenomeni. Dall’erronea concezione dell’io sorge l’attaccamento all’io e dall’attaccamento all’io si passa immediatamente all’altro livello, ad affermare il “mio”, e dall’affermare il “mio” si innesca una catena di errori che ci coinvolgono in una serie ininterrotta di situazioni sbagliate, di problemi, di difficoltà, non frutto dell’intenzione diretta, ma che sgorgano naturalmente, automaticamente, dalle concezioni erronee del sé e dei fenomeni. 
In questo modo si può comprendere chiaramente come tutte le difficoltà, i problemi, le preoccupazioni che incontriamo nel corso dell’esistenza abbiano origine nell’errata concezione dell’io e del sé. 
Nel momento in cui prendiamo coscienza che tutti gli offuscamenti sorgono dall’erronea concezione del sé e dell’io che cosa dovremmo fare? 
Lo yogi, il praticante, dovrebbe in primo luogo sforzarsi di comprendere che cosa sia veramente l’io, ed è molto interessante, perché non si dice di ignorare o abbandonare l’io, ma di realizzare cosa esso sia. 
L’autorealizzazione è la conoscenza del sé. Il grande fraintendimento è pensare che l’autorealizzazione sia una conoscenza che uno fa da sé, mentre è la conoscenza di sé. Conoscere il sé è la saggezza, un compito davvero difficile. Conoscere sé è conoscere gli altri e conoscere gli altri è conoscere sé. 
Se conoscere il sé è saggezza, il non conoscere il sé è ignoranza. Per quanto noi possiamo ritenere di conoscere noi stessi e gli altri, e tutto quello che facciamo nella vita quotidiana si basa su questa certezza, è probabile che noi non conosciamo realmente e profondamente noi stessi. Tutti i nostri errori e tutte le nostre buone qualità dipendono da quanto noi conosciamo noi stessi.
Maňjusri è uno dei corpi di godimento, è un Sambhogakāya, è il corpo di fruizione di quel tipo di mente che, attraverso la realizzazione della saggezza, ottiene l’illuminazione espressa appunto nella forma fisica di Maňjusri. L’emanazione di Maňjusri può apparire in forme differenti che sono le quattro forme del Buddha della Saggezza. 
Lhag-thong è autorealizzazione, realizzazione del sé, è la conoscenza del sé.
Domanda: In ambito buddhista in passato ci sono stati forti attacchi sui termini ātman o anima, perché?
Lama: Gli attacchi erano essenzialmente relativi all’utilizzo di termini particolari, come ātman o anima che potevano indurre a concezioni differenti del sé, dell’io, ma si tratta di una diatriba antica, conclusa almeno una trentina di anni fa, e comunque mai appartenuta alle sfere alte, erudite, realizzate, degli studiosi e dei praticanti. Nell’induismo stesso il Buddha è considerato un’emanazione di Visnu e i termini ātman e anima sono stati indagati a fondo e hanno assunto sofisticatezze tali di ragionamento difficili da cogliere, per cui discussioni di questo genere, così accalorate, possono verificarsi in realtà solo a livelli molto bassi di conoscenza. L’attacco si ferma su un piano meramente linguistico perché, se si volesse affrontare il concetto nel suo contenuto profondo, nessuno saprebbe di cosa sta parlando. 
 Ătman o ānatman, cioè non-ātman, sono solo stigmatizzazioni, gli induisti parlano di ātman e i buddhisti di ānatman, ma di cosa si tratta? Forse della stessa cosa, nessuno lo sa realmente. 
 Il vero io è il non-io, e il vero ātman è il non-ātman e il non-ātman è il vero ātman. Ad uno stadio elevato di comprensione e di studio risulta evidente la loro contiguità e solo a livelli molto bassi ci si attacca alla terminologia concludendo che, se un termine è la negazione dell’altro, necessariamente sono in conflitto. Uno dei principi fondamentali dell’induismo è il Sarnatandharma il cui significato corrisponde al Dharma buddhista. 
 Non bisogna cercare sempre differenze tra buddhismo e induismo perché sono rami che provengono dalla stessa pianta. Quello che si dice dell’ ātman vale anche per l’io, l’io esiste a livello convenzionale, ma a livello ultimo, definitivo, l’io non esiste, non può esistere al di fuori della sua interdipendenza. 
 La stessa cosa vale per la compassione, avere cura di sé è ātman, ma avere una cura di sé non egoistica è ānatman. E’ evidente quanti livelli differenti e complessità di accezione compongano queste definizioni. E’ importante l’ecumenismo.





I tre yoga Karma, Bakti e Gyani Yoga


I tre modi di praticare il Dharma, Karma, Bakti e Gyani Yoga, coprono tutti gli aspetti della vita trasformandola in stessa pratica del Dharma. 
E molto bella l’armonia creata dalle preghiere del bakti yoga, con il karma yoga, dell’azione, legato alle attività, uniti allo Gyani yoga che è lo yoga della conoscenza della comprensione.
E’ stata davvero interessante la lettura di questa mattina, ma non è necessario cercare sempre testi complicati, è sufficiente l’applicazione di questi tre yoga, comprendono tutto il Dharma e trasformano la nostra vita.





Sutra del Cuore della Saggezza, Madre di tutti i Buddha

Parte prima 

Il Sutra che tratta della Perfezione della Saggezza è la Prajňāpāramitā, la Madre definitiva di tutti i Buddha, è l’aspetto femminile, estremamente importante nella nostra esistenza. 
In quasi tutte le tradizioni religiose si ritrova l’aspetto fondamentale della Madre divina che, pur assumendo nomi diversi, rappresenta la stessa essenza. Nella tradizione cristiana è la Madonna, in quella induista Khali, e nel buddismo tibetano ci sono tantissime grandi madri, un aspetto è rappresentato da Sisemthelmo, la Madre Vittoriosa dell’Universo, un altro da Tārā ma, alla fine, l’essenza della Madre divina è la Perfezione della Saggezza, la Prajňāpāramitā. Tante tradizioni, molti nomi, differenti forme, ma stessa essenza finale: l’energia della Madre divina.
La manifestazione della saggezza che si è mostra in luoghi differenti, in forme differenti, è come una madre che protegge i suoi figli, la perfezione della saggezza soccorre tutti gli esseri umani.
L’aspetto femminile è la perfezione della saggezza, l’aspetto maschile è la bodhicitta, saggezza e compassione. La bodhicitta è costituita da molti mezzi abili o capacità che possono essere utilizzati solo con intelligenza; se manca la saggezza sono assolutamente inutili e, allo stesso modo, la sola saggezza priva di mezzi abili, non consente di progredire in alcun modo.
Come un bambino ha bisogno dell’energia del padre e della madre per crescere bene, così gli esseri umani hanno bisogno di entrambi gli aspetti di saggezza e compassione per sviluppare il piccolo Buddha che c’è in loro.
E’ importantissima la pratica devozionale della madre ma è fondamentale anche comprendere il significato della realizzazione della perfezione della saggezza della madre. 
Attraverso lo yoga della conoscenza e lo yoga della devozione automaticamente approdiamo allo yoga dell’azione, il karmayoga, l’attività svolta con saggezza. 
Il Sutra del Cuore è bellissimo da leggere e da meditare:

Il Cuore della Perfezione della Saggezza”
Il titolo sanscrito è : Bhagavati  Prajna Paramita Hridaya
Così una volta udii:
Il Bhagavan dimorava a Rajagrha, presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di Arhat e un gran numero di Bodhisattva e a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato “percezione profonda”. In quello stesso tempo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.
Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva e gli disse: “come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza?”
Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”.
“La forma è vuota, la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono vacuità; essi sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.”
“Quindi, Shariputra, nella vacuità non c’è forma, né sensazioni, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino a includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.”
“Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione della saggezza”.
“Quindi, si dovrebbe sapere che il mantra della perfezione della saggezza – il mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a ciò che non ha uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze – è vero perché non è ingannevole. Si proclama il mantra della perfezione della saggezza:
TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA
Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda perfezione della saggezza”.
Quindi, il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente.
“Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata se ne rallegreranno”.
Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli umani, degli asura e dei gandharva, tutti gioirono e lodarono ciò che il Bhagavan aveva detto.
***
Il mantra è il riassunto di tutto il Sutra:
Svaha è come l’Amen cristiano; Gaté è andare, non rimanere sempre nello stesso posto, andare oltre; Tadyatha è la via verso l’illuminazione; il primo Gaté è il passo dell’accumulazione, il secondo della preparazione; Paragaté è andare oltre sul passo delle visioni e Parasamgaté è andare ancora più oltre sul passo della Meditazione. Bodhi Svaha è la realizzazione del corpo dello stato di illuminazione. Sono i cinque sentieri che riguardano la profonda visione della vacuità: 
il sentiero dell’accumulazione;
il sentiero della preparazione;
il sentiero della visione;
il sentiero della meditazione;
il sentiero del non più apprendere
Il sentiero dell’accumulazione rappresenta il momento in cui si inizia l’analisi, lo studio, la riflessione della Prajňāpāramitā, la grande Madre della Perfezione della Saggezza.
Dopo aver sviluppato il sentiero dell’accumulazione in cui si è cercato di comprendere la perfezione della saggezza, si entra nel sentiero della preparazione in cui si comincia ad avere un immagine chiara e pura della perfezione della saggezza. Nel terzo sentiero, della visione, in realtà non si ha più bisogno di visualizzare immagini perché si vedono direttamente, non c’è più separazione.
Nel sentiero dell’accumulazione è come avere un amico di penna che si conosce solo tramite le descrizioni ma non lo si è mai visto, poi si riceve una fotografia e se ne ha un’idea, ed è il sentiero della preparazione, al terzo passo lo si incontra personalmente e lo si vede così com’è, ed è il sentiero della visione, lo si può riconoscere grazie alla fotografia che a sua volta ha avuto bisogno, per una comprensione corretta, delle precedenti descrizioni. Però, anche avendolo di fronte nel sentiero della visione non lo si conosce ancora, è necessario entrare in contatto, familiarizzare con questa persona, ed è il sentiero della meditazione. Dopo tutti questi passaggi si diventa amici perfetti, non c’è più nulla da apprendere, lo si conosce perfettamente, ed è il Bodhi Svaha, l’insegnamento di come si diventa amici della Madre della Perfezione della Saggezza.




Sutra del Cuore della Saggezza, Madre di tutti i Buddha

Parte seconda 

La divinità della Madre deve sempre essere tenuta presente, mai dimenticata. 
Abbiamo già ricordato che ci sono quattro aspetti del Buddha e la saggezza si esprime in modi diversi nell’intenzione compassionevole. 
La compassione è l’intenzione e la saggezza il protettore che, attraverso la compassione, si manifesta in molte forme per aiutare gli esseri senzienti.
La saggezza è l’assoluta realizzazione della realtà, quindi la realtà stessa diventa un fenomeno importante. In questa direzione in cui stiamo camminando sicuramente incontreremo la pace, tutto è detto nel mantra:

TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA
Andate verso quella realtà, andate in quella direzione, non perdete tempo da altre parti. 

Il Sutra del Cuore è magnifico, completo, può apparire ironico all’inizio ma, approfondendolo, lo si troverà sempre più interessante. Esistono molti commentari sul Sutra del Cuore, un testo fondamentale che ci indica come procedere senza errori in questo cammino.
Prima qualcuno parlava della meditazione camminata, ma riguardo a questo mantra attenzione ai fraintendimenti, non significa che si deve camminare, bensì sottintende Gaté Gaté, andare, andare, interiormente, spiritualmente andare oltre. 
Il Sutra del Cuore ha un significato nascosto, a livello esteriore sono espressi i cinque sentieri per realizzare la realtà ultima dei fenomeni, la vacuità, mentre a livello interiore si affronta la modalità corretta di seguire il sentiero lam-rim per raggiungere la vacuità.



I tre Principi Theravada: Sofferenza, Impermanenza, Non-io 


Ieri abbiamo esaminato i termini ātman e ānatman. Nella tradizione buddhista theravada, il canone Pali, ci sono tre principi: “dukkha - sofferenza”, “anicca - impermanenza” e “ānatman - non io”. 
In passato non sono mancate le controverse sulla questione dell’anima, del sé e del non-sé. I Buddhisti si riferiscono all’ānatman, termine tradotto in inglese con “non-sé”, mentre i cristiani affermano l’anima, nella tradizione vedica induista si parla di ātman e così le discussioni possono proseguire all’infinito. 
Alcuni sprecano molte energie nel tentativo di spiegare la differenza tra “sé e non-sé”, “ātman e ānatman”, ma è inutile perché tra anima e mente non c’è differenza, il cuore di un essere umano è l’anima, la mente. 
Il livello ultimo del sé è il non-sé. Il fondamento del Dharma alla rinuncia, il non egoismo è il non-sé. Il vero sé è il non-sé. Con intelligenza si può vedere molto chiaramente che non esiste contraddizione, soprattutto nella meditazione è tutto chiaro, se ne comprende l’essenza. 
Molte persone considerano sé e non sé, anima e non anima in modo separato, completamente errato, è come interpretare Gaté Gate in modo letterale e andare a fare una passeggiata. Questo fraintendimento è un grande problema. Invece dobbiamo essere intelligenti nel cogliere l’essenza profonda e vera senza lasciarci fuorviare da inutili diatribe letterali. 
Domanda: Che cos’è esattamente la meditazione camminata? 
Lama: Non ho mai analizzato nulla di particolarmente specifico su questo punto, ma non significa che non ci sia; è come se meditassimo dormendo e sarebbe meditazione addormentata, tu puoi meditare camminando, dormendo, mangiando, in qualsiasi situazione ti trovi puoi meditare. Le tradizioni possono essere diverse ma non contraddittorie, ad esempio in quella cinese si insegna a meditare camminando, mangiando, molto velocemente in modo da non perdere mai la concentrazione; al contrario il maestro vietnamita Thich Nath Han insegna a fare tutto con grande lentezza e consapevolezza. Anche nella tradizione theravada c’è la meditazione del camminare e del mangiare, ma senza particolari regole, fanno tutto normalmente, sono tre modalità differenti. 
Ricordiamo sempre i due livelli del Sutra del Cuore, uno esteriore che è la vacuità e uno interiore, nascosto, che è il lam-rim, il sentiero graduale.
Parlavamo anche del sé e non-sé, molto importante, quando si riconosce e si realizza il vero sé, si realizza il non-sé.
Domanda: Quindi realizzare il sé è realizzare che il sé non è così come noi lo percepiamo…
Lama: Realizzare il non-sé è riconoscere il vero sé. C’è un punto molto sottile in cui i due significati si incontrano, ātman e ānatman. L’io esiste nella forma del non-sé.
Domanda: Continuo a non capire.
Lama: Le due interpretazioni di ātman e ānatman non sono contraddittorie, nello stesso Sutra del Cuore ne è espresso il significato vero. Se limitiamo unicamente al piano mentale l’analisi di anima non anima, Dio non-Dio, otteniamo solo una grande confusione ma, scendendo nella meditazione, ne possiamo acquisire la visione chiara. 
 E’ importante realizzare l’equilibrio tra il sé e il non-sé per non cadere in grossolani errori. Se trovi la soluzione tra sé e non-sé trovi anche la soluzione tra Dio e senza Dio. Le categorie monoteismo, ateismo, o altro creano solo divisioni inutili e soprattutto sbagliate. 
 I piani sono due, uno convenzionale e uno ultimo. A livello convenzionale c’è l’ātman, i testi che affrontano l’esistenza di Dio, a livello più sottile si parla di ānatman, di Dio e non-Dio.
 Le divisioni restano a livello superficiale, la società ha bisogno di separare nettamente tra chi crede in Dio e chi non crede in Dio, tra monoteisti e non, ma è la spartizione artificiale, inesistente e scorretta di una realtà inscindibile.
 Il tentativo di comprendere i due livelli della realtà, quello superficiale e quello profondo, non è certamente facile ma è fondamentale per la realizzazione della grande compassione. 
 L’essere umano ha la grande possibilità di scegliere come muoversi, cosa fare, e per essere sicuro di procedere correttamente deve semplicemente mantenersi nella via di mezzo. 
 Se noi non conosciamo profondamente il nostro sé non sappiamo esattamente cosa fare, siamo confusi, ma non dobbiamo avere paura, basta procedere piano, un passo alla volta, mantenendosi nella via di mezzo. 


Dedica


(L’ audio della traduzione in italiano non è buono - non trascrivibile)

 Lama: (termine tibetano, in sanscrito guru) guida o maestro spirituale. Letteralmente: “ricco di qualità spirituali”.
 Bodhisattva: (termine sanscrito) colui che possiede la Bodhicitta.
 Liberazione: (in sanscrito moksha) eliminazione di tutte le emozioni afflittive o illusioni, ottenimento dello stato di Arhat, il sentiero della fine dell’apprendimento del sarvabuddha e del pratyekabuddha
 Piaceri dell’esistenza mondana: piaceri dominati dall’attaccamento ai piaceri dei sensi.
 Circostanze favorevoli e fortuna: avere buone opportunità e condizioni per praticare il Dharma.
 Fortunati: coloro che hanno incontrato il Dharma e sono capaci di praticarlo.
 Rinuncia: autentica intenzione di abbandonare il Samsara e raggiungere il Nirvana. 
 Oceano dell’esistenza: (in sanscrito samsara, in tibetano khor wa) attaccamento alle apparenze di questa vita, interesse per gli aspetti riguardante la vita presente.
 Samsara: (termine sanscrito) gli aggregati impuri di un essere senziente, che da tempo senza inizio hanno dato luogo al ciclo di morte e rinascita a causa dell’illusione e del karma, e hanno reso gli esseri senzienti carichi delle sofferenze dei sei regni fisici/spirituali.
 Attaccamento alle apparenze delle vite future: interesse per gli aspetti riguardanti le prossime vite nel samsara.
 Aspirazione alla più alta illuminazione: (in sanscrito Bodhicitta, in tibetano jang chub kyi sem).
 Insuperabile Bodhi: lo stato di Buddha. 
 Bodhicitta: (termine sanscrito) autentica aspirazione a raggiungere la completa illuminazione allo scopo di portare tutti gli esseri  senzienti allo stato di completa illuminazione.
  Quattro potenti fiumi: rinascita, invecchiamento, malattia e morte.
 Karma: (termine sanscrito, in italiano azione, in tibetano les) una sottile impronta nel continuum mentale proveniente da esperienze precedenti, la quale da impulsi ad azioni mentali e fisiche.
 Attaccamento al Sé: (in tibetano dag zin): percezione errata che si attacca all’idea di un Sé o di un Io intrinsecamente esistente.
 Tre sofferenze: sofferenza del dolore, sofferenza del cambiamento, sofferenza della condizione.
 Madri: tutti gli esseri  senzienti, i più cari, quelli che hanno recato più benefici.
 Intenzione altruistica di divenire un Risvegliato: in questo contesto si riferisce al Bodhicitta.
 Saggezza: realizzazione della Vacuità.
 La vera natura delle cose: la realtà ultima dell’esistenza delle cose, vacue di un’esistenza intrinseca.
 Radice del Samsara: l’ignoranza, il non vedere la verità, opposta alla saggezza.
 Origine interdipendente: (in tibetano ten byung) la realtà dell’esistenza delle cose e degli eventi, che esistono in modo interdipendente. 
 Nirvana: al di là della sofferenza, cessazione della sofferenza.
 Apparenze, ovvero l’inevitabilità dell’origine interdipendente: realtà convenzionale o verità convenzionale.
 Vacuità, ovvero la non-asserzione: realtà ultima o verità ultima.
 Pensiero del Buddha Shakyamuni: la natura non duale delle due verità.
 Visione: realtà ultima.
 Estremo dell’esistenza: l’idea che le cose esistano solo in maniera intrinseca o da sé. 
 Apparenza: Visione comune.
 Estremo della non-esistenza: l’idea che le cose non esistano, se non in maniera intrinseca.
 Vacuità: la vera natura dei fenomeni, non esistenti in maniera intrinseca.
 Visioni estremiste: Nichilismo ed Eternalismo. 
 I tre aspetti principali del sentiero: Rinuncia, Bodhicitta e Saggezza.
 Perseveranza entusiastica: sforzo gioioso nella pratica del Dharma. 
 Meta finale: illuminazione completa, stato di Buddha .
 Figlio mio: in maniera diretta, si riferisce a Tsakhowa Ngawang Dakpa; in maniera indiretta a coloro che desiderano realizzare i tre aspetti principali del sentiero.

 Terza parte non sempre chiara, la trascrizione può risultare incompleta o inesatta. Verificare con Geshe-la
 Bhagavati: (termine sanscrito, in tibetano: gyal wai yum) Madre Buddha, si riferisce alla “Saggezza della Perfezione”, che è la madre in quanto causa fondamentale dell’illuminazione.
 Bhagavati Prajna Paramita Hridaya: (sanscrito) il cuore della Bhagavathi, la perfezione della saggezza.
 Bhagavan: (termine sanscrito, in tibetano: chom dhen de) titolo generalmente attribuito a un essere illuminato; letteralmente significa “colui che ha completamente illuminato gli ostacoli e possiede tutte le qualità”; sinonimo di “Tathagata” (sanscrito) e di “de war sheg pa” (tibetano) nel senso di “colui che ha raggiunto lo stato di piena calma e piena illuminazione”. In questo brano ci si riferisce al Buddha Shakyamuni.
 Rajagrha: (termine sanscrito, in tibetano: gyal poe khab) luogo nel quale si erge un palazzo reale.
 Picco dell’Avvoltoio: montagna con la cima a forma di avvoltoio; luogo in cui venne impartito il sutra secondo la tradizione. Viene identificato popolarmente in una collina vicino a Rajagrha, nello stato indiano del Bihar.
 Arhat: (termine sanscrito, in tibetano: dra chom pa) colui che ha raggiunto il Nirvana. Detto anche Sravaka o Pratyekabuddha. Nel testo originale tibetano il termine è Bikshu, ma si intende Arhat. 
 Bodhisattva: (termine sanscrito, in tibetano: Jang chub sem pa). Essere che possiede il Bodhicitta.
 Assorbimento meditativo: (in sanscrito: samadhi, in tibetano: ting nge zin) una forma di meditazione.
 Varietà dei fenomeni: (in tibetano: choe kyi nam drang) i 5 aggregati (forme, percezioni, formazioni mentali e della coscienza); le 12 fonti dei sensi (le sei sorgenti dei sensi e le sei facoltà); i 18 elementi ( le sei sorgenti dei sensi, le sei facoltà e le sei coscienze); i 12 anelli della catena dell’origine interdipendente (Ignoranza, Azione volontaria, Coscienza, Nome e Forma, Sorgenti dei sensi, Contatto, Sensazioni, Attaccamento, Brama, Concepimento, Nascita, Invecchiamento e Morte); le 4 Nobili Verità (la Verità della sofferenza, la Verità delle cause della sofferenza, la Verità della cessazione e la Verità del sentiero); i 5 sentieri (Accumulazione, Preparazione, Visione, Meditazione e Non-più-apprendere); le 4 fiducie; i 10 poteri di Buddha; ecc… 
 Percezione Profonda: (in tibetano: zab mo nhang wa) vedere la vera e profonda realtà ultima dei fenomeni.
 Arya: (termine sanscrito, in tibetano: Phag pei Gang zag) un Essere superiore che ha raggiunto la saggezza della diretta realizzazione della vacuità o che ha seguito il sentiero in uno dei veicoli.
 Avalokitesvara: (termine sanscrito, in tibetano: Chen re zig) conosciuto come il “Buddha della compassione”.
 Bodhisattva mahasattva: (termine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po) Bodhisattva di ordine superiore o che ha conseguito il sentiero dei Bodhisattva o il sentiero mahayana della visione.
 La pratica della profonda perfezione della saggezza: (in tibetano: she rab kyi pha rol du chin pai zab moi chod pa).
 I cinque aggregati: (in sanscrito: skandha, in tibetano: phung po ngha) Forme, Sensazioni, Percezioni, Formazioni mentali, e della Coscienza.
 Vuoti di esistenza intrinseca: (in tibetano: ran shin gyi tong pa).
 Venerabile Bikshu: (in tibetano: thse dan dhen pa) titolo attribuito a un bikshu con mente sveglia e intelligente
 Shariputra: figlio di Sharit, conosciuto come bikshu dalla mente acuta fra i discepoli di Buddha Shakyamuni.
 Arya Avalokitesvara Bodhisattva mahasattva: (temine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po phags pa chen re zig) si riferisce a un singolo individuo conosciuto come Bodhisattva mahasattva Avalokitesvara, diverso dal “Buddha della compassione” Avalokitesvara. Qui infatti viene identificato come un Bodhisattva sotto le sembianze  di un bikshu, Bodhisattva, mahasattva e arya.
 Figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva: (in tibetano: rigs kyi bu vam rigs kyi bumo).
 Nirvana: (termine sanscrito, in tibetano: Nyang De) essere andato oltre la sofferenza.
 Mantra: (termine sanscrito, in tibetano: yid kyob) che protegge la mente.
 Thatagata: (termine sanscrito) sinonimo di Bhagavan.
 Asura: (termine sanscrito, in tibetano: lha ma yin) semi-dei che appartengono posto tra quello degli umani e degli dei.
 Gandharva: (termine sanscrito, in tibetano: di zha) esseri senza forma, che vivono nutrendosi di odori.